Tribunale di Venezia
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Abuso dell’esclusione del socio di società di persone da parte dei soci maggioritari
Sussiste abuso quando i soci maggioritari di una società di persone, dopo aver reiteratamente deprivato con il loro voto il socio minoritario degli utili, e dopo avere agito contro di lui esecutivamente in proprio, si avvalgano di una mera facoltà statutaria che fa perno sul pignoramento della quota per escludere detto socio dalla compagine.
L’esclusione del socio non è impedita dalla situazione di scioglimento della società.
Tollerata coesistenza di un medesimo marchio di fatto da parte di più soggetti
La tutela del marchio di fatto trova fondamento nella funzione distintiva che esso assolve in concreto, per effetto della notorietà presso il pubblico, e, pertanto, presuppone la sua utilizzazione effettiva, con la conseguenza che la tutela medesima non è esperibile in rapporto a segni distintivi di un’attività d’impresa non più esercitata dal preteso titolare. L’acquisto del diritto sul marchio di fatto dipende quindi non solo dall’utilizzo del segno, ma richiede anche che il segno abbia raggiunto una notorietà qualificata.
Per ostacolare la registrazione del marchio successivo il preutente deve provare non solo l’uso, ma anche che il proprio preuso abbia determinato la notorietà generalizzata del proprio segno distintivo (marchio di fatto, denominazione o ragione sociale, ditta individuale) prima dell’uso da parte di altri. Si deve trattare di un uso sistematico, non sporadico e tale da consentirne la conoscenza effettiva da parte del pubblico dei consumatori interessati, mediante commercializzazione dei prodotti o servizi. La prova può essere offerta non solo documentalmente, tramite, ad esempio, la produzione di cataloghi e documentazione pubblicitaria, ma anche tramite prove testimoniali e indizi, purché dimostrino la rilevanza quantitativa o qualitativa del prodotto del servizio sul mercato, la durata della presenza e il suo ambito territoriale, facendo riferimento alle concrete modalità di diffusione del segno. L’uso di un marchio di fatto non deve necessariamente essere effettuato in un ambito territoriale esteso, così escludendo una notorietà sull’intero territorio nazionale, ma è sufficiente ai fini dell’acquisto del diritto che la notorietà si riverberi ultra-localmente.
Nel caso in cui i preutenti, in regime di tollerata coesistenza di un preuso non meramente locale, siano due, il preuso dell’altro imprenditore priva il segno di novità e impedisce la registrazione e nessuno dei due preutenti può registrare il segno senza il consenso dell’altro.
Responsabilità solidale e presupposti per il sequestro conservativo
Il socio che propone l’azione di responsabilità ex art. 2476 c.c. agisce nella veste di sostituto processuale della società, per far valere un danno patito dal patrimonio sociale, e non un danno proprio; pertanto risulta del tutto irrilevante la circostanza che lo stesso non avesse la qualità di socio al momento del compimento dei fatti contestati, essendo sufficiente che tale qualità il socio rivesta al momento della domanda.
Ai fini dell’ operatività dell’art. 1310, comma 1, c.c., è sufficiente l’esistenza di un vincolo obbligatorio solidale scaturente dall’unicità del fatto dannoso; l’atto processuale con il quale viene interrotta la prescrizione nei confronti di uno dei coobbligati opera pertanto ex lege anche nei confronti di coloro che sono rimasti estranei al processo.
Il periculum in mora, quale presupposto del sequestro, va inteso come pericolo di infruttuosità, ossia come rischio che nelle more del giudizio di merito il patrimonio del debitore venga depauperato e per tale via sottratto in tutto o in parte alla sua funzione di garanzia generica sancita dall’art. 2740 c.c. Detto timore deve trovare riscontro in dati esterni, che dimostrino in modo sufficientemente univoco l’esistenza di un pericolo reale e che rendano quindi verosimile e ragionevole il timore del creditore di perdere le garanzie per il recupero del proprio credito. La semplice insufficienza del patrimonio del debitore può non essere decisiva ai fini della concessione del sequestro, poiché la specificità della cautela consiste nell’assicurare la fruttuosità della futura esecuzione forzata contro il rischio di depauperamento del patrimonio nelle more del giudizio e quindi, oltre all’oggettiva incapienza patrimoniale, può essere richiesto che esistano circostanze oggettive (quali protesti, pignoramenti, azioni esecutive iniziate da altri creditori, ecc.) che facciano temere l’impoverimento del debitore nelle more del giudizio.
Prescrizione dell’azione di risarcimento nei confronti degli amministratori e sindaci e domanda di concordato
Colui che agisce in giudizio con l’azione di risarcimento nei confronti degli amministratori di una società di capitali, che abbiano compiuto, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria non avente finalità meramente conservativa del patrimonio sociale, ai sensi dell’art. 2486 c.c., ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda e, quindi, la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuto a dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva al verificarsi della causa di scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa, come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci, ma siano giustificati dalla finalità liquidatoria o comunque risultino necessari. Pertanto, qualora l’addebito gestorio, ai sensi dell’art. 2486 c.c., si basi su delle censure al bilancio, parte attrice avrebbe l’onere di allegare le ritenute violazioni nella redazione del bilancio, con esplicitazione sia delle ragioni, sia dei fatti per i quali le singole poste debbano ritenersi scorrette, sia degli importi per i quali esse debbano essere rettificate.
Al fine di indicare correttamente i fatti ai sensi dell’art. 164, co. 5, c.p.c. è sufficiente che parte attrice ponga l’accento sulla gravità dei discostamenti dal vero delle poste di bilancio censurate e sul dovere certificatorio del revisore, circa la verità e correttezza del bilancio nella sua funzione di rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società, con ciò implicando che il mancato rilievo di tali discostamenti sia segno di inescusabile negligenza del revisore. E’, invece, onere del revisore dimostrare, qualora vi sia uno scostamento dal vero, di avere operato diligentemente e incolpevolmente.
Il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione di cui all’art. 2476 co. 6 non inizia a decorrere dal momento in cui risulta pubblicata la determinazione del CdA di presentare proposta di concordato preventivo, non essendo tale elemento sufficiente ad esporre l’insufficienza patrimoniale della società. L’insufficienza patrimoniale della società risulta, invero, dalla pubblicazione della proposta di concordato, nella quale non sia previsto il pagamento integrale dei creditori.
L’accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata da un coobbligato solidale nei confronti del creditore comune produce effetto anche a favore dell’altro coobbligato convenuto non eccipiente nello stesso processo, tutte le volte in cui la mancata estinzione del rapporto obbligatorio nei confronti di quest’ultimo possa generare effetti pregiudizievoli per il condebitore eccipiente, senza che assuma rilevanza la distinzione tra il coobbligato contumace e quello costituito che non abbia proposto l’eccezione ovvero l’abbia abbandonata, ipotesi tutte che non comportano rinuncia sostanziale alla prescrizione maturata e neppure rinuncia tacita all’azione di regresso verso il coobbligato eccipiente.
Responsabilità diretta dell’amministratore che contrae obbligazioni non conservative a seguito della perdita del capitale
In tema di responsabilità degli amministratori ex artt. 2486 e 2476 c.c., risponde direttamente verso il terzo creditore l’amministratore che, successivamente alla perdita del capitale sociale e in assenza di tempestiva convocazione dell’assemblea per l’adozione delle misure necessarie, contragga obbligazioni non riconducibili a finalità meramente conservative. In tale ipotesi non può essere invocata l’esenzione prevista dalla normativa emergenziale (art. 1, comma 266, l. 178/2020) qualora l’assemblea non sia stata convocata “senza indugio”, né la perdita correttamente documentata nella nota integrativa.
Non rispondono, invece, gli amministratori nominati successivamente ove la durata del mandato sia stata talmente breve da non permettere iniziative adeguate.
La responsabilità dei soci ex art. 2476, comma 8, c.c. non è configurabile in assenza di un consapevole comportamento positivo di adesione all’illecito dell’amministratore.
Marchio debole e secondary meaning nel settore dell’autonoleggio
Un marchio è “forte” quando vi è un distacco concettuale tra il medesimo e il prodotto o il servizio a cui si riferisce; invece un marchio è “debole” quando risulta concettualmente legato al prodotto, perché la fantasia di chi lo ha concepito non è andata oltre il rilievo di un carattere o di un elemento del prodotto stesso, oppure quando è costituito da parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. Il marchio che utilizza parole o espressioni di uso comune, con bassa capacità distintiva (es. “RENT”), è qualificabile come “marchio debole” e riceve una tutela più limitata: sono sufficienti lievi differenze per escludere la confondibilità con altri segni simili.
Il c.d. “secondary meaning” non può essere dimostrato soltanto sulla base dell’intensità della commercializzazione del prodotto o del servizio sul mercato ovvero della diffusione del sito web o della presenza dell’impresa in Internet, in quanto è necessario dimostrare la specifica ulteriore valenza acquisita dal segno distintivo nella percezione dei consumatori.
Ai fini della valutazione della rinomanza di un marchio occorre prendere in considerazione tutti gli elementi rilevanti nella fattispecie e cioè la quota di mercato coperta dal marchio, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché l’entità degli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo e le campagne pubblicitarie svolte.
La fattispecie della cd. concorrenza sleale “parassitaria” consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente, mediante l’imitazione non tanto dei prodotti, quanto piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali tenuti da quest’ultimo, in un contesto temporale prossimo all’ideazione dell’opera, in quanto effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (c.d. concorrenza parassitaria diacronica) ovvero dall’ultima e più significativa di esse (c.d. concorrenza parassitaria sincronica). Perciò l’imitazione di un’attività, che al momento in cui è sorta e si è successivamente formata era originale, ma che poi si è generalizzata e spersonalizzata, non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale, idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Delibera già eseguita e limiti operativi della tutela cautelare di cui all’art. 2378 c.c.
Lo strumento processuale di cui all’art. 2378, 3° e 4° comma, cc ha ad oggetto una tutela cautelare tipica, volta a paralizzare l’esecuzione della deliberazione impugnata, e costituisce un rimedio che per sua natura è distinto da quello, successivo, avente ad oggetto la caducazione della delibera stessa. La ratio della cautela prevista dall’art. 2378 cc è dunque quella di impedire che la delibera produca ulteriori effetti pregiudizievoli nell’attesa del giudizio di merito, e di assicurare che l’eventuale accoglimento della domanda non venga reso inutile dagli eventi che possono continuare a prodursi anche dopo l’impugnazione.
La tutela cautelare di cui all’art. 2378 cc trova applicazione non solo alle delibere che non sono ancora state eseguite, ma anche alle deliberazioni la cui esecuzione, pur avvenuta, continui ad esplicare effetti giuridici sull’organizzazione societaria, e quindi alle deliberazioni – quali la nomina dell’organo amministrativo o l’approvazione del bilancio – che, pur non abbisognevoli in senso proprio di atti esecutivi, o già iscritte presso il Registro delle Imprese con piena efficacia ed opponibilità nei confronti dei terzi, siano tuttavia suscettibili di esplicare i loro effetti pregiudizievoli per tutto il tempo in cui la situazione dalle stesse creata è destinata a perdurare. Tale impostazione si riferisce tuttavia alle deliberazioni per le quali non possa dirsi concretata una irreversibilità degli effetti, cioè le delibere suscettibili di dispiegare efficacia in modo continuativo. L’esaurimento degli effetti della deliberazione impugnata costituisce dunque il limite oltre il quale il provvedimento di sospensione non è più ammissibile, poiché l’adozione del provvedimento cautelare successivamente a tale momento non inciderebbe sugli effetti della deliberazione impugnata, ma ne integrerebbe una rimozione anticipata, che può discendere solo dalla pronuncia di merito, dalla quale possono derivare gli ulteriori effetti ripristinatori di cui all’art. 2377 cc, comma 7, e, eventualmente, anche gli effetti a cascata aventi ad oggetto la caducazione gli atti giuridici o negoziali posti in essere in esecuzione della deliberazione impugnata, ossia di effetti propri della sentenza costitutiva ex art. 2908 cc, che non possono discendere dalla sola sospensione cautelare della deliberazione.
Qualora la deliberazione abbia prodotto i suoi effetti, non è escluso il ricorso ad ulteriori rimedi cautelari, volti a paralizzare non tanto l’efficacia della deliberazione, ma gli effetti materiali dei negozi giuridici che costituiscono atti esecutivi della deliberazione e che potrebbero essere travolti dall’efficacia ripristinatoria della pronuncia di merito, non ravvisandosi dunque una concreta compressione del diritto di difesa costituzionalmente orientato ex art. 24 Cost , che viene appunto garantito dalla possibilità di aggredire gi atti esecutivi della delibera stessa utilizzando gli strumenti all’uopo riconosciuti dall’ordinamento processuale (quali, a titolo meramente esemplificativo, il sequestro giudiziario o la tutela cautelare ex art. 700 cpc).
Ratio della disciplina antiriciclaggio e responsabilità omissiva della banca per prosecuzione indebita di attività di impresa
La disciplina antiriciclaggio (D.Lgs. 231/2007) non è dettata al fine di garantire i rapporti fra privati, e in particolare non pone a carico della Banca un obbligo giuridico di impedire gli eventi quali la generazione di insolvenza o la prosecuzione indebita di attività di impresa in stato di perdita di capitale; la sussistenza di un tale obbligo è requisito indispensabile per potere costruire, sulla base della violazione di una norma, la responsabilità omissiva del soggetto agente per le conseguenze dannose. La normativa antiriciclaggio è invece posta a presidio dell’interesse pubblicistico a impedire la circolazione di denaro di provenienza illecita [nel caso di specie il Tribunale ha, quindi, ritenuto insussistente la responsabilità ex artt. 2043 e 2055 c.c. delle banche per non aver impedito all’amministratore di una società cooperativa, poi fallita, di effettuare prelievi in contanti dai conti intestati alla società, dato che anche a voler qualificare tali operazioni come “sospette”, ciascuna banca avrebbe avuto il solo obbligo di effettuare una segnalazione all’UIF, senza avere il potere, né il dovere, di impedire i prelievi].
Banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa e competenza dell’accertamento di crediti
L’improponibilità delle domande verso la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria riguarda tutte le domande che sono funzionali all’accertamento di un credito verso l’impresa in liquidazione, anche ove dette domande siano di mero accertamento di detto credito e non di condanna, ovvero anche ove dette domande siano costitutive o di accertamento e vengano invocate quale presupposto dell’insorgenza di un credito risarcitorio o restitutorio da far valere verso la procedura, non potendosi derogare all’accertamento del credito e dei suoi presupposti secondo le regole del concorso. Rimangono, invece, escluse dalle regole dell’accertamento concorsuale e della formazione dello stato passivo tutte le domande di accertamento o costitutive, come possono essere le domande di accertamento delle nullità di un contratto, ovvero le domande di annullamento, ovvero di inefficacia, quando dirette non già a far valere crediti risarcitori o restitutori, ma semplicemente a conseguire la liberazione da un obbligo assunto verso l’impresa sottoposta a procedura concorsuale, tutela questa in sé che il giudice del concorso non è deputato a dare. Tra dette domande non funzionali all’accertamento dei crediti rientrano quelle volte ad accertare l’insussistenza di crediti vantati dall’impresa in bonis e propri della procedura, in relazione alle quali è ben possibile agire secondo le regole ordinarie, anche ove l’insussistenza del credito dipenda dalla nullità, dalla annullabilità ovvero dalla inefficacia del contratto, sempre che dette pretese siano funzionali all’accertamento negativo del credito vantato dalla procedura medesima sulla scorta del rapporto negoziale invalido.
Il divieto di assistenza finanziaria previsto dall’art. 2358 c.c., essendo posto a tutela dell’interesse della società e dei creditori all’integrità del capitale, deve ritenersi applicabile anche alle società cooperative.
La violazione del divieto di assistenza finanziaria comporta la nullità del negozio di finanziamento collegato al collocamento di azioni che avvenga nel mancato rispetto delle condizioni previste dall’art. 2358 c.c.
Inesistenza e nullità della notifica e questioni di competenza e giurisdizione relative a domande nei confronti di convenuti britannici
La notifica dell’atto di citazione è inesistente, per totale mancanza materiale dell’atto, laddove non abbia la notificazione conseguito il suo scopo consistente nella consegna dell’atto al destinatario. L’inesistenza della notifica non comporta l’assoluta insanabilità della notificazione, in caso di costituzione dei convenuti, a mezzo di comparsa di costituzione e risposta, che ha effetto sanante (ancorché essi abbiano concluso per la mancata instaurazione del rapporto processuale nei loro confronti) sebbene ex nunc, dovendosi ritenere coincidente la vocatio in ius con la loro costituzione e purché venga fissata, se i convenuti lo chiedano, una nuova udienza nel rispetto del termine a comparire, in modo che essi possano beneficiare del termine per la costituzione di cui avrebbero beneficiato qualora la notificazione vi fosse stata, a garanzia del loro diritto di difesa.
In base all’art. 3 della legge n. 218 del 1995 la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o ha in Italia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio, a norma dell’art. 77 cpc. Inoltre la giurisdizione italiana sussiste altresì nel caso in cui, pur non essendo il convenuto domiciliato o residente nel territorio italiano o avente in tale territorio un rappresentante autorizzato a stare in giudizio, (i) ricorrano i criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione di Bruxelles e (ii) l’oggetto del contenzioso rientri nelle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione (vale a dire nella materia civile o in quella commerciale).
Pur non essendo più il Regno Unito un paese membro dell’Unione Europea (essendosi concluso in data 30 dicembre 2020 il periodo di transizione previsto dall’art. 126 del Brexit Withdrawal Agreement), trovano applicazione in materia di giurisdizione le norme della Convenzione di Bruxelles (poi sostituita dal Regolamento UE n. 1215 del 2012) anche nei confronti dei convenuti inglesi in forza del richiamo effettuato dalla legge n. 218/1995.
La clausola attributiva della giurisdizione deve essere oggetto di pattuizione tra le parti, manifestatasi in modo chiaro e preciso, ed è pertanto rispettato nel caso in cui tale clausola sia contenuta nelle condizioni generali di contratto predisposte dalla parte acquirente, espressamente richiamate negli ordini di acquisto e ad essi allegate, potendo le stesse ritenersi accettate dalla parte venditrice unitamente agli ordini di acquisto integranti la proposta contrattuale.
In tema di giurisdizione del giudice italiano quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale (alla cui stregua si allinea l’illecito anticoncorrenziale), trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, reg. UE n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire; alla luce di tale criterio e della costante interpretazione che ne ha dato la CGUE, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno. Tale norma è costantemente interpretata dalla Corte di giustizia nel senso che «la nozione di “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto” riguarda sia il luogo in cui si è concretizzato il danno sia quello dell’evento generatore di tale danno, di modo che il convenuto possa essere citato, a scelta dell’attore, dinanzi ai giudici dell’uno o dell’altro di questi luoghi».