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Responsabilità dell’amministratore per prosecuzione con una nuova società di un’impresa in stato di decozione
La prosecuzione con una nuova società di un’impresa in stato di decozione, senza affrontare e risolvere le cause che hanno determinato la crisi, è operazione che, malgrado il principio di normale insindacabilità nel merito delle scelte gestorie, obbliga gli amministratori a rispondere del pregiudizio arrecato perché compiuta senza alcuna diligenza nel preventivo apprezzamento dei margini di rischio ad essa connessi.
La responsabilità solidale prevista dall’art. 2112, co. 2, c.c. presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d’azienda, con la conseguenza che non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l’applicabilità dell’art. 2560 c.c., che contempla, in generale, la responsabilità dell’acquirente per i debiti dell’azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori.
La mancata o irregolare tenuta della contabilità non è in sé causa di danno risarcibile, poiché la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, ma non li determina ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro mancata o scorretta registrazione in contabilità. Ai fini risarcitori, dunque, occorre ulteriormente domandarsi se e quale pregiudizio sia potenzialmente ricollegabile a tale specifica violazione in termini di danno emergente o di lucro cessante a carico del patrimonio sociale e, una volta assolto l’onere della prova circa l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale, la mera mancanza di scritture contabili o la loro scarsa intellegibilità, ove effettivamente preclusiva di una ricostruzione specifica del danno cagionato al patrimonio sociale, può fungere semmai da criterio equitativo ai sensi dell’art. 2486 c.c., co. 3, c.c., dispensando non già dalla prova dell’inadempimento degli amministratori e del pregiudizio arrecato al patrimonio della società, ma soltanto dalla prova precisa del quantum debeatur.
Esclusione del socio di cooperativa e decadenza dal diritto di godimento dell’alloggio assegnato
Competenza della sezione specializzata e connessione
Qualora un credito preteso unitariamente dal socio nei confronti della società sia in realtà composto da più crediti, sorti in tempi diversi, dai quali solo alcuni attinenti al rapporto sociale e gli altri derivanti da rapporti di scambio tra socio e società partecipata, sussiste la competenza della sezione specializzata solo per i primi crediti. Né può dar luogo a una connessione tale da determinare l’attrazione alla competenza specializzata l’identità soggettiva. Infatti, a nessuno dei criteri di cui agli artt. 31/36 c.p.c. basta la mera identità del soggetto passivo. Inoltre, la competenza specializzata, che implica l’impegno di un giudice specializzato e collegiale, si giustifica solo in ragione delle liti in cui sia riconoscibile un immediato radicamento causale rispetto alle vicende societarie e allo status di socio.
Il divieto di assistenza finanziaria e l’applicabilità dell’art. 2358 c.c. alle cooperative
L’art. 2358 c.c. sancisce il divieto, per la società per azioni, direttamente o indirettamente, di accordare prestiti o di prestare garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle proprie azioni: si tratta di un divieto di carattere generale, che può essere derogato solo rispettando le condizioni dettate dalla medesima norma. La violazione di tale obbligo è sanzionata dalla nullità. La ratio della norma è quella di vietare la c.d. assistenza finanziaria, sia nella forma del prestito che in quella della prestazione di garanzie, a favore di chiunque voglia acquistare o sottoscrivere le azioni della società medesima, nella volontà di vietare operazioni che possano determinare un’erosione anche potenziale del capitale sociale, nell’interesse dei creditori della società, a tutela dell’interesse dei soci contro rimborsi preferenziali di conferimenti ad alcuni di essi, e dell’interesse della società a contrastare l’uso da parte degli amministratori delle quote comprate, anche e soprattutto in sede assembleare.
L’importanza degli interessi tutelati, alla cui protezione la norma sul divieto di assistenza finanziaria è strumentale, porta a concludere che l’art. 2358 c.c. sia una norma di carattere imperativo. Invero, l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418, co. 1, c.c., è più amia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo, dovendosi ricomprendere anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni, oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto, per cui ove il contratto venga stipulato, nonostante il divieto imposto dalla legge, è la stessa sua esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni ancora più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto. Da ciò consegue che l’art. 2358 cc, nella misura in cui vieta la stipulazione di determinate operazioni di assistenza finanziaria a tutela del preminente interesse alla tutela dell’integrità ed effettività del patrimonio netto nonché di quello dei creditori, può considerarsi come norma imperativa, e che tale carattere sia rimasto anche dopo le modifiche che, nel 2008, hanno introdotto alcune deroghe al divieto, dovendo ritenersi che, quando il collocamento di azioni avvenga, contro il divieto, nel mancato rispetto delle modalità e limiti previsti dalla legge, la sanzione sia quella della nullità, in quanto solo il rispetto di tali requisiti e limiti permette di superare il divieto.
L’art. 2358 c.c. è applicabile anche alle società cooperative, poiché gli interessi tutelati dalla disposizione risultano pregnanti anche nella disciplina delle società cooperative; segnatamente, lo scopo mutualistico non esclude che possano ritenersi vietate operazioni tali da mettere a rischio l’equilibrio del capitale sociale, la cui tutela è peraltro salvaguardata da norme specifiche, in materia di cooperative, che impongono la formazione di riserve, quali l’artt. 2454 quater e l’art. 32, co. 1, TUB per le banche popolari.
Affinché ricorra il collegamento negoziale, sono necessari sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra gli atti volti alla regolamentazione degli interessi di una o più parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti, pur manifestato in forma non espressa, di volere, non solo l’effetto tipico dei singoli atti in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.
Analogamente all’art. 83 TUB, anche l’art. 51 l.fall. richiamato in materia di liquidazione coatta amministrativa dall’art. 201 della medesima legge, sancisce il divieto di iniziare o proseguire, sui beni compresi nel fallimento, alcuna azione esecutiva o cautelare, laddove invece il disposto dell’art. 52 l.fall. disciplina il peculiare procedimento di accertamento di diritti patrimoniali nei confronti della massa, e stabilisce che ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V, ovvero le norme che disciplinano l’accertamento del passivo. La ratio di tali norme è quella di devolvere al giudice della procedura l’accertamento delle poste di credito vantate nei confronti della procedura, nel rispetto della par condicio creditorum. Conseguentemente, tutte le domande che contengono una pretesa contro la massa, suscettibile quindi di tradursi in una diminuzione dell’attivo, mediante condanna della procedura al versamento di una somma di denaro o alla restituzione di beni, non possono essere proposte avanti al giudice ordinario e devono essere dichiarate improcedibili, anche qualora esse siano finalizzate ad ottenere l’accertamento di un diritto al fine di far valere il titolo, successivamente, in sede fallimentare, ovvero nell’ambito della procedura coatta.
Sulla base dell’art. 83 TUB, in deroga all’art. 56 l.fall., si ammette la compensazione solo nel caso in cui una delle parti abbia fatto valere i propri effetti prima dell’aperura della liquidazione coatta amministrativa. La ratio delle summenzionate norme è quella di consentire al creditore di vedere estinta la relativa obbligazione invocando un controcredito nei confronti della procedura, così da evitare di essere condannato a pagare interamente un debito per poi vedere la riscossione del controcredito sottoposta alle regole della falicidia fallimentare. Tuttavia, trattandosi di norme che derogano in maniera significativa alle norme generali, la disciplina della compensazione deve reputarsi del tutto eccezionale e di stretta interpretazione ed applicazione. Pertanto, la deroga alla disciplina generale è giustificata solo e nella misura in cui il debitore in bonis sia attinto dalla domanda di condanna della procedura, al fine di evitare di essere costretto a pagare integralmente un proprio debito nei confronti del fallimento, rischiando invece di trovare soddisfazione del proprio controcredito in moneta fallimentare. Ad ogni modo, la compensazione non può essere utilizzata come rimedio preventivo, che non sia diretto a paralizzare la pretesa di pagamento del soggetto fallito o in stato di liquidazione coatta, poiché ammettere tale soluzione significherebbe consentire al creditore del fallimento di eludere la disciplina generale della par condicio creditorum.
Il custode delle quote è il solo legittimato a partecipare all’assemblea e a impugnare la delibera
In virtù del combinato disposto degli artt. 2471 bis e 2352 c.c., in caso di pignoramento delle quote sociali, il custode giudiziario delle quote è l’unico soggetto legittimato a rappresentare le quote in assemblea, sussistendo in capo al socio pignorato un difetto di legittimazione alla rappresentanza delle partecipazioni pignorate in assemblea. Pertanto, in mancanza della relativa convocazione, le quote non possono ritenersi validamente rappresentate e il custode giudiziario è legittimato all’esercizio dell’azione di annullamento della delibera assembleare eventualmente assunta.
L’eventuale nuova convocazione dell’assemblea e la sostituzione della delibera assunta in mancanza della necessaria convocazione e partecipazione del custode giudiziario determina la cessazione della materia del contendere in relazione all’impugnazione della delibera precedentemente assunta. Tale declaratoria, peraltro, non pregiudica la domanda di condanna alla refusione delle spese di lite, domanda che deve essere vagliata facendo ricorso alla regola delle soccombenza virtuale.
La competenza nella querela di falso proposta contro un provvedimento giurisdizionale
La disciplina relativa alla querela di falso in via principale non contiene alcuna disposizione speciale in tema di individuazione del giudice territorialmente competente, con la conseguenza che trovano applicazione le regole generali. Nel caso in cui sia convenuto in giudizio il Ministero della Giustizia non risulta, in ogni caso, applicabile al caso di specie l’art. 30 bis c.p.c., perché: (i) la norma richiamata si applica esclusivamente quando sono parti del procedimento magistrati; (ii) la Corte costituzionale, dichiarando la parziale illegittimità costituzionale del primo comma, ha limitato l’applicazione della norma alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato; (iii) la Corte di Cassazione ha comunque escluso l’applicabilità dell’art. 30 bis c.p.c. in caso di querela di falso contro provvedimenti giurisdizionali.
Domanda di compenso per il ruolo di sindaco ed eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.
Il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni all’ufficio giudiziario.
I principi sull’onere della prova in materia di responsabilità si applicano anche in caso di eccezione ex art. 1460 c.c. di modo che l’eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore (di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando, per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver esattamente adempiuto alle medesime. In particolare, nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di inadempienze reciproche deve procedersi ad un esame del comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale.
L’eccezione d’inadempimento può essere dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto e non è subordinata alla presenza degli stessi presupposti richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente, la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto.
In presenza di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. da parte della società (o dal curatore nel caso di fallimento della società) spetta al sindaco il compito di provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma 1°, c.c.). E ciò con la necessaria precisazione che i sindaci non esauriscono l’adempimento dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto, l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione) in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare, degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi, non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza sull’amministrazione della società e le relative operazioni gestorie.
I doveri di controllo previsti a carico dei sindaci dall’art. 2403 c.c. devono estendersi alla legittimità sostanziale dell’attività degli amministratori della società e non possono ritenersi limitati alla mera constatazione della conformità formale di tale attività alle disposizioni di legge o agli astratti principi della contabilità. Il dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2403 c.c. è, in effetti, configurato dalla legge con particolare ampiezza poiché, non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma si estende al regolare svolgimento dell’intera gestione sociale in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali: né, d’altra parte, riguarda solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo conferito ai componenti del relativo collegio il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione.
Si è sostenuto che, con specifico riferimento al diritto del sindaco al pagamento del compenso, il diritto del professionista al compenso, se non implica il raggiungimento del risultato programmato con il conferimento del relativo incarico (e cioè la legittimità dell’intera gestione sociale e la sua conformità ai principi di corretta amministrazione: art. 2403, comma 1°, c.c.), richiede, nondimeno, che il giudice di merito accerti, in fatto, la concreta ed effettiva idoneità funzionale delle prestazioni svolte a conseguire tale risultato, essendo, in effetti, evidente che, in difetto, pur in difetto di una responsabilità contrattuale del professionista a tal fine incaricato, non potrebbe neppure parlarsi di atto di adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dallo stesso e giustifica, quindi, il rifiuto del committente, a norma dell’art. 1460 c.c., al pagamento, in tutto o in parte, del compenso (in ipotesi) maturato.
L’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere, di conseguenza, opposta dal cliente (o dal curatore del relativo fallimento) al professionista (come il sindaco) che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale quando le prestazioni svolte dallo stesso, a prescindere dal mancato conseguimento del risultato perseguito, non sono state, per la negligenza con cui sono state eseguite, oggettivamente funzionali, in tutto o in parte, alla soddisfazione degli interessi del primo, così come dedotti, per volontà delle parti o (come nel caso dei sindaci) della legge, nel contratto di prestazione d’opera professionale tra loro intercorso ed abbiano, di conseguenza, negativamente inciso sulla realizzazione (o possibilità di realizzazione) degli stessi.
Il compito essenziale dei sindaci, infatti, è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione, che la riforma del diritto societario ha esplicitato e che già in precedenza potevano ricondursi all’obbligo di vigilare sul rispetto della legge e dell’atto costitutivo, secondo la diligenza professionale prevista dall’art. 1176, comma 2°, c.c., e cioè di controllare in ogni tempo che gli amministratori, alla stregua delle circostanze del caso concreto, compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale. Se è pur vero, pertanto, che il sindaco non risponde automaticamente, in termini d’inadempimento ai propri doveri giuridici, per ogni fatto gestorio aziendale non conforme alla legge o allo statuto ovvero ai principi di corretta amministrazione, è, tuttavia, necessario, a fini del corretto adempimento dei propri obblighi, che abbia esercitato (o, quanto meno, tentato, con la dovuta diligenza professionale, di esercitare) l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge.
Il giudizio circa il corretto adempimento da parte del sindaco ai propri doveri istituzionali verso la società postula: (i) la prova del compimento da parte del sindaco opposto di tutte le attività proattive di natura ispettiva, consultiva e di controllo della legittimità sostanziale dell’operato degli amministratori, rientranti nella cd. vigilanza in senso stretto, volte a rilevare e prevenire potenziali atti di mala gestio compiuti dagli organi sociali, e, al contempo, (ii) nel caso di rilevati atti di negligente amministrazione, la prova positiva del tempestivo espletamento delle opportune attività reattive di segnalazione e sollecitazione degli organi competenti, al fine di evitare ovvero di contenere il prodursi di un danno a carico della società o dei soci di essa.
L’eccezione di inadempimento può essere dedotta per la prima volta in sede giudiziale, quand’anche non sia stata sollevata in precedenza per rifiutare motivatamente l’adempimento chiesto ex adverso, non ponendo l’art. 1460 c.c. alcuna limitazione temporale o modale alla sua esperibilità, salva l’ipotesi di termini differenziati di adempimento, né essendo l’esercizio della facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, a fronte del grave inadempimento della controparte, subordinato ad alcuna condizione né, in particolare, alla previa intimazione di una diffida o ad alcuna generica contestazione dell’inadempimento, l’eccezione stessa.
Azione di responsabilità esercitata dal curatore per atti di mala gestio
L’azione di responsabilità svolta dal curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall. cumula in sé le diverse azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali. Il curatore può conseguentemente formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori tanto con riferimento ai presupposti della loro responsabilità contrattuale verso la società (art. 2392 c.c.), quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale verso i creditori. Costituisce un accertamento di fatto rimesso all’apprezzamento del Tribunale verificare se, con la propria domanda, il curatore abbia inteso azionare la responsabilità contrattuale verso la società dell’amministratore ovvero la relativa responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali.
In base alla business judgment rule, la responsabilità dell’amministratore non può essere semplicemente desunta dai risultati della gestione e, perciò, al giudice investito dell’azione di responsabilità non è consentito sindacare i criteri di opportunità e di convenienza seguiti dall’amministratore nell’espletamento dei suoi compiti. Tuttavia, sebbene la business judgment rule osti al sindacato giudiziale delle scelte gestionali compiute dagli amministratori, il tribunale può valutare le decisioni gestionali qualora l’organo amministrativo abbia omesso di adottare quelle cautele, verifiche o informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quella natura, che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società.
In tema di compenso cui ha diritto l’organo amministrativo per l’attività svolta per conto della società in adempimento del mandato ricevuto, l’art. 2389 c.c. stabilisce che, ove lo statuto nulla disponga in merito, competente per la relativa determinazione è l’assemblea dei soci, che può provvedervi sia con la medesima delibera di nomina dei soggetti preposti alle funzioni gestorie, sia con autonoma e separata deliberazione. Ove nulla disponga al riguardo lo statuto ovvero l’assemblea si rifiuti o ometta di procedere alla relativa liquidazione o, ancora, lo determini in misura assolutamente inadeguata, il compenso deve intendersi indeterminato e quindi può essere giudizialmente determinato, su domanda dell’amministratore, in applicazione dell’art. 1709 c.c., anche mediante liquidazione equitativa. Di tal che, l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza non assume alcun effetto giuridico, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge. Inoltre, sono illegittime le auto-liquidazioni compiute dall’amministratore.
In tema di sottrazione di risorse dalla cassa-contanti ovvero di assegni, una volta provato il compimento da parte dell’amministratore di prelievi di somme della società da lui amministrata, incombe sul medesimo fornire debita giustificazione di tali atti in conformità ai doveri anzidetti. Ciò si giustifica tenendo presente il disposto dell’art. 1218 c.c., che la duplice natura giuridica della azione di responsabilità azionabile dal curatore rende applicabile. Più nello specifico, la responsabilità della cassa grava sull’amministratore, sicché su di lui incombe l’onere di provare che le somme che, secondo la contabilità sociale, avrebbero dovuto costituire il saldo cassa e invece non reperite al momento del fallimento, fossero comunque state utilizzate per scopi sociali.
Estinzione della società e conseguente fenomeno di tipo successorio
La cancellazione delle società di persone o di capitali dal registro delle imprese determina l’immediata estinzione della società, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo.
Qualora all’estinzione della società non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, cosicché si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, benché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore, giudiziale o stragiudiziale, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.
Il socio di s.r.l. titolare di un terzo del capitale può convocare l’assemblea
La competenza dei soci di s.r.l. titolari di almeno un terzo del capitale a sottoporre all’assemblea degli argomenti implica anche il potere degli stessi di procedere alla diretta convocazione dell’assemblea, poiché diversamente risulterebbe del tutto superflua la previsione legislativa di cui all’art. 2479, co. 1, c.c. Tale potere dei soci di s.r.l. è configurato come concorrente rispetto a quello eventualmente attribuito all’amministratore dall’autonomia statutaria, anche in considerazione della valorizzazione all’iniziativa e al ruolo del socio all’interno della s.r.l.
La revoca per giusta causa dell’amministratore può discendere dal venir meno del rapporto di fiducia con la compagine societaria. La giusta causa può essere sia soggettiva che oggettiva, purché si tratti di circostanze o fatti sopravvenuti idonei a influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto.
L’amministratore revocato ha legittimazione a impugnare la deliberazione assembleare di revoca ritenuta invalida.
L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o ex amministratori di s.r.l. può essere esercitata direttamente dalla società, fermo restando che, in tal caso, è necessaria la previa deliberazione assembleare di cui all’art. 2393 c.c. quando l’azione sia diretta a far valere la responsabilità degli amministratori per inadempimento degli obblighi imposti dalla legge o dallo statuto.