hai cercato articoli in

Tribunale di Venezia


407 risultati
28 Luglio 2021

Il fiduciario fa venire meno il pactum fiduciae se aliena azioni o quote senza previa indicazione del fiduciante

Nel caso di intestazione fiduciaria di azioni o partecipazioni societarie, il fiduciario che ne assume la titolarità, deve comportarsi nella modalità stabilita in precedenza con il fiduciante e restituire i titoli alla scadenza convenuta ovvero nel caso in cui venga meno tale patto fiduciario.

Il rapporto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di quote societarie, non richiede la forma scritta né “ad substantiam” né “ad probationem”, in quanto il patto in questione è equiparabile al contratto preliminare il quale, in base all’art. 1351 c.c., deve avere la medesima forma del contratto definitivo e la cessione di quote risulta essere un negozio che “che non richiede alcuna forma particolare, neppure nel caso in cui la società sia proprietaria di beni immobili”.

Il “pactum fiduciae” viene meno se il fiduciario aliena a terzi le azioni o partecipazioni senza previa indicazione del fiduciante. In tal caso, il fiduciario deve ritrasferire le partecipazioni al fiduciante ed essendo quella in oggetto un’obbligazione di fare infungibile, il fiduciario – soggetto obbligato – è assoggettato al pagamento di una penale in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 614 bis c.p.c. 

27 Luglio 2021

La giusta causa per la revoca degli amministratori

La «giusta causa» di revoca è nozione distinta sia dal mero «inadempimento», sia dalle «gravi irregolarità» di cui all’art. 2409 c.c.: essa riguarda circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, provocate o no dall’amministratore stesso, che però pregiudicano l’affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità. Il legame di fiducia con la società e, per essa, con i soci, fonda infatti il rapporto di amministrazione, donde la giusta causa è integrata da ogni fatto che sia idoneo a comprometterlo.

La mancata condivisione, da parte dell’assemblea, dei criteri di redazione del bilancio utilizzati dagli amministratori può integrare una giusta causa di revoca, qualora le contestazioni non si appalesino pretestuose e siano tali da incidere sulla corretta rappresentazione del bilancio.

Quando l’amministratore revocato agisce in giudizio contestando la sussistenza della giusta causa e facendo valere il diritto al risarcimento del danno, la posizione sostanziale di attore spetta alla società, onerata della prova della giusta causa di revoca, mentre l’amministratore è il convenuto sostanziale.

27 Luglio 2021

Contraffazione del marchio di una catena di supermercati e concorrenza sleale

La concorrenza sleale per appropriazione di pregi, che richiede un comportamento attivo e specifico, ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente. [nel caso di specie viene riconosciuta solo un’ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile del segno, ai sensi dell’art.2598 n. 1 c.c., considerata la sussistenza del rapporto concorrenziale tra le due imprese]

15 Luglio 2021

Contraffazione di brevetto. Rilevanza del criterio dell’equivalenza

In tema di determinazione dell’ambito di estensione della tutela brevettuale e determinazione del criterio della “equivalenza” ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 52 c.p.i., non sussiste la fattispecie della contraffazione per equivalenza nel caso in cui la variazione apportata ad un singolo elemento del trovato brevettato non sia marginale ed escluda l’utilizzazione anche solo parziale del brevetto anteriore.

15 Luglio 2021

Compensi degli amministratori di s.p.a. investiti di particolari cariche e prescrizione del relativo diritto

La disposizione dell’art. 2389, primo comma, cod. civ., nella parte in cui dispone che il compenso dei componenti dell’organo di amministrazione di una S.p.a. è stabilito dallo statuto ovvero dall’assemblea, ha natura imperativa e inderogabile da parte dell’autonomia privata. Non ha, quindi, alcuna efficacia l’eventuale esistenza di accordi interni tra amministratori e soci che non siano stati sottoposti a una deliberazione assembleare, né  l’organo amministrativo ha facoltà di autodeterminare il proprio compenso. La deroga contenuta nel successivo terzo comma dell’art. 2389 cod. civ., a norma del quale la remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale e, se lo statuto lo prevede, l’assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche, impone in ogni caso all’organo amministrativo la necessità di rispettare i limiti inderogabili dettati dalla legge e dallo statuto in materia, non potendosi per tale via eludere la disciplina che attribuisce inderogabilmente all’assemblea o allo statuto il potere di determinare il compenso degli amministratori. In particolare, qualora lo statuto preveda che l’assemblea determini un ammontare complessivo per la remunerazione dei compensi degli amministratori, compresi quelli che esercitano particolari cariche, l’organo amministrativo non potrà deliberare compensi ulteriori.

La prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949, primo comma, cod. civ. opera con riguardo ai diritti che scaturiscono dal rapporto societario, e cioè dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell’organizzazione sociale in dipendenza diretta del contratto di società o che derivano dalle situazioni determinate dallo svolgimento della vita in società. E’, quindi,  assoggettato a tale termine breve anche il diritto dell’amministratore a percepire il compenso che scaturisce dal rapporto societario che costituisce la fonte del suo incarico.

 

Sul compenso dell’amministratore di società per azioni

L’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico, sicché l’attività professionale dallo stesso prestata deve presumersi come svolta a titolo oneroso, in applicazione dei principi previsti in materia di mandato ex art. 1709 c.c., essendo quindi onere della società quello di superare la presunzione di onerosità del compenso. Resta, infatti, salva la possibilità che lo statuto preveda la gratuità dell’incarico ovvero che l’amministratore stesso vi rinunci. La rinuncia può essere anche tacita e desumersi da comportamenti concludenti, purché si tratti di comportamenti univoci che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto e che quindi rivelino in modo inequivocabile la volontà dismissiva del relativo diritto, non essendo sufficiente, a desumere la rinuncia al compenso, la mera inerzia o il silenzio dell’amministratore.

Ai sensi dell’art. 2389 c.c., previsto in materia di s.p.a. ma applicabile alle s.r.l., i compensi spettanti agli amministratori sono stabiliti dallo statuto o dall’assemblea. Rimangono quindi prive di effetti altre eventuali forme di determinazione diverse da quelle previste dall’art. 2389 c.c., tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge. In mancanza di determinazione statutaria o assembleare del compenso, l’amministratore può ricorrere all’autorità giudiziaria affinché ne stabilisca l’ammontare, anche in via equitativa, purché l’amministratore alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte e offra elementi tali da consentire al giudice di operare un’equa determinazione, non essendo sufficiente, ad esempio, la mera indicazione del compenso pattuito in esercizi sociali di anni diversi.

Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389, co. 1, c.c., (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al d.lgs. n. 6 del 2003), la delibera assembleare determinativa del compenso, in assenza di previsione statutaria,  deve esser esplicita e non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630, co. 2, c.c., abrogato dall’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002); la distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364, nn. 1 e 3, c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393, co. 2, c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.

Delega agli amministratori della facoltà di aumentare il capitale sociale

L’interpretazione letterale dell’art. 2481 c.c. porta ad escludere che l’assemblea dei soci, ancorché a maggioranza, possa legittimamente delegare agli amministratori la facoltà di aumentare il capitale, in assenza di una specifica disposizione dell’atto costitutivo, essendo possibile attribuire tale facoltà solo mediante l’adozione di una modifica dell’atto costitutivo, da adottarsi secondo le modalità di cui all’art. 2480 c.c.

La legittimazione del socio a impugnare delibere del CdA

L’art. 2388 c.c. è applicabile anche alle s.r.l., per le delibere del CdA delle quali è espressamente prevista dalla legge la sola impugnabilità entro novanta giorni delle decisioni patrimonialmente pregiudizievoli per la società, adottate con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interesse. La norma in questione pone dei limiti all’impugnabilità delle delibere del CdA e, al fine di garantire una maggiore stabilità alle delibere dell’organo gestorio rispetto a quelle dell’organo assembleare, non distingue tra ipotesi di annullabilità e nullità e consente l’impugnazione ai soli soggetti specificamente indicati ed entro il termine di decadenza previsto. L’art. 2388 c.c. riconosce la possibilità per i soci di impugnare le delibere consiliari se lesive dei loro diritti. Ove la delibera non sia, invece, pregiudizievole dei diritti dei soci, eventuali vizi della stessa potranno essere fatti valere solo dagli amministratori assenti o dissenzienti o dal collegio sindacale.

La legittimazione del socio di società cooperativa rispetto all’impugnativa di delibere del CdA è confinata a ipotesi eccezionali e solo se la delibera violi direttamente una posizione di diritto amministrativo o patrimoniale sua propria – come in caso di illegittima esclusione, di mancato riconoscimento del diritto di opzione o di recesso che gli spetti –, mentre per altre violazioni di fonti legali o statutarie che involgano l’attività gestoria, i rimedi messi a disposizione dell’ordinamento in favore dei soci sono di diversa natura e si sostanziano nell’esercizio dell’azione di responsabilità. Pertanto, il socio di società cooperativa che intende impugnare una delibera del CdA è onerato di dimostrare di aver subito un pregiudizio che colpisca in modo diretto la sua sfera giuridico-personale patrimoniale.

Cessazione della qualità di socio e liquidazione delle partecipazioni sociali detenute da enti pubblici

Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in materia di accertamento dell’avvenuta cessazione ex lege della qualità di socio di una società partecipata in capo ad un ente locale ai sensi dell’art. 24, co. 1, d.lgs. 175/2016, c.d. “Testo Unico delle Società Partecipate” (noto anche come “TUSPP” o “Decreto Madia”), a norma del quale gli enti locali dovevano effettuare, entro il 30 settembre 2017, una ricognizione delle partecipazioni societarie detenute, individuando con provvedimento motivato quelle che dovevano essere oggetto di alienazione, in quanto non strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali delle amministrazioni o non rivolte alla produzione di un servizio di interesse generale; alienazione che sarebbe dovuta avvenire entro il 30 settembre 2018, data oltre la quale il socio pubblico non avrebbe più potuto esercitare i propri diritti sociali e la sua partecipazione avrebbe dovuto essere liquidata secondo il procedimento di cui agli artt. 2437, co. 2, e 2437 quater c.c. Infatti, l’esercizio dei diritti sociali all’interno di una società partecipata, costituita in forma di società per azioni, è assoggettato alla disciplina di cui al titolo V, Capo V del Libro Quinto del Codice Civile, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dei diversi soci e pertanto spetta al giudice ordinario e non al giudice amministrativo il sindacato sulle facoltà e sui poteri che competono all’Ente pubblico nella sua qualità di socio, trattandosi di manifestazioni privatistiche del socio pubblico.

Ai sensi dell’art. 24, co. 5, TUSPP, in caso di mancata alienazione delle partecipazioni entro il termine del 30 settembre 2018 o in caso di mancata adozione del provvedimento ricognitivo, la cessazione del rapporto societario tra l’ente e la società partecipata si produce ipso iure, senza necessità di alcun altro intervento; di conseguenza, il mero decorso del termine produce l’insorgenza in capo all’ente pubblico del diritto soggettivo alla liquidazione del valore delle azioni. Per queste ragioni, gli altri soci della società partecipata hanno pieno diritto di vedere accertata la perdita dei diritti sociali, nonché la cessazione della partecipazione e l’interesse a vedersi offerte in opzione le loro azioni ai sensi dell’art. 2437 quater c.c.

In una controversia avente ad oggetto l’accertamento dell’avvenuta cessazione della qualità di socio di una società di capitali non c’è litisconsorzio necessario di tutti i soci in quanto l’ingresso o l’uscita dei soci non dà luogo, a differenza di quanto previsto dalla disciplina delle società di persone, a modificazione del contratto sociale.

L’art. 24 TUSPP costituisce norma intesa a sanzionare unicamente gli enti locali che siano rimasti inerti e, pertanto, non è in alcun modo sostenibile l’equiparazione tra gli enti locali che non hanno adottato l’atto ricognitivo entro il termine del 30 settembre 2017 e gli enti locali che invece tale atto abbiano adottato e che tuttavia sia stato annullato a seguito di impugnazione avanti al giudice amministrativo. Infatti, le sanzioni previste dall’art. 24 TUSPP (dismissione forzosa della partecipazione e liquidazione della quota) non possono che essere riconnesse al ricorrere di determinati atti o fatti fissati dalla legge, non suscettibili di interpretazione estensiva o analogica. Tali sanzioni non sono pertanto applicabili all’ente locale che, a seguito dell’annullamento della delibera ricognitiva, abbia tuttavia adottato una nuova delibera, anche se successiva alla data del 30 settembre 2017, finalizzata al mantenimento della propria partecipazione nella società partecipata.

In tema di riparto tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria e, in particolare, di sindacato del giudice ordinario sugli atti amministrativi, devono essere rispettati i seguenti principi: in primo luogo, il potere di disapplicazione attribuito al giudice ordinario può essere esercitato solo nei giudizi tra privati e non anche nei giudizi in cui sia parte l’ente che abbia adottato quell’atto amministrativo; in secondo luogo, spetta al giudice amministrativo pronunciarsi circa la legittimità delle delibere; inoltre, la valutazione della legittimità del provvedimento amministrativo è ammissibile da parte del giudice ordinario se avvenga in via incidentale e l’atto amministrativo costituisca mero antecedente e non causa della lesione del diritto del privato.

La domanda, promossa da un socio di una società di capitali, volta alla declaratoria di illegittimità del recesso di un altro socio della medesima società è inammissibile per difetto di legittimazione attiva. Il singolo socio è infatti estraneo al rapporto sociale intercorrente tra un altro socio e la società e, pertanto, questi non può sostituirsi alla società al fine di veder accertata l’abusività del recesso.

Azione di responsabilità ex art. 2394 c.c.

Il termine di prescrizione quinquiennale dell’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. decorre dal momento in cui i creditori avevano la possibilità di avere contezza che la società aveva un patrimonio insufficiente al loro soddisfacimento. Sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento (richiama Cass. 24715 del 2015; 28617 del 2019).

L’amministratore che non provvede alla tempestiva collocazione in mobilità dei lavoratori invocando quale scriminante la mancanza dei fondi necessari non fa che confermare una situazione di illiquidità che avrebbe richiesto il tempestivo accesso alle procedure concorsuali, onde limitare l’ammontare dei debiti retributivi e previdenziali (nel caso di specie, in caso di fallimento la società avrebbe potuto usufruire dell’esonero totale dal pagamento del cd. contributo d’ingresso).