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Tribunale di Torino


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15 Dicembre 2020

Contraffazione di brevetto per equivalenti e applicazione del principio del “file history estoppel”

L’ambito di protezione del brevetto non si limita a quanto letteralmente rivendicato, ma abbraccia ciò che riproduce il contenuto essenziale dell’invenzione e quindi comprende anche elementi equivalenti rispetto a quelli rivendicati. Pertanto, per valutare se vi sia contraffazione per equivalenti, va in primo luogo individuato il contenuto essenziale dell’invenzione. Per l’individuazione del contenuto essenziale del brevetto si deve tenere conto delle limitazioni apportate all’originario testo brevettuale a seguito delle procedure di opposizione davanti all’EPO. Allorché l’inventore del brevetto abbia limitato il brevetto, introducendo una caratteristica specifica durante la fase di opposizione, l’esclusione volontaria di tale caratteristica dalla rivendicazione impedisce di recuperare quella soluzione alla tutela brevettuale avvalendosi della dottrina degli equivalenti, altrimenti restando violato l’affidamento dei terzi in buona fede circa la portata oggettiva del brevetto. Infatti, il brevetto deve essere interpretato alla luce della c.d. dottrina dell’estoppel, istituto di common law secondo cui ad una parte in causa è vietato prendere vantaggio da dichiarazioni contraddittorie che abbiano creato aspettative verso altri soggetti ed, in particolare, del principio della “file history estoppel”, secondo il quale le ragioni addotte nel corso dell’esame brevettuale, per indicare la validità del brevetto, sono fortemente considerate nel corso di una successiva causa di contraffazione. Nell’interpretare l’estensione della tutela brevettuale il Giudice deve bilanciare l’equa protezione del titolare del brevetto con la tutela dell’affidamento e la certezza dei terzi. In tale indagine il volontario inserimento, nell’ambito del procedimento per il rilascio del brevetto, di caratteristiche volte a delimitare la tutela brevettuale, al fine di assicurarsi il rilascio del brevetto, assume di regola un rilievo del tutto secondario e, comunque, è irrilevante se determinato dalla necessità di superare un’obiezione solo formale in quella sede sollevata, in quanto non attinente ai requisiti di validità sostanziale del brevetto. Per converso, la limitazione acquista rilevanza qualora la caratteristica non sia stata inserita per pura formalità, bensì perché necessaria per superare le anteriorità invalidanti ed indispensabile perché l’ufficio, nella procedura di opposizione, ritenesse sussistere l’originalità rispetto alle anteriorità comprese nello stato della tecnica. Ne consegue che ciò che è stato escluso dalla tutela non può essere recuperato a posteriori attraverso la dottrina degli equivalenti, con conseguente illegittima estensione della protezione brevettuale.

1 Dicembre 2020

Distinzione tra cessazione della materia del contendere e rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 c.p.c.

La pronuncia di “cessazione della materia del contendere” costituisce, nel rito contenzioso ordinario davanti al giudice civile (privo, al riguardo, di qualsivoglia, espressa previsione normativa, a differenza del rito amministrativo e di quello tributario), una fattispecie creata dalla prassi giurisprudenziale e applicata in ogni fase e grado del giudizio, da pronunciare con sentenza, d’ufficio o su istanza di parte, ogniqualvolta non si possa far luogo alla definizione del giudizio per rinuncia alla pretesa sostanziale o per il venir meno dell’interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio stesso [nella specie, per intervenuta sostituzione della delibera assembleare della domanda].

La rinunzia alla domanda non richiede formule sacramentali e può essere anche tacita e va riconosciuta quando vi sia incompatibilità assoluta tra il comportamento dell’attore e la volontà di proseguire nella domanda proposta; detta rinuncia si configura, tra l’altro, nella dichiarazione di non voler insistere nelle domande proposte e determina, indipendentemente dall’accettazione della controparte (richiesta, invece, per la rinuncia agli atti del giudizio), l’estinzione dell’azione e la cessazione della materia del contendere, la quale va dichiarata anche d’ufficio. La rinuncia espressa o tacita alla domanda (o ai suoi singoli capi) rientra fra i poteri del difensore, distinguendosi così dalla rinunzia agli atti del giudizio, che può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale nelle forme rigorose previste dall’art. 306 c.p.c., e non produce effetto senza l’accettazione della controparte. Nella rinuncia espressa o tacita alla domanda, a differenza della fattispecie di cui all’art. 306 c.p.c. (rinuncia agli atti del giudizio), non trova applicazione la disposizione secondo cui la rinuncia deve essere fatta verbalmente all’udienza o con atto sottoscritto dalla parte e notificato alle altre parti, giacché la rinuncia ad un capo della domanda rientra tra i poteri del difensore e può essere fatta senza l’osservanza di forme rigorose.

Mentre nella rinuncia ex art. 306 c.p.c., il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti (salvo diverso accordo tra loro), nel caso di declaratoria di cessazione della materia del contendere le spese di lite devono essere liquidate dal giudice secondo il criterio della “soccombenza virtuale”, in base ad una ricognizione della “normale” probabilità di accoglimento della pretesa di parte su criteri di verosimiglianza o su indagine sommaria di delibazione del merito, che può condurre non soltanto alla condanna del soccombente, bensì anche ad una compensazione, purché ricorrano determinati presupposti di legge, in presenza di soccombenza reciproca o di gravi ed eccezionali ragioni.

19 Novembre 2020

Quantificazione dell’indennità per occupazione sine titulo dovuta dal socio escluso di cooperativa edilizia

L’indennità per occupazione sine titulo, nel caso di società cooperativa edilizia, è dovuta in applicazione analogica dell’art. 1591 c.c. – il quale, secondo la Corte di Cassazione, costituisce “espressione di un principio riferibile a tutti i tipi di contratto con i quali viene concessa l’utilizzazione del bene dietro corrispettivo” (cfr. Cass. 9977/2011 e Id. 15301/2000).

10 Novembre 2020

Sulla validità della clausola penale contenuta in uno statuto sociale

Deve ritenersi valida la clausola statutaria che preveda una penale per il socio in caso di suo inadempimento a specifici obblighi sociali, laddove la stessa sia sufficientemente determinata e ancori l’entità della penale a dati specifici e oggettivi. Non costituisce invece elemento essenziale, ai fini della validità di tale clausola, la previa comunicazione al socio della quantificazione precisa della penale che gli sarà addebitata in caso di suo inadempimento.

Il Tribunale può ridurre d’ufficio la penale che ritenga manifestamente eccessiva, sempre che la parte interessata assolva agli oneri di allegazione e di prova sulla medesima incombenti in ordine alle circostanze rilevanti, al fine di formulare un giudizio di manifesta eccessività della penale.

5 Novembre 2020

Azione revocatoria ordinaria avente ad oggetto una delibera assembleare di s.r.l.

Il terzo creditore di un socio unico di società a responsabilità limitata può promuovere, ex art. 2901 e ss. cod. civ., un’azione revocatoria ordinaria finalizzata a far dichiarare l’inefficacia di una delibera con cui l’assemblea abbia deliberato di coprire le perdite della società in parte ricorrendo a riserve e versamenti in conto capitale e versamenti pregressi, e in parte attraverso l’azzeramento del capitale sociale e sua successiva ricostituzione mediante un corrispondente aumento dello stesso offerto a soggetti terzi.

Una delibera di S.r.l. è revocabile benché non abbia come oggetto il diretto trasferimento della quota di partecipazione detenuta dal socio unico. Ciò che rileva, infatti, è il risultato finale che a mezzo di essa è stato conseguito, ossia l’uscita di quel rilevante asset dal patrimonio del socio unico, con conseguente pregiudizio delle ragioni del creditore.

 

 

 

29 Ottobre 2020

Il consenso degli altri dei soci all’ingresso degli eredi del socio defunto in una società semplice può desumersi da fatti concludenti.

L’articolo 2284 c.c. prevede il necessario consenso dei soci superstiti affinchè gli eredi del socio defunto acquistino la qualità di soci. Tuttavia questo consenso può desurmersi da “fatti concludenti”, cioè dal comportamento tenuto dagli altri soci di acquiescienza ovvero non contestazione dei comportamenti degli eredi che agiscono come soci compiendo atti di gestione della società (i.e. il pagamento delle imposte).

26 Ottobre 2020

L’appartenenza di una società ad un gruppo non legittima l’amministratore a depauperare tale società a beneficio di altre società del gruppo o della controllante

L’art. 2392 c.c. delinea una responsabilità di natura contrattuale per inadempimento dei doveri funzionali dell’organo amministrativo, il quale, nell’esecuzione del mandato, deve operare scelte volte alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, rispettando le regole (anche tecniche) di corretta gestione e la cui responsabilità che non viene meno neppure se ha agito in esecuzione di un mandato assembleare o in conformità di delibere del Consiglio di Amministrazione o con l’assenso (o il mancato dissenso) del Collegio Sindacale.

L’art. 2392 c.c. sancisce il principio di solidarietà verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei diversi obblighi posti a carico degli amministratori, a cui si aggiunge la responsabilità solidale dei membri del collegio sindacale quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità agli obblighi connessi alla carica: il che significa, in conformità ai principi generali in tema di solidarietà, che nei rapporti esterni ciascun amministratore sarà tenuto al risarcimento dell’intero, e che, eventualmente, il debito solidale potrà essere ripartito nei rapporti interni mediante azioni di regresso.

La business judgment rule opera esclusivamente quando le decisioni operative sono assunte secondo i principi di corretta gestione societaria e, quindi, quando gli atti di gestione (i) sono conformi alla legge e allo statuto sociale, (ii) non sono contaminati da situazioni di conflitto di interesse dei gestori, (iii) sono assunti all’esito di un procedimento di assunzione di informazioni propedeutiche alla decisione gestoria adeguato all’incidenza sul patrimonio dell’impresa e (iv) sono razionalmente coerenti con le informazioni e le aspettative di risultato emerse dal procedimento istruttorio.

A fronte di comportamenti dell’amministratore che ledono il patrimonio dell’ente a vantaggio di altre società del gruppo, e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire una corretta gestione societaria, gli eventuali benefici compensativi non possono ritenersi sussistenti solo perché la società fa parte di un gruppo, dovendo l’amministratore “farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta”, e fermo restando che non si possono considerare compensabili nel senso indicato dalla norma i pregiudizi che minano l’esistenza stessa della società del gruppo, né tantomeno i pregiudizi  che comportano il venir meno della liquidità necessaria per la sopravvivenza di essa.

E’ responsabile, ex art. 2392 c.c., l’amministratore che autorizzi o imponga alla società parte di un gruppo il pagamento di somme per servizi non resi in favore di una controllante indiretta: si tratta di comportamento in violazione dei più elementari doveri di diligenza verso la società amministrata.

Sussiste la mala gestio, e la conseguente responsabilità dell’amministratore della società controllata, laddove tale società conceda finanziamenti e prestiti in favore della controllante in situazione di conflitto di interesse, in assenza di preventiva approvazione del C.d.A., e per fini non riconducibili alla controllata sotto il profilo della convenienza indiretta dell’operazione.