tutti
7180 risultati
Decadenza del consigliere di amministrazione in caso di clausola simul stabunt simul cadent
Attraverso la previsione della clausola statutaria “simul stabut simul cadent”, alle dimissioni provenienti da ciascun componente del consiglio di amministratore viene attribuito l’ulteriore effetto di determinare la decadenza immediata dell’organo gestorio.
Si tratta di una clausola che viene accettata dall’amministratore al momento dell’assunzione della carica, essendo quindi, ciascun componente dell’organo amministrativo, consapevole della possibilità che l’intero consiglio venga a cessare prima della sua naturale scadenza a seguito della manifestazione della volontà di uno solo di suoi componenti, volontà che non richiede alcuna espressa motivazione.
La decadenza immediata dell’organo amministrativo conseguente alla legittima applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent non comporta, a favore del componente non dimissionario, alcun effetto indennitario o risarcitorio, dal momento che la previsione conforma specificamente il mandato gestorio assunto da ciascun membro del consiglio di amministrazione con l’accettazione della carica.
È onere dell’amministratore revocato quello di dimostrare la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione abusiva o in mala fede della clausola. Tale prova può essere offerta anche tramite presunzioni, che tuttavia devono essere tra loro gravi precise e concordanti e denotare l’esistenza un vero e proprio “procedimento” elusivo costituito dalla concatenazione concertata di atti negoziali e comportamenti riferibili a componenti di organi sociali diversi volti a convergere sull’unico scopo della realizzazione di un effetto equivalente alla revoca ingiustificata senza indennizzo dell’amministratore.
Tra gli elementi presuntivi di tale abusivo disegno viene individuata la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario.
Decorrenza del termine prescrizionale delle azioni verso i revisori e le società di revisione: questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, D.Lgs. n. 39/2010
L’art. 15, co. 3, del D.Lgs. n. 39/2010 differenzia irragionevolmente la disciplina di decorrenza del termine di prescrizione delle azioni risarcitorie proponibili ex contractu o ex delicto nei confronti dei revisori rispetto a quella prevista con riferimento alla prescrizione delle stesse azioni proponibili nei confronti degli amministratori e dei sindaci, determinando altresì, con ciò, un ostacolo irragionevole all’esercizio dei diritti risarcitori della società, dei soci e dei terzi, compresi i creditori. La differenza sta nel fatto che nel secondo caso – azioni verso amministratori e sindaci – in conformità ai principi generali, il termine decorre dal momento in cui i danneggiati hanno conoscenza del danno subito, momento da valutare secondo criteri obiettivi. Nel primo, invece, il termine decorre dalla data della relazione di revisione, cioè da un termine fisso, identificabile in un comportamento bensì generativo del danno ma in modo per nulla affatto immediato e privo di alcun rapporto con il manifestarsi del danno medesimo. Quest’ultimo regime di decorrenza della prescrizione pone un ostacolo effettivo alla tutela dei diritti risarcitori della società, dei soci e dei terzi, poiché determina la rilevanza a fini prescrizionali di un periodo di tempo – quello tra la data della relazione di revisione ed il momento (da valutarsi secondo criteri oggettivi) di conoscenza del danno da parte del danneggiato – in cui al danneggiato stesso non è imputabile alcuna inerzia nell’esercizio del suo diritto.
Si pongono allora con particolare evidenza un aspetto di irragionevole discriminazione rispetto alla disciplina del decorso del termine prescrizionale previsto per le azioni verso amministratori e sindaci ed un profilo di irragionevolezza intrinseca della previsione normativa qui censurata; sicché va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, co. 1, e 24, co. 1, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, co. 3, D.Lgs. n. 39/2010, nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione delle azioni nei confronti di revisori e società di revisione decorre dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento.
Denuncia di gravi irregolarità e gestione di operazioni in conflitto di interessi
L’art 2391 c.c. definisce una serie di fasi che devono essere seguite nel caso sussista un interesse proprio o di terzi: in primo luogo, l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori di questa situazione di interesse per una determinata operazione; in secondo luogo, la notizia deve contenere la natura, i termini, l’origine e la portata del potenziale conflitto; in terzo luogo, la deliberazione del CdA deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione.
I presupposti per l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. sono: il compimento da parte degli amministratori, in violazione dei loro doveri, di gravi irregolarità nella gestione; il danno potenziale; l’attualità delle irregolarità. [Nel caso di specie il Tribunale ritiene sussistenti e attuali le gravi irregolarità richieste dalla norma, in ragione: a) dell’inosservanza della procedura prevista dall’art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi con riferimento alla stipulazione di contratti di locazione; b) dell’assenza di valutazione in merito alla convenienza per la società di stipulare nuovamente i contratti con parti in conflitto di interessi, nonché dei forti dubbi sulla congruità dei nuovi canoni di locazione; c) dell’assenza di qualsivoglia concreta iniziativa da parte degli amministratori indipendenti per tutelare il patrimonio della società per gli ingenti danni subiti a causa di decenni di canoni notevolmente al di sotto dei valori di mercato.]
Confondibilità tra marchi e misure cautelari
L’accertamento circa la confondibilità tra marchi e segni in conflitto non deve essere compiuto in via analitica, attraverso la separata considerazione dei singoli elementi di valutazione, ma deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all’insieme dei relativi elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, ove esistenti e deve, inoltre, fondarsi sull’impressione complessiva prodotta dai marchi a confronto, in considerazione dei loro elementi distintivi e dominanti, tenuto conto delle normali diligenza e avvedutezza dei consumatori e del normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato.
Nell’indagine in ordine a una contraffazione, destinata a rilevare soltanto in relazione agli elementi essenziali del marchio, l’interprete deve preventivamente individuare il “cuore”, ossia l’idea fondamentale che è alla base e connota il marchio di cui si chiede la tutela e in cui si riassume la sua attitudine individualizzante, dovendosi ritenere inidonee a escludere l’illecito tutte le variazioni e modificazioni, ancorché rilevanti e originali, che lascino sussistere la confondibilità del nucleo ideologico-espressivo.
Quando un marchio è composto da elementi verbali e figurativi, i primi risultano, in linea di principio, maggiormente distintivi dei secondi, dacché il consumatore-tipo di riferimento, che solitamente dimostra un livello di attenzione medio rispetto ai prodotti e ai servizi in questione, opererà più facilmente riferimento al prodotto di cui trattasi citandone il nome, anziché descrivendo l’elemento figurativo del marchio.
L’eventuale qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell’adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all’identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente.
Ai fini della concessione della descrizione delle scritture contabili, il pericolo di dispersione o rimozione deve ritenersi a priori scongiurato dalla sussistenza in capo ad un imprenditore commerciale, di un obbligo legale di tenuta e conservazione, ai sensi dell’art. 2220 c.c., il quale impone la conservazione delle scritture contabili, nonché delle fatture e della corrispondenza commerciale per la durata di almeno dieci anni dalla data dell’ultima registrazione.
Ai fini della concessione dell’inibitoria, la natura permanente dell’illecito e la progressiva estensione della sua idoneità lesiva implicano un rapporto non già inversamente, bensì direttamente proporzionale tra l’urgenza di eliminazione del protrarsi della situazione dannosa e il decorso del tempo.
Il corretto adempimento dei debiti tributari e previdenziali costituisce un dovere per l’amministratore di una società di capitali
Il corretto adempimento dei debiti tributari e previdenziali costituisce un dovere per l’amministratore di una società di capitali. In tale contesto, il danno derivante dal mancato adempimento non può essere parametrato all’entità dell’imposta o del contributo omesso, in quanto la società è tenuta comunque a sopportarne il costo. Il danno deve piuttosto essere commisurato all’entità delle sanzioni comminate dall’amministrazione finanziaria e agli interessi maturati successivamente alla scadenza del termine legalmente previsto, poiché tali esborsi sarebbero stati evitabili qualora gli amministratori, utilizzando l’ordinaria diligenza, avessero provveduto ad adempiere ai propri obblighi in modo regolare. La responsabilità degli amministratori, peraltro, è ravvisabile solo in presenza di una loro condotta colpevole, ciò presupponendo che questi – pur potendo provvedere al pagamento evitando il lievitare del debito – non lo avrebbero fatto senza giustificato motivo.
Azione di contraffazione del marchio: modalità di valutazione del rischio confusorio
La tutela prevista dall’art. 2598, comma 1, c.c., è cumulabile con quella specifica posta a protezione di segni distintivi tipici, trattandosi di azioni diverse per natura, presupposti, ed oggetto, stante il fatto che la prima ha carattere personale e presuppone la confondibilità con i prodotti del concorrente, mentre la seconda, a tutela delle privative industriali, ha natura reale ed opera anche indipendentemente dalla confondibilità dei prodotti e prescinde da connotazioni soggettive.
Ai fini del giudizio di confondibilità, di cui dell’art. 20 c.p.i., il c.d. rischio confusorio deve essere accertato attraverso una valutazione globale, tenendo conto dell’impressione d’insieme che suscita il raffronto tra i due segni mediante un esame unitario e sintetico che tenga in considerazione diversi fattori, quali la identità/somiglianza dei segni, la identità/somiglianza dei prodotti e servizi, il carattere distintivo del marchio anteriore, gli elementi distintivi e dominanti dei segni concorrenti, in relazione al normale grado di percezione dei potenziali acquirenti del prodotto del presunto contraffattore.
In tema di tutela del marchio, l’apprezzamento del giudice sulla confondibilità dei segni nel caso di affinità dei prodotti, non deve avvenire in via analitica attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni elemento, ma in via globale e sintetica, mediante una valutazione d’impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e che deve essere condotta alla stregua della normale diligenza e avvedutezza del consumatore di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo mnemonico dell’altro.
Una volta accertato il c.d. fumus boni juris, il periculum in mora è da ritenersi in re ipsa poiché la concorrenza confusoria comporta di per sé un drenaggio irreversibile di clientela e devalorizzazione o discredito dell’immagine commerciale e dei segni distintivi.
Segni identici: la tutela conferita dal marchio e dalle norme sulla concorrenza sleale
Una medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di segni distintivi ma solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi dell’art. 2598 c.c.
La protezione riconosciuta ai marchi che godono di notorietà consiste nel consentire ai titolari di vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, di usare nel commercio senza giusto motivo un segno identico o simile – tanto per prodotti o servizi simili, quanto per prodotti o servizi non simili a quelli per i quali tali marchi sono registrati – che tragga indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà di detti marchi o arrechi pregiudizio agli stessi. La tutela accordata al marchio rinomato comporta, dunque, che la stessa si estende anche al caso di prodotti o servizi non affini e prescinde dall’accertamento di un rischio di confusione tra i segni, essendo sufficiente che il pubblico interessato in concreto possa cogliere l’esistenza di un nesso, ossia di un grado di similarità, tra il marchio notorio e quello successivo.
Esistono vari livelli di rinomanza, che vanno dai segni noti alla generalità della popolazione a quelli solo largamente accreditati presso un segmento del pubblico dei consumatori, cui si accompagnano diverse estensioni della tutela. Il diverso livello di rinomanza incide sull’onere della prova, ben potendo, in caso di segni notori, farsi ricorso anche alle nozioni di comune esperienza, mentre risulta necessario, a livelli più bassi di conoscenza del pubblico, fornire una prova più compiuta, attraverso indagini di mercato o dimostrando l’entità della promozione pubblicitaria e la penetrazione della stessa.
In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno. Non può esserci concorrenza tra imprese che operano in contesti territoriali tra loro molto distanti.
La finalità della descrizione: soddisfacimento di esigenze istruttorie e rischio di dispersione della prova
La misura della descrizione è finalizzata all’acquisizione della prova della violazione del diritto, ed è quindi sia rimedio di istruzione preventiva, in quanto rivolta al soddisfacimento di esigenze istruttorie relative al prospettato giudizio di merito, cui è direttamente strumentale, sia rimedio di natura cautelare, in quanto la sua concessione è comunque subordinata alla sussistenza di un rischio di dispersione della prova, che in alcuni casi necessita della sua anticipata acquisizione, in quanto non altrimenti disponibile per il titolare del diritto che si assume leso.
La tutela ha ad oggetto quindi l’istruttoria, cioè l’acquisizione di elementi che serviranno poi per decidere sulla ragione o sul torto.
Il procedimento cui dà origine la richiesta di descrizione si diversifica da tutti gli altri procedimenti cautelari che hanno ad oggetto anticipazioni di tutela della posizione giuridica sostanziale. Viene infatti in rilievo, nel caso della descrizione, il diritto processuale alla prova e non già, quantomeno in via immediata, il diritto sostanziale in relazione al quale il diritto processuale svolge funzione servente.
Contraffazione di modelli comunitari e percezione generale dell’utilizzatore informato
Ai fini dell’accertamento di una contraffazione di modelli o disegni comunitari, il confronto va effettuato tra i modelli o i disegni così come sono stati registrati, indipendentemente dalla loro realizzazione, ed i prodotti in asserita contraffazione. Quest’ultima potrà, quindi, dirsi sussistente qualora l’impressione generale d’insieme, suscitata nel cd. utilizzatore informato, circa l’aspetto complessivo dei prodotti sia la medesima rispetto a quella suscitata dai modelli o dai disegni registrati. In particolare gli elementi che assumono maggior peso, nell’ambito della predetta percezione generale, sono dati dalla forma peculiare dei prodotti ovvero da quegli aspetti più visibili ed innovativi degli stessi; mentre sono da considerarsi meno rilevanti quegli elementi che presentano delle forme più classiche, perciò meno idonee a produrre nell’utilizzatore informato un’impressione generale diversa da quella creata dai modelli o dai disegni protetti.
Tutela autorale di un oggetto e contraffazione di marchio
Ai fini del riconoscimento della tutela autorale ad un oggetto ai sensi dell’art. 2, n. 10, l.d.a. contribuiscono vari aspetti quali il carattere di notorietà dell’opera, la fama internazionale dell’ideatore, l’esposizione delle opere in prestigiose sedi museali a livello internazionale, nonché il grado di trasposizione dell’idea artistica da parte dell’autore, la produzione non meramente seriale e l’astrazione dell’oggetto dalla mera utilità.
Costituisce contraffazione di marchio il suo uso non autorizzato da parte di terzi come titolo di una iniziativa di vendita on line e a fini identificativi dell’artista.
Sussiste l’illecito della concorrenza sleale per imitazione servile nei casi di imitazione di disegni e modelli altrui che possiedono una capacità distintiva che ne individua agli occhi del pubblico la provenienza da una determinata impresa.