Tribunale di Napoli
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Azione di responsabilità esercitata dal curatore e criterio della differenza dei netti patrimoniali per la quantificazione del danno
L’azione ex art. 146 l. fall., proponibile nei confronti degli amministratori e dei liquidatori della società fallita, presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Così che una volta esercitata, il curatore soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili. Non si tratta di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore: la norma si limita ad attribuire al curatore la legittimazione (esclusiva) ad esercitare, in forma cumulativa, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali. In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori verso la società ha natura contrattuale, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.
L’amministratore di s.r.l. risponde in presenza (i) della violazione dei suddetti obblighi, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno.
Sebbene il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di s.r.l., quali il grado di diligenza richiesta secondo la natura dell’affare e le loro specifiche competenze e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di s.r.l. venga adottato lo stesso approccio valutativo utilizzato per gli amministratori di s.p.a. (ex artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.).
Il curatore che esercita l’azione di cui all’art. 146, co. 2, l. fall. ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’amministratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo, oppure a quello generale di diligenza, nonché ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso. Deve inoltre dimostrare che la società abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento degli amministratori, spettando, invece, all’amministratore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).
L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.
Il curatore che agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali deve provare l’inosservanza, da parte dell’amministratore, degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e che hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.
In forza del principio per cui gli amministratori devono amministrare la società secondo i doveri di diligenza e correttezza, in sede di verifica di tale adempimento, non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell’impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall’assunzione di un rischio. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali di gestione tuttavia non è assoluta. Sotto il profilo della relativa legittimità rileva, infatti, il modo con cui le scelte sono state assunte ed attuate, ossia il percorso decisionale che ha portato a preferire una determinata scelta, rispetto ad un’altra. Se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente — se necessario, con adeguata istruttoria — i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili. Spetta al giudice ripercorrere il procedimento decisionale, onde verificare che la decisione degli amministratori sia stata coerente e congrua rispetto alle informazioni da questi raccolte e valutare l’eventuale violazione del dovere di diligenza in relazione ai normali criteri di liceità, razionalità, congruità e attenzione che dovrebbero ispirare l’operatore economico.
Sotto il profilo della ragionevolezza della scelta e della prevedibilità dei risultati, gli amministratori devono poi ritenersi responsabili nei confronti della società quando le decisioni assunte non siano in alcun modo idonee a realizzare l’interesse della società, in quanto avventate o irrazionali, tali da permettere agli amministratori di prevedere l’erroneità dell’operazione compiuta.
Gli amministratori andranno esenti da responsabilità nel caso in cui provino di aver in buona fede raggiunto una decisione adeguatamente informata, ragionevole e in assenza di un interesse in conflitto con quello della società e di aver seguito le cautele e svolto le verifiche che si imponevano nel singolo caso. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgment rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito delle scelte effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante.
In tema di individuazione e quantificazione del danno, compete a chi agisce dare la prova della sua esistenza, del suo ammontare, degli specifici inadempimenti imputabili all’amministratore e del loro rapporto causalità, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili, rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.
L’art. 2486, co. 3, c.c., come modificato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha positivizzato il criterio per la quantificazione del danno c.d. “della differenza dei netti patrimoniali”. Tale criterio è stato utilizzato dalla giurisprudenza di merito soprattutto nelle ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, ed il raffronto viene fatto, in questi casi, tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, ovvero della sentenza dichiarativa di fallimento (se non preceduta dalla fase di liquidazione). Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, anche se anch’esso sconta alcuni automatismi presuntivi che sono propri dell’altro criterio differenziale (differenza tra attivo e passivo fallimentare), in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.
Legittimati ad agire con l’azione di simulazione sono i terzi che siano attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla simulazione (artt. 1415, co. 2, e 1416, co. 2, c.c.), non essendo necessario che il pregiudizio sia attuale e che l’inadempimento si sia già verificato, essendo sufficiente la dimostrazione del pericolo di lesione o di insoddisfacimento del credito e della maggiore difficoltà od onerosità dell’adempimento. Infatti, a differenza dell’actio pauliana, che presuppone l’eventus damni, e per gli atti a titolo oneroso il consilium fraudis, per la proponibilità dell’azione di simulazione da parte del creditore è sufficiente che questi abbia un legittimo interesse a vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo del creditore stesso ed indipendentemente dall’epoca in cui è sorto il credito di chi agisce. È terzo creditore legittimato ad agire anche il titolare di un credito illiquido e non esigibile, giacché anche questi ha interesse a prevenire il danno che potrebbe derivargli dall’atto simulato, al momento in cui il credito si rendesse esigibile.
La prova della partecipatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.
Pregiudizialità e connessione tra le azioni di responsabilità e di riduzione nei confronti dell’amministratore ed erede legittimario pretermesso
Ai sensi dell’art. 3, co. 3, del d.lgs. n. 168 del 2003 la ragione di connessione della causa con le materie di cui all’art. 3, co. 1 e 2, del medesimo decreto legislativo, in virtù della quale spetta alla Sezione specializzata in materia di impresa la cognizione sulla domanda connessa, sussiste nelle ipotesi di connessione c.d. qualificata, inquadrabile nello schema della pregiudizialità-dipendenza o della pregiudizialità tecnica, la quale afferisce alla particolare relazione sostanziale tra i rapporti giuridici controversi contemplata dagli artt. 31 ss. c.p.c.
Tra l’azione di riduzione in surroga del legittimario pretermesso e l’azione di accertamento della responsabilità contro l’amministratore esercitata ai sensi dell’art. 146 l. fall. non si configura un rapporto di pregiudizialità tecnica tale da giustificare la loro prosecuzione simultanea, ma un rapporto di pregiudizialità meramente logica tra la ragione del credito, vantata dalla curatela nell’azione di riduzione in surroga ex artt. 557 e 2900 c.c., e il rapporto giuridico complesso, da cui essa trae origine.
Ne discende che non è configurabile un’ipotesi di connessione qualificata tra le domande che fondi la competenza della Sezione specializzata in materia di impresa sulla domanda di riduzione in surroga ex artt. 557 e 2900 c.c. per ragioni di connessione.
Cessazione della materia del contendere per rinuncia al progetto di fusione nell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c.
Seppur con la riforma del 2003 siano venuti meno i limiti di ammissione di società sottoposte a procedure concorsuali alla fusione, rispetto a tale operazione devono essere previste idonee garanzie per i creditori della società in bonis che vi partecipi, non potendosi porre i creditori della società in bonis in condizione di par condicio con i creditori della società dichiarata fallita.
Nel contesto dell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c. alla fusione per incorporazione di una società in liquidazione in una società fallita, la rinuncia al progetto di fusione nel corso del giudizio determina la cessazione della materia del contendere: se la fusione non prevedeva alcuna garanzia ulteriore rispetto alla possibilità di proporre opposizione ex art. 2503 c.c., le spese del processo vanno poste a carico della società debitrice e della società fallita.
Responsabilità da direzione e coordinamento e qualificazione dei versamenti effettuati dai soci
In tema di azione di responsabilità ex art. 2497, co. 2, c.c. nei confronti degli organi della società controllante ed esercente attività di direzione e coordinamento, la norma in questione prevede un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale riconducibile alla violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale dell’attività di direzione e coordinamento della società controllata da parte della controllante, con il corollario, da un punto di vista processuale, dell’onere della prova a carico della parte attrice in merito all’esistenza dei requisiti del fatto illecito disciplinato dall’art. 2497 c.c., da ricondurre nello schema aquiliano di cui all’art. 2043 c.c.
L’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento rappresenta un fatto naturale e fisiologico, di per sé legittimo, che, tuttavia, al contempo richiede siano prefissati i limiti, oltrepassati i quali una tale attività diviene illegittima e fa sorgere la responsabilità di colui che, per tal modo, ne abusa: la direzione e coordinamento deve essere caratterizzata, ex art. 2497 c.c., dall’osservanza di principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate, nel senso che l’unitarietà della direzione non può giustificare l’utilizzo delle gestione delle imprese controllate ad esclusivo beneficio dell’interesse delle società controllanti, bensì per il coordinamento degli interessi delle due; l’inosservanza dei principi di corretta gestione predetti espone a responsabilità le società controllanti, insieme con i propri amministratori.
L’azione ex art. 2497 c.c. è soggetta al termine quinquennale di prescrizione che decorre dal momento del fatto illecito, anche se esercitata dal curatore fallimentare in luogo dei creditori della società eterodiretta, secondo la previsione dell’art. 2497, ult. co., c.c., senza che egli possa invocare il decorso del termine dalla data della dichiarazione di fallimento, dalla quale deriva solo la sostituzione della legittimazione del curatore a quella dei creditori, senza che però l’azione muti carattere.
L’art. 2497, co. 3, c.c., nel sancire che il socio e il creditore possano agire nei confronti della società che esercita attività di direzione e coordinamento solo nel caso non siano stati soddisfatti dalla società eterodiretta non prevede una condizione di procedibilità dell’azione di responsabilità, consistente nell’infruttuosa escussione del patrimonio della controllata o nella previa formale richiesta risarcitoria ad essa rivolta, avendo il legislatore posto unicamente in capo alla società capogruppo l’obbligo di risarcire i soci e i creditori sociali danneggiati dall’abuso dell’attività di direzione e coordinamento. Dunque, il socio (o il creditore sociale) che intende promuovere un’azione di risarcimento del danno nei confronti di una società che ha esercitato abusivamente attività di direzione e coordinamento non è tenuto, ai sensi dell’art. 2497, co. 3, c.c., ad escutere preventivamente il patrimonio della controllata, poiché tale norma non pone una condizione di procedibilità dell’azione di responsabilità, ma si limita a prevedere un’ulteriore ipotesi, meramente fattuale, per la quale l’obbligo risarcitorio in capo alla società dominante viene meno.
Il termine di prescrizione dell’azione nei confronti della società controllante e degli organi della stessa non può decorrere dal fallimento o, comunque, dall’insolvenza della società eterodiretta, ma dalla data di compimento del fatto illecito, ossia dall’inadempimento agli obblighi gravanti sugli stessi, che abbia concorso alla produzione del danno ai soci o ai creditori sociali della controllata.
L’erogazione di somme dai soci alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato a confluire in apposita riserva “in conto capitale”; in quest’ultimo caso non nasce un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, connotato dalla postergazione della sua restituzione rispetto al soddisfacimento dei creditori sociali e dalla posizione del socio quale residual claimant.
La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio che richieda la restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi.
La ratio della norma dell’art. 2467 c.c. è di conservare l’apporto economico dei soci a servizio dell’attività svolta dall’impresa sociale, al fine di evitare che il rischio correlato all’impresa priva di adeguati mezzi propri sia posto a carico dei creditori esterni alla società.
I versamenti, variamente denominati, la cui comune caratteristica consiste nell’essere destinati a incrementare il patrimonio della società senza riflettersi sul capitale nominale, vanno a costituire una riserva di capitale (e non di utili) con conseguente esclusione di qualsivoglia pretesa restitutoria per tutta la durata della società. In caso di versamento del socio in conto aumento capitale, il diritto alla restituzione (prima e al di fuori del procedimento di liquidazione) sussiste soltanto nell’ipotesi in cui il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla successiva delibera di aumento di capitale e tale delibera non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice.
L’art 2467 c.c. non opera solo in caso di fallimento, ma già durante la vita dell’impresa, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sarà superata la situazione di difficoltà economica. Ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento ove tale situazione di squilibrio sia esistente al momento della concessione del finanziamento ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi.
La situazione di squilibrio rilevante ai fini dell’operatività della postergazione non si identifica con lo stato di insolvenza, ma nella sproporzione tra indebitamento e patrimonio netto o, comunque, in una situazione di squilibrio finanziario che avrebbe ragionevolmente richiesto un conferimento piuttosto che un finanziamento.
La violazione della regola di cui all’art 2467 c.c. può dar luogo a plurime forme di tutela, quali una tutela di natura risarcitoria per il creditore pregiudicato, un’azione di responsabilità verso l’organo amministrativo che abbia deciso il rimborso o, in sede concorsuale, l’inefficacia dell’atto di rimborso al socio della somma a favore della società. Pertanto, sono responsabili, ai sensi degli artt. 2394 c.c. e 146 l. fall., gli amministratori di una società fallita che abbiano restituito somme ai soci in violazione dell’art. 2467 c.c.
In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto dannoso imputabile a più persone, fonte di responsabilità solidale ex art. 2055 c.c., la natura del titolo di responsabilità, che fonda la pretesa risarcitoria azionata, condiziona l’individuazione del termine di durata della prescrizione per il quale, in caso di coincidenza tra fatto costituente reato e fatto determinativo dell’illecito civile, si applica la più lunga durata stabilita per il primo, in base all’art. 2947, ult. co., c.c.; la diversità dei titoli di responsabilità, invece, non incide sulla interruzione del termine di prescrizione di volta in volta rilevante, essendo in tal caso applicabile la regola di cui all’art. 1310, co. 1, c.c., il quale rende l’atto interruttivo compiuto dal creditore contro uno dei debitori in solido efficace anche nei confronti degli altri debitori solidali. In tema di obbligazioni derivanti da una pluralità di illeciti ascrivibili a differenti soggetti, qualora soltanto il fatto di un obbligato sia anche reato, mentre quelli degli altri costituiscano illeciti civili, la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947, co. 3, c.c. per le azioni di risarcimento del danno se il fatto è previsto dalla legge come reato, è limitata all’obbligazione nascente dal reato.
In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito costituente reato, la previsione dell’art. 2947, co. 3, c.c. si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della conseguente pretesa risarcitoria, sicchè è invocabile non solo per l’azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile (quale un amministratore), ma anche per quella esercitabile contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (quale la società, che, ai sensi dell’art. 2049 c.c., risponde civilmente dell’illecito penale commesso dal suo amministratore).
Il socio che abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società risponde in concorso con gli amministratori dei danni arrecati alla società medesima; l’amministratore di diritto risponde delle condotte criminose poste in essere da chi si sia di fatto ingerito nella gestione dell’impresa, allo stesso invece spettante, e su cui non abbia vigilato.
Interesse del socio di cooperativa a una pronuncia di accertamento della legittimità del proprio recesso
Il socio di società cooperativa a responsabilità limitata che abbia correttamente esercitato il diritto di recesso in conformità con le disposizioni statutarie (secondo quanto previsto dall’art. 2532 c.c.) ha interesse, in caso di silenzio dell’organo amministrativo, ad ottenere una pronuncia del giudice che accerti la legittimità del suo recesso alla data in cui questo è stato comunicato alla società. Infatti, il silenzio dell’organo amministrativo non ha valore di assenso alla manifestata volontà di recedere.
Dall’accertamento della legittimità del recesso, consegue il riconoscimento del diritto alla liquidazione della quota, secondo quanto previsto dall’art. 2535 c.c.
Utilizzabilità della c.t.u. e inadempimento dell’amministratore nell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall.
Nell’ambito di un’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., è inutilizzabile la c.t.u. contabile nella parte in cui sia finalizzata a svolgere indagini ricostruttive della documentazione copiosa e determinante depositata dalla parte in sede di apertura dei lavori peritali. Invero, essendo la c.t.u. uno strumento di conoscenza di fatti, ne deriva che possa avere ad oggetto solo fatti e documenti già versati in atti nel rispetto dell’art. 2697 c.c. La consulenza tecnica non può infatti diventare uno strumento con il quale le parti possono aggirare le decadenze dagli obblighi di allegazione fattuale e deposito documentale in cui sono eventualmente incorse.
È certamente inadempiente e come tale direttamente responsabile l’amministratore che abbia sistematicamente omesso il versamento di tributi e oneri previdenziali, al quale è tenuto ex art. 2392 c.c., gravando il bilancio della società di sanzioni ed interessi che non vi sarebbero stati in presenza di adempimento.
Diritto dell’amministratore di società di capitali alla percezione del compenso
Il principio di cui all’art. 2389 c.c., secondo il quale gli amministratori di s.p.a. hanno diritto ad un compenso per l’attività svolta per conto della società, è applicabile analogicamente anche agli amministratori di s.r.l.
L’ammontare del compenso spettante all’amministratore di società di capitali per l’opera prestata è stabilito all’atto della nomina o dall’assemblea con successiva ed autonoma deliberazione e, in difetto di tali manifestazioni formali, deve essere giudizialmente determinato su domanda dell’amministratore, anche mediante liquidazione equitativa, in applicazione dell’art. 1709 c.c., rimanendo prive di effetti eventuali altre forme di determinazione, tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge.
Non esiste un compenso minimo degli amministratori, tanto è vero che essi possono accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguato al lavoro svolto, anche se, in tali ipotesi, vi deve essere il loro consenso, ancorché tacito. Del resto, il diritto al compenso degli amministratori è disponibile e, come tale, può costituire oggetto di rinuncia, pure tacita, purché inequivoca. Ed invero, in tema di compenso in favore dell’amministratore di una società di capitali, che abbia agito come organo, legato da un rapporto interno alla società, e non nella veste di mandatario libero professionista, la facoltà dell’amministratore di insorgere avverso una liquidazione effettuata dall’assemblea della società in misura inadeguata, per chiedere al giudice la quantificazione delle proprie spettanze, viene meno, vertendosi in materia di diritti disponibili, qualora detta delibera assembleare sia stata accettata e posta in esecuzione senza riserve.
Ai fini della determinazione giudiziale del compenso dell’amministratore, il giudice può avvalersi di una pluralità di criteri, tra cui la situazione societaria, la resa economica, l’impegno dell’amministratore, i criteri adottati in precedenti esercizi, il compenso corrente nel mercato per analoghe prestazioni in relazione a società di medesime dimensioni [nel caso di specie, il Tribunale ha applicato gli artt. 15 ss. della tabella C ex d.m. 140/2012 disciplinanti il compenso spettante ai commercialisti per le attività di amministrazione, consulenza e redazione bilancio].
Sull’onere della prova nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di società cooperativa
Nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa, incombe sulla società – che, pur se formalmente convenuta, ha sostanziale veste di attore – l’onere di provare i fatti posti a fondamento dell’atto ed in base ai quali risulti adottata la deliberazione impugnata, senza poter invocare in giudizio, a sostegno della legittimità medesima, fatti distinti e diversi, ancorché potenzialmente idonei a giustificare l’interruzione del rapporto societario.
Azione sociale di responsabilità ex art. 2476 c.c. e annullamento di lodo arbitrale irrituale per vizio del contraddittorio
Ai sensi dell’art. 2476 c.c. il socio è investito di una legittimazione straordinaria, in quanto titolare del diritto dedotto in giudizio è la società. Per tale ragione, deve ritenersi che la società assuma la qualità di litisconsorte necessario del socio e che il socio agisca non uti singulus ma in qualità di sostituto processuale della società. Ne deriva che la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della società in persona di un curatore speciale costituisce un vizio di costituzione del rapporto processuale a cui consegue la nullità dell’intero giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo.
Il lodo irrituale è soggetto al regime delle impugnative negoziali in ragione della sua natura di negozio di accertamento.
Impugnazione di lodo irrituale e omessa nomina del curatore speciale
Il giudice competente a decidere della domanda di impugnativa del lodo irrituale, per i motivi di cui all’art. 808 ter c.p.c., è il tribunale del luogo di pronuncia del lodo. Oltre ai casi di impugnabilità del lodo irrituale previsti dall’art. 808 ter c.p.c., il lodo irrituale è soggetto al regime delle impugnative negoziali, in ragione della sua natura di negozio di accertamento.
Quanto al perimetro del sindacato del giudice ordinario con riferimento all’errore, si osserva che nell’arbitrato irrituale, il lodo può essere impugnato per errore essenziale esclusivamente quando la formazione della volontà degli arbitri sia stata deviata da un’alterata percezione o da una falsa rappresentazione della realtà e degli elementi di fatto sottoposti al loro esame (c.d. errore di fatto), e non anche quando la deviazione attenga alla valutazione di una realtà i cui elementi siano stati esattamente percepiti (c.d. errore di giudizio). Ne consegue che il lodo irrituale non è impugnabile per errores in iudicando, neppure ove questi consistano in una erronea interpretazione dello stesso contratto stipulato dalle parti, che ha dato origine al mandato agli arbitri; né, più in generale, il lodo irrituale è annullabile per erronea applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale o, a maggior ragione, per un apprezzamento delle risultanze negoziali diverso da quello ritenuto dagli arbitri e non conforme alle aspettative della parte impugnante. Di conseguenza, il lodo arbitrale irrituale non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la violenza, il dolo o l’incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico e dell’arbitro stesso.
L’art. 2476 c.c. prevede che l’azione di responsabilità contro gli amministratori possa essere promossa dal singolo socio. Il socio, però, è investito di una legittimazione straordinaria, in quanto il titolare del diritto dedotto in giudizio è la società, che pertanto assume la qualità di litisconsorte necessario non dei convenuti bensì del socio, che agisce non uti singulus, ma in qualità di sostituto processuale della società. Tale conclusione trova conforto nella circostanza che l’interesse protetto è quello sociale, in quanto la società è soggetto creditore dell’obbligo inadempiuto e titolare del diritto al risarcimento dei danni, cui è riconosciuto il potere di rinunciare e transigere ex art. 2476, co. 5, c.c. La società, inoltre, in caso di accoglimento della domanda, è tenuta ex lege a rimborsare al socio che ha agito le spese legali. La necessaria partecipazione della società discende, quindi, dal principio generale in forza del quale ogni volta che il giudizio sia promosso da un soggetto investito di legittimazione straordinaria, è considerato litisconsorte necessario anche il soggetto titolare del diritto dedotto in giudizio dal sostituto, per garantire il rispetto del diritto al contraddittorio e alla difesa in giudizio, considerato che la sentenza produce effetti anche nei suoi confronti.
L’omessa nomina del curatore speciale nel caso di conflitto d’interesse costituisce un vizio di costituzione del rapporto processuale a cui consegue la nullità dell’intero giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo, per violazione del principio del contraddittorio e, più in particolare, della garanzia del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.