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Tribunale di Torino


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25 Luglio 2022

Esclusione del socio moroso di società cooperativa edilizia

La società cooperativa edilizia che agisca per l’accertamento della legittimità dell’esclusione del socio moroso, con conseguente decadenza dall’assegnazione dell’alloggio sociale, è tenuta a provare solo l’esistenza del titolo, ossia della fonte negoziale o legale del credito fatto valere, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento del socio; sarà quest’ultimo a dover fornire la prova dell’avvenuto adempimento.

22 Luglio 2022

Nullità della delibera di approvazione del bilancio per scorretta valutazione delle immobilizzazioni finanziarie e per omessa indicazione del compenso degli amministratori

L’interesse a impugnare la delibera assembleare di approvazione del bilancio non richiede che sia dimostrata la lesione attuale e concreta di un diritto patrimoniale, perché la lesione del diritto del socio alla corretta informazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa ricorre in tutti i casi in cui dal bilancio e dai relativi allegati non possa desumersi l’intera gamma di informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.

Ai sensi dell’art. 2426 c.c., la valutazione delle partecipazioni in società controllate o collegate può essere effettuata (i) con il metodo del costo, secondo i medesimi principi previsti per le altre immobilizzazioni, oppure (ii) per un importo pari alla corrispondente frazione del patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio delle società medesime, una volta operate le rettifiche richieste dai principi di redazione del bilancio consolidato e quelle necessarie per il rispetto dei principi indicati negli artt. 2423 e 2423 bis c.c. Tuttavia, se il costo diventa significativamente superiore al patrimonio netto a causa di una durevole perdita di valore che colpisca la partecipata, in base a un canone di prudenza il criterio del costo storico dovrebbe essere abbandonato a favore del più realistico criterio del patrimonio netto. In caso di azzeramento del capitale sociale della controllata, deve richiedersi l’iscrizione nel bilancio della controllante di un “fondo copertura perdite controllate”, nel quale dev’essere appostata una somma pari all’ammontare dell’intero capitale di ricostituzione sul quale si eserciterà l’opzione, qualora la società non voglia rinunciare a partecipare alla ricapitalizzazione.

L’amministratore della controllante, nell’applicazione del metodo del patrimonio netto o della correzione del dato del costo storico, è tenuto a recepire nel bilancio il dato del patrimonio netto della controllata da lui conosciuto e riportato nel progetto di bilancio già formalmente redatto, anche se non ancora discusso e approvato.

Viola il principio di chiarezza il bilancio in forma semplificata che non contiene in calce allo stato patrimoniale l’informazione relativa al compenso dell’amministratore e nemmeno la nota integrativa, da cui la società deve intendersi dispensata solo a condizione che fornisca le informazioni richieste dalla legge, tra cui l’ammontare dei compensi concessi agli amministratori. La mancata indicazione dei compensi non integra un mero errore materiale, sanabile mediante il deposito presso il registro delle imprese di un progetto di bilancio differente da quello approvato e recante l’informativa, non sottoposto a nuova deliberazione ma fatto circolare tra i soci per posta elettronica. Essa costituisce, piuttosto, una vera e propria omissione, rilevante perché, da una parte, è condizione affinché gli amministratori siano dispensati dal redigere la nota integrativa, che è documento di bilancio indispensabile ai fini del rispetto del principio di chiarezza, e, dall’altra, l’informazione incide nel rapporto tra soci e amministratori, dando all’assemblea uno strumento di riscontro del rispetto dei limiti fissati alla remunerazione degli amministratori.

20 Luglio 2022

Impugnativa di bilancio e intervento adesivo dipendente del socio interessato alla conservazione della delibera

Nel giudizio di impugnazione di una deliberazione assembleare, il socio di una società di capitali che abbia partecipato all’adozione di una delibera assembleare poi impugnata, è portatore di un interesse, non di mero fatto ma giuridicamente rilevante, ad intervenire nel giudizio per sostenere le ragioni della società, interesse individuabile nella esigenza di evitare che siano posti nel nulla gli effetti di un atto, il cui contenuto è da presumere in sintonia con gli obiettivi dallo stesso perseguiti, alla cui formazione egli ha contribuito e dalla cui caducazione discenderebbero significativi e pregiudizievoli effetti, sotto il profilo della stabilità, sull’attività sociale successivamente svolta.

La domanda di accertamento della nullità della deliberazione assembleare di approvazione del bilancio, articolata su plurime censure a diverse poste del documento, avanza contestualmente una pluralità di domande, aventi comune petitum, ma distinte causae petendi e corrispondenti a ciascuna delle poste contestate, dal momento che l’accertamento della nullità non comporta la semplice invalidazione dell’atto, ma anche obbliga i competenti organi sociali ad approvare un nuovo bilancio esente dai vizi riscontrati nella sentenza, come previsto, per il caso di annullamento della delibera, dall’art. 2377, co. 7, c.c.

14 Luglio 2022

Esclusione di un socio dalla società cooperativa per morosità nel pagamento dei canoni di godimento dell’immobile sociale

È legittima la delibera del C.d.A. di una società cooperativa di esclusione del socio per violazione degli obblighi statutari, previsti a pena di esclusione del socio dalla società, relativi al pagamento dei canoni di godimento dell’alloggio sociale assegnato al socio, con conseguente decadenza dall’assegnazione dell’immobile sociale.

Poiché l’assegnazione in godimento dell’immobile comporta la corresponsione del canone di godimento, la morosità maturata forma oggetto di condanna al pagamento.

Oltre alla condanna alla corresponsione dei canoni maturati sino all’esclusione, il socio escluso è altresì tenuto al pagamento dell’indennità per l’occupazione sine titulo.

13 Luglio 2022

La responsabilità del socio di s.n.c. receduto per le obbligazioni sociali in caso di successivo fallimento della società

La responsabilità solidale e illimitata del socio di s.n.c. per le obbligazioni sociali è posta a tutela dei creditori della società e non di quest’ultima, sicché solo i creditori possono agire nei confronti dei soci per il pagamento dei debiti sociali e non anche la società. Nella liquidazione di una società in bonis, se i fondi per il pagamento dei debiti sociali sono insufficienti, il liquidatore può richiedere ai soci, oltre ai conferimenti ancora ineseguiti, le somme necessarie, nei limiti della rispettiva responsabilità e in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite. La norma non si applica alla società fallita, nel senso che la contribuzione del socio illimitatamente responsabile si sostanzia nella sottoposizione del socio stesso a fallimento, ai sensi e nei limiti degli artt. 10 e 147 l.fall., mentre il socio cessato da oltre un anno, e quindi non assoggettabile a fallimento, non è nemmeno soggetto all’applicazione dell’art. 2280, co. 2, c.c., proprio perché ormai estraneo al rapporto sociale.

Il curatore non ha un generale potere-dovere di sostituirsi ai creditori del fallito nell’esercizio di azioni corrispondenti a diritti di cui essi siano titolari, quando non si tratti di azioni volte alla ricostruzione del patrimonio del fallito o quando una siffatta legittimazione non sia stata espressamente prevista dal legislatore, come ad esempio accade nel caso dell’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali contro gli amministratori della società fallita, che gli artt. 2394 e 2394 bis c.c. esplicitamente legittimano il curatore ad esperire. Con riguardo alle azioni volte alla ricostruzione del patrimonio del fallito (le cc.dd. azioni di massa), i dati qualificanti consistono nella reintegrazione della garanzia generica del credito e nel carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo. Al contrario, quando una pretesa richiede l’accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori o, pur interessando una platea più o meno estesa, ma non la generalità del ceto creditorio, necessita pur sempre dell’esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, l’azione non può qualificarsi di massa e non compete la legittimazione del curatore in sostituzione dei singoli creditori.

La sostituzione nella legitimatio ad causam del curatore al singolo creditore non esiste in assenza, da una parte, di una norma espressa di legge e, dall’altra, di un’azione di massa, che benefici indistintamente il ceto creditorio nel suo insieme, come un’azione revocatoria o di simulazione. Nessuna disposizione toglie al creditore sociale la facoltà di agire nei confronti del socio non fallito di s.n.c., poiché l’onere di sottoporsi all’accertamento del passivo (art. 52 l.fall.) e il divieto di azioni esecutive individuali (art. 51 l.fall.) riguarda le sole pretese nei confronti del fallito e i beni compresi nel fallimento. Il risultato utile dell’azione non può andare indistintamente a beneficio della massa creditoria, visto che il curatore, per essere coerente con la sua tesi, dovrebbe formare una massa attiva separata, destinandone il ricavato ai soli creditori di cui l’ex socio deve rispondere ex art. 2290 c.c. Tuttavia, la legge fallimentare ammette bensì masse separate ai fini del riparto, ma solo in quanto esistano prelazioni speciali (ipoteca, pegno ecc.), o in quanto, specificamente nella società con soci illimitatamente responsabili, il socio sia personalmente fallito. Se invece il curatore destina il risultato dell’azione indistintamente a beneficio della generalità dei creditori e quindi riversa le somme incassate dall’ex socio non fallito nel conto della massa attiva sociale, aggrava la posizione dell’ex socio, visto che le somme versate andrebbero a pagare spese prededucibili (innanzitutto, i compensi del curatore e dei suoi ausiliari) e i crediti concorsuali secondo la rispettiva graduazione e non necessariamente quelli di cui il non fallito deve rispondere, lasciandolo esposto medio tempore e dopo la chiusura della procedura a pagare una seconda volta a mani del creditore.

13 Luglio 2022

Esclusione del socio moroso dalla cooperativa edilizia

La società cooperativa edilizia che agisca, in qualità di creditore, per l’accertamento della legittimità dell’esclusione del socio moroso dal godimento dell’alloggio fornito dalla stessa, è tenuta a provare solo l’esistenza del titolo, ossia della fonte negoziale o legale del suo diritto (e, se previsto, del termine di scadenza), mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: è il debitore convenuto a dover fornire la prova estintiva del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.

27 Giugno 2022

Recesso del socio sovventore di società cooperativa e rimborso delle spese degli amministratori

La perdita conseguente a perdite del diritto al rimborso di quanto versato dal socio a titolo di finanziamento postergato e disponibile per la copertura delle perdite di esercizio è inscindibilmente legata al depauperamento del patrimonio della società e, pertanto, seppur dipendente da mala gestio degli amministratori, non può qualificarsi come un danno direttamente arrecato al socio. Al contrario, trattandosi di un danno indirettamente subito dal socio, come riflesso del danno arrecato alla società, l’integrale rimborso del finanziamento dipende dal fruttuoso esercizio dell’azione sociale di responsabilità diretta alla reintegrazione del patrimonio sociale.

Il socio che ometta il pagamento della quota nel termine prescritto non può esercitare il diritto di voto malgrado non sia stato destinatario di uno specifico atto di costituzione in mora o di una diffida ad eseguire quel pagamento entro trenta giorni, dovendogli quest’ultima essere indirizzata al solo scopo di dare inizio alla vendita in danno dell’intera quota sottoscritta. Non è, cioè, necessaria la diffida ad adempiere al fine di costituire il socio in mora, ma il socio deve ritenersi in mora per il solo fatto obiettivo del ritardo nell’adempimento rispetto al termine assegnato per la liberazione della quota, o dallo statuto o dagli amministratori all’atto dell’ammissione. Tuttavia, fino a che gli amministratori non provvedono a richiedere ai soci il versamento, e come s’è detto essi si sono astenuti dal farlo, anche quando si sono espressamente impegnati a farlo per sanare una constatata irregolarità di gestione, il socio non può ritenersi inadempiente e ha dunque titolo all’esercizio dei diritti di socio volontario.

Poiché il recesso parziale è espressamente non consentito dall’art. 2532 c.c., il socio sovventore, finanziatore o titolare di altri titoli di debito (art. 2526 c.c.) vede regolato il proprio diritto di recesso sulla base degli artt. 2437 ss. c.c., in tema di recesso nelle società per azioni, che espressamente ammettono il recesso parziale. Segue che il socio sovventore può esercitare il recesso per tale sola posizione e mantenere nondimeno il rapporto associativo.

La qualità di amministratore non è di per sé incompatibile con lo svolgimento, da parte dell’amministratore, di prestazioni professionali a favore della società, che siano estranee all’amministrazione; in tal caso, l’amministratore ha diritto a ricevere un autonomo compenso per l’attività prestata, ulteriore a quello eventualmente previsto per la carica. Con riguardo alla fissazione di una linea di confine tra attività inerenti all’amministrazione della società e prestazioni professionali estranee (incluse le prime nel compenso eventualmente riconosciuto per la carica, escluse e soggette ad autonoma remunerazione le seconde), il limite oltre il quale possono sussistere prestazioni professionali fatte nell’interesse della società, ma estranee all’amministrazione, deve individuarsi nell’oggetto sociale, talché rientrano tra le prestazioni tipiche dell’amministratore tutte quelle che siano inerenti all’esercizio dell’impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria e ordinaria.

Per il rimborso delle spese richieste da un amministratore di società di capitali, non regolato dall’art. 2389 c.c., deve applicarsi in via analogica la disciplina del mandato, che all’art. 1720 c.c. prevede che il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni e deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico. La formula dei danni è da intendersi in senso ampio, comprensivo non soltanto del danno in senso giuridico, ma anche della pura e semplice perdita economica collegata all’esecuzione del mandato. Nondimeno, va interpretata restrittivamente la perdita economica indennizzabile, come quella sola sostenuta a causa, e non semplicemente in occasione, del proprio incarico e perciò in stretta dipendenza dall’adempimento dei propri obblighi, pervenendo a escludere il nesso di stretta dipendenza per le spese legali sostenute dall’amministratore per la difesa in un giudizio penale.

Le scelte operative dell’amministratore sono insindacabili nel merito, secondo la c.d. business judgment rule, salvo il limite della valutazione di ragionevolezza, da compiersi ex ante, e tenendo conto – sempre nell’ordine del limite – della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.

22 Giugno 2022

Il rapporto tra la valutazione delle partecipazioni ai fini della determinazione del valore di liquidazione nel recesso e del rapporto di cambio nella fusione

L’esperto nominato ai sensi degli artt. 2437 ter e 2473 c.c. deve determinare il valore delle partecipazioni, ai fini del recesso, secondo equo apprezzamento. Tale determinazione è sottoposta al regime dell’art. 1349, co. 1, c.c. e può quindi essere impugnata soltanto per manifesta iniquità o erroneità. L’erroneità della perizia consiste in un ragionamento caratterizzato da contraddittorietà tra premesse e conclusioni, fondato su dati di fatto manifestamente errati o inficiato da errori di calcolo evidenti. La manifesta iniquità, invece, consiste in un’obiettiva sproporzione tra prestazioni, tale da ingenerare una lesione ultra dimidium, secondo il canone ricavabile dall’art. 1448 c.c. Per essere manifeste, iniquità ed erroneità devono essere desumibili direttamente dall’esame della determinazione del terzo e non da elementi estrinseci e devono tradursi in una rilevante sperequazione tra le prestazioni contrattuali contrapposte, come determinate attraverso l’attività dell’arbitratore o, in termini equivalenti, in un risultato concretamente ben distante, a livello sia quantitativo che qualitativo, da quello reputato corretto. Benché la stima dell’esperto debba farsi avuto riguardo ai criteri previsti dalla disciplina di settore, anziché in base alla semplice equità mercantile e a nozioni di comune esperienza, la discrezionalità resta comunque elevata, poiché esistono diverse metodologie di valutazione delle imprese, le quali di norma restituiscono valori anche apprezzabilmente differenti. Ne consegue che la motivata scelta, da parte dell’esperto, di un metodo di valutazione a preferenza di un altro integra un semplice dissenso tecnico, che non può ritenersi indice di manifesta iniquità o erroneità della determinazione e non è quindi sufficiente ad attivare il potere del giudice di determinare il valore della partecipazione in sostituzione dell’esperto.

Nella fusione la fissazione del concambio richiede una valutazione patrimoniale e reddituale delle entità che partecipano all’operazione, secondo uno o più metodi di valutazione adeguati ad esprimere il peso economico relativo delle medesime. Dal momento che nessun metodo può avere il privilegio della piena attendibilità, la legge non richiede l’assoluta esattezza matematica del concambio, così come non pretende di fissare criteri inderogabili cui attenersi nella stima, ma soltanto l’adeguatezza dei criteri adoperati, limitandosi a prescrivere la congruità del concambio, cioè che sia fissato all’interno di una ragionevole banda di oscillazione. Pertanto, la nozione di congruità finisce per ammettere una pluralità di concambi, i quali, entro il menzionato accettabile arco di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista del legislatore. Se più concambi sono egualmente legittimi, perché compresi in un ragionevole intervallo di valori, la scelta del concambio effettivo cessa di essere questione esclusivamente tecnico-valutativa e diventa materia di possibile negoziato tra gli amministratori delle società, sul quale incidono le prospettive strategiche dell’integrazione tra le imprese e altre considerazioni di mercato nonché la forza contrattuale delle società e la presenza di vincoli giuridici o di fatto, che riducano l’autonomia negoziale di una di esse e siano in grado di spostare gli equilibri economico-patrimoniali rispetto a una media teorica dei valori.

Il valore determinato ai fini del concambio di fusione può in generale ritenersi un indice affidabile del valore delle azioni anche ai fini della liquidazione in caso di recesso. In primo luogo, perché tale dato presenta un’elevata attendibilità. Inoltre, perché l’art. 2437 ter c.c. richiede di considerare, oltre alla consistenza patrimoniale e alle prospettive reddituali della società, anche l’eventuale valore di mercato delle azioni. La fusione non è un contratto di scambio né l’assegnazione di partecipazioni in concambio può in alcun modo essere definita un prezzo del consenso alla fusione, ma non si può dubitare che anche il concambio possa essere oggetto di negoziato e riflettere il valore di mercato delle azioni. Di contro, il valore considerato ai fini del concambio potrebbe risultare non attendibile o comunque inutilizzabile ai fini della determinazione del valore della partecipazione in caso di recesso se incompatibile con i criteri normativi o statutari previsti per la liquidazione del socio e, più ancora, se il valore del capitale economico delle società partecipanti alla fusione venga elaborato in prospettiva sinergica, considerando i benefici attesi dalla fusione e dal processo di integrazione tra le imprese o, in altri termini, valutando la società risultante dalla fusione e non quelle che vi partecipano: valutazione, quest’ultima, evidentemente incompatibile con l’art. 2437 ter c.c., il quale richiede di considerare valore e prospettive reddituali esclusivamente della società ante-fusione, coerentemente con la scelta di disinvestimento compiuta dal socio e il rifiuto di prendere parte all’entità risultante dalla fusione.

[Nel caso di specie, il valore delle azioni ai fini del concambio era stato determinato in ottica stand alone, cioè sulla base del valore della società in assoluto e quindi è stata esclusa l’esistenza di una diversità metodologica o di contenuto che ostacolasse l’utilizzo di tale valore anche ai fini della determinazione del valore di liquidazione spettante ai soci receduti].

21 Giugno 2022

Ambito di applicazione dell’art. 2560, co. 2, c.c. sui debiti relativi all’azienda

Al termine dell’affitto d’azienda, l’affittante risponde in solido con l’affittuario delle obbligazioni assunte da quest’ultimo durante l’affitto, dovendosi pur in tal caso applicare l’art. 2560, co. 2, c.c., secondo una lettura della norma che trova indiretta conferma nell’art. 104 bis, co. 6, l.fall., il quale stabilisce oggi che la retrocessione al fallimento di aziende o rami di aziende non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli artt. 2112 e 2560 c.c.: il che significa che, pur nell’ipotesi di affitto di azienda attuato nell’ambito della procedura concorsuale, in mancanza di detta norma di contenuto derogatorio, si applicherebbe l’art. 2560 c.c., che determinerebbe, all’esito della retrocessione dell’azienda affittata, la responsabilità della procedura per i debiti sorti a carico dell’affittuario.

Il rigore dell’art. 2560, co. 2, c.c., per il quale l’acquirente dell’azienda non risponde dei debiti contratti dall’alienante, se non risultano dalle scritture contabili obbligatorie, cessa di essere applicabile nel caso limite dell’identità soggettiva – sostanziale, se non formale – tra alienante e acquirente, la quale è significativa di una conoscenza diretta dei rapporti giuridici in fieri, estranea alla ratio protettiva del successore a titolo particolare nell’azienda, sottesa all’art. 2560 c.c., come nel caso di un conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale.