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L’esercizio dei diritti particolari del socio caratterizzati da intuitus personae è precluso al custode delle quote sottoposte a sequestro conservativo
In linea di principio, l’intuitus personae che caratterizza i diritti particolari del socio ex art. 2468, co. 3, c.c. induce a ritenere che, in caso di sequestro della quota, l’esercizio degli stessi spetti al socio, a meno che la particolare configurazione del diritto o la sua disciplina statutaria, specie sulla sua trasferibilità, non rendano possibile il loro esercizio da parte del custode. Tuttavia, il riconoscimento in concreto di tale possibilità deve tenere conto delle concrete caratteristiche del diritto particolare, stante la mutevolezza della realtà e delle discipline statutarie, nonché delle ragioni per le quali tali diritti particolari sono stati attribuiti al socio e della conformazione che essi possono assumere in concreto.
Natura e onere probatorio dell’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall.
L’azione di responsabilità sociale ex art. 146 l.fall. promossa dalla curatela contro gli amministratori di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti. È poi onere dell’attore quello di provare la sussistenza e l’entità del danno lamentato. L’onere di allegazione che incombe sulla curatela assume quindi connotati e pregnanza diverse a seconda della tipologia di addebito contestato, e della natura della condotta e del danno lamentato.
Qualora la condotta imputata all’amministratore abbia natura distrattiva, è onere della parte attrice dimostrare l’avvenuto prelievo o pagamento di somme, e quindi la diminuzione del patrimonio sociale, e allegare che tali prelievi siano rimasti privi di giustificazione alcuna o comunque che siano stati effettuati per finalità che si assumano essere estranee ai fini sociali, in favore dell’amministratore o di soggetti terzi, essendo invece onere dell’amministratore quello di provare la destinazione a fini sociali delle somme oggetto di contestazione. L’amministratore ha, infatti, l’obbligo giuridico di fornire la dimostrazione della destinazione dei beni presenti nel patrimonio, con la conseguenza che dalla mancata dimostrazione può essere legittimamente desunta la prova della loro distrazione od occultamento.
L’omessa, o irregolare, tenuta delle scritture contabili costituisce un illecito meramente formale, che, ai fini della responsabilità dello stesso amministratore, non ha di per sé sola una rilevanza tale da consentire di addebitare allo stesso sic et simpliciter la perdita patrimoniale. Sul piano del nesso causale, infatti, il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione. L’amministratore deve sì dare conto di tale atto di gestione nelle scritture contabili, ma laddove ometta tale rilevazione non è necessariamente detto che sussista una perdita di gestione né che quest’ultima, laddove esistente, dipenda dall’irregolarità della tenuta dei registri contabili e della documentazione che l’impresa ha l’obbligo di conservare. In quest’ottica, è onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale.
Responsabilità degli amministratori per omesso versamento delle imposte
L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e, conseguentemente, sull’attore grava esclusivamente l’onere di dimostrare l’inadempimento (trattandosi di obbligazioni di mezzi e non di risultato), il nesso di causalità tra quest’ultimo e il danno verificatosi; mentre sull’amministratore incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
Il pagamento delle imposte e degli oneri contributivi e previdenziali costituisce un dovere specifico degli amministratori di società e l’inadempimento degli obblighi tributari espone gli amministratori a responsabilità verso la società per il carico sanzionatorio derivante dalle violazioni riscontrate in sede di accertamento tributario, mentre il danno subito dalla società non può essere parametrato all’entità dell’imposta o del contributo omesso, in quanto la società era tenuta comunque a sopportarne il costo. Il danno può, quindi, essere commisurato soltanto sulla base dell’entità delle sanzioni comminate dall’amministrazione finanziaria e dagli interessi maturati successivamente alla scadenza del termine legalmente previsto, poiché tali esborsi sarebbero stati evitabili qualora l’amministratore, utilizzando l’ordinaria diligenza, avesse provveduto ad adempiere ai propri obblighi in modo regolare. Peraltro, è possibile ravvisare una responsabilità dell’amministratore solo in presenza di una condotta colpevole dello stesso, ciò presupponendo che l’amministratore – pur potendo provvedere al pagamento evitando il lievitare del debito – non lo avrebbe fatto senza giustificato motivo.
In merito al danno derivante dalla mancata escussione di crediti verso terzi, perché sia configurabile la responsabilità degli amministratori, il mancato incasso d’un credito, maturato dalla società in bonis prima del fallimento, non è sufficiente allegare l’inerzia degli amministratori nella riscossione di esso, occorrendo anche allegare e provare che il credito è divenuto inesigibile a causa di quella inerzia in ragione di fatti patrimoniali sopravvenuti della debitrice e/o della prescrizione del credito.
Il requisito del periculum in mora richiede la prova di un fondato timore di perdere le garanzie del proprio credito. Requisito desumibile, alternativamente, sia da elementi oggettivi, riguardanti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore che lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, egli possa porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio.
L’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto ex art. 2467, co. 2, c.c.
Per la valutazione della sussistenza dell’eccessivo squilibrio fra patrimonio netto e indebitamento di cui all’art. 2467, co. 2, c.c., occorre richiamare i criteri principali e normativamente giustificati di cui agli artt. 2412 c.c. e 2545 quinquies c.c., che fanno riferimento ad un rapporto fra indebitamento e patrimonio netto, nel senso che la prima sembra suggerire che un rapporto fino al doppio (indebitamento rispetto a patrimonio netto) possa considerarsi fisiologico, mentre la seconda che un rapporto oltre il quadruplo non lo sia, restando inteso che detti rapporti sono misurati su patrimoni netti positivi (con la conseguenza che un patrimonio netto negativo comporta in ogni caso uno squilibrio eccessivo ai fini dell’art. 2467 comma 2 c.c.).
L’art. 2467 c.c., nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, prevedeva due diverse discipline riguardanti il rimborso del finanziamento al socio. La prima di carattere generale, espressione di una regola sostanziale operante anche durante la vita della società, la quale rende inesigibile il credito del socio finanziatore, quando riguardi apporti eseguiti nelle condizioni previste dalla norma, e fintanto che tale situazione non receda; la seconda delineava uno strumento speciale, applicabile ai finanziamenti eseguiti in presenza delle condizioni di cui al comma 2, se restituiti nell’anno anteriore al Fallimento.
L’azione infrannuale di restituzione di cui al testo previgente dell’art. 2467 c.c. spetta in via esclusiva al fallimento ed è assistita da una presunzione legale che esclude la necessità di provare in concreto che anche la restituzione, oltre che il finanziamento, sia avvenuta nel permanere delle condizioni di cui all’art. 2467, co. 2, c.c.
Violazione del divieto di immistione del socio accomandante
Il socio accomandante assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell’art. 2320 c.c. ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione – intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull’amministrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi – o di trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari. Per aversi ingerenza dell’accomandante nella amministrazione della s.a.s. vietata dall’art. 2320 c.c., deve essere posta in essere una attività gestoria che può avere ad oggetto operazioni destinate ad avere efficacia interna alla società o a riflettersi all’esterno e che sia altresì espressione del potere di direzione degli affari sociali in quanto implicante una scelta che è propria del titolare dell’impresa.
L’attività amministrativa vietata al socio accomandante riguarda il momento genetico del rapporto in cui si manifesta la scelta operata dall’imprenditore, mentre tutto quanto attiene al momento esecutivo dell’adempimento delle obbligazioni che da quel rapporto derivano, non esclude di per sé la qualità di terzo dell’accomandante rispetto alla gestione della società, alla quale, pertanto, rimane estraneo.
L’emissione da parte del socio accomandante di assegni bancari tratti sul conto della società all’ordine di terzi, con apposizione della firma sotto il nome di quest’ultima e per conto di essa, in difetto di prova contraria, determina l’estensione di responsabilità del socio accomandatario.
L’equiparazione del socio accomandante che si è ingerito nell’amministrazione sociale al socio accomandatario prescinde da qualsiasi distinzione tra debiti sorti in epoca anteriore o successiva alla descritta ingerenza, né la responsabilità è limitata al singolo affare per il quale vi è stata ingerenza.
Il provvedimento n. 55 del 2005 di Banca d’Italia non costituisce prova privilegiata per le fideiussioni specifiche
Lo schema contrattuale oggetto di analisi da parte della Banca d’Italia con il provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 era stato predisposto dall’Associazione bancaria italiana nel corso dell’anno 2003 e riguardava unicamente le fideiussioni omnibus rilasciate a garanzia di operazioni bancarie. Dunque, la mera corrispondenza di alcune clausole contenute in una fideiussione specifica allo schema ABI non determina la nullità delle predette clausole, in essa riprodotte, poiché non vige il criterio presuntivo secondo cui tale fideiussione rappresenti il frutto di un’intesa vietata, cioè non può avvalersi del valore di prova privilegiata del provvedimento sanzionatorio della Banca d’Italia. Ne discende che l’onere probatorio relativo all’esistenza di una intesa illecita in violazione della concorrenza all’epoca della stipula dei contratti di fideiussione grava sulla parte che eccepisce la nullità delle fideiussioni per violazione della normativa antitrust. Inoltre, non è sufficiente l’allegazione di moduli contenenti le clausole censurate, predisposte da vari istituti di credito, al fine dell’assolvimento della prova dell’illiceità dell’intesa a monte, in quanto la standardizzazione contrattuale non produce necessariamente effetti anticoncorrenziali, né costituisce elemento dirimente per accertare l’accordo illecito tra gli istituti di credito.
Inidoneità della mancanza delle scritture contabili a giustificare la condanna dell’amministratore
La mancanza di scritture contabili, ovvero la sommarietà di redazione di esse o la loro inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso di causalità rispetto ai fatti causativi del dissesto. Essa presuppone, invece, per essere valorizzata in chiave risarcitoria nel contesto di una liquidazione equitativa, che sia comunque previamente assolto l’onere della prova, e prima ancora dell’allegazione, circa la l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale. Il criterio del deficit fallimentare è applicabile soltanto come criterio equitativo per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno, sussistendo però la prova almeno presuntiva di condotte tali da generare lo sbilancio fra attivo e passivo.
Le scritture contabili hanno la funzione di rappresentare dei fatti di gestione e la loro mancanza o la loro irregolare tenuta sono illeciti meramente formali che certamente sono suscettibili di essere valorizzati ad esempio ai fini della revoca dell’amministratore o della denuncia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c., ma che, ai fini della responsabilità dello stesso amministratore, non hanno di per sé soli una rilevanza tale da consentire di addebitare allo stesso sic et simpliciter la perdita.
Il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione.
È onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale. Soltanto una volta soddisfatti tali oneri, la mancanza delle scritture contabili rileva quale presupposto per l’utilizzo dei criteri equitativi differenziali. Il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che vi sia la prova dell’esistenza del medesimo e del nesso di causalità ma che la quantificazione del danno non sia agevole; il potere, invece, non può essere esercitato né invocato dal danneggiato quale modalità per aggirare l’onere della prova relativamente agli elementi costitutivi dell’illecito.
Con riguardo alla responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la quale sia stata compromessa da prelievi di cassa o pagamenti in favore di terzi in assenza di causa, deve ritenersi dimostrata per presunzioni la distrazione del denaro sociale da parte dell’amministratore ove questi non provi la riferibilità alla società delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali.
Il requisito dell’originalità di una banca dati
Per quanto concerne la costituzione di una banca dati, il criterio di originalità è soddisfatto quando, mediante la scelta o le modalità di disposizione dei dati in essa contenuti, il suo autore esprima la sua capacità creativa con originalità, effettuando scelte libere e creative. In tale contesto le nozioni di “scelta” e di “ disposizione”, ai sensi dell’art. 3, par. 1, Dir. n. 96/9/CE riguardano, rispettivamente, la selezione e la sistematizzazione dei dati con cui l’autore della banca dati conferisce a quest’ultima la sua struttura. Al contrario il criterio de quo non è soddisfatto quando la costituzione della banca dati sia dettata da considerazioni di carattere tecnico, da regole o vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa. Tali nozioni non comprendono, invece, la creazione dei dati contenuti nella banca dati stessa. Peraltro il fatto che quest’ultima abbia richiesto un dispiego di attività e know-how significativi da parte del suo autore, non può, di per sé, giustificare la sua tutela in base al diritto d’autore, qualora tali attività e tale know-how non esprimano alcuna originalità nella scelta o nella disposizione di cui trattasi.
Presupposti applicativi della misura cautelare della descrizione, misure di protezione e inibitorie nei procedimenti in materia di concorrenza sleale, industrialistica e diritto d’autore
La misura della descrizione, con finalità di acquisizione probatoria, è prevista solo con riferimento ai diritti industriali e/o previsti dalla legge sul diritto di autore. Attesa la funzione probatoria, il fumus richiesto per la concessione della descrizione è dunque sicuramente affievolito rispetto al fumus richiesto per la concessione delle altre misure cautelari, quali il sequestro e l’inibitoria, esaurendosi nella sussistenza di un ragionevole sospetto di violazione o nella non pretestuosità della domanda, ma la concessione o comunque la conferma della misura non possono prescindere dalla verosimiglianza della titolarità, in capo a chi agisce, di un diritto industriale [nel caso di specie trattavasi di informazioni segrete ai sensi dell’art. 98 CPI e/o di una banca dati ex art. 2, n. 9, e 102 bis LdA].
Le misure di protezione ex art. 98, lett. c) cpi hanno il duplice scopo di impedire che coloro che detengono determinate informazioni (ad esempio dipendenti e collaboratori) le portino a conoscenza di terzi e che i terzi possano accedervi direttamente. A tal fine, l’imprenditore deve intervenire su più livelli, adottando misure che possono ricondursi a tre categorie: le misure di carattere fisico (quali l’utilizzo di archivi cartacei protetti da chiavi e accessibili solo ad alcuni dei dipendenti), le misure di carattere tecnologico (quali l’utilizzo di sistemi che rendano accessibili le informazioni solo a particolari soggetti, mediante l’utilizzo di accorgimenti tecnici) e le misure di carattere organizzativo (quali ad esempio circolari interne, protocolli, ordini di servizio, patti di non concorrenza o accordi di segretezza che consentano di rendere manifesta la volontà del titolare delle informazioni di mantenerle segrete). L’idoneità delle misure adottate deve essere valutata caso per caso, considerando vari fattori, tra i quali rilevano le dimensioni dell’impresa, la natura dell’informazione, il numero di soggetti che vi abbiano accesso e la tipologia di accesso previsto all’informazione stessa.
Il criterio di originalità è soddisfatto quando, mediante la scelta o la disposizione dei dati in essa contenuti, il suo autore esprima la sua capacità creativa con originalità effettuando scelte libere e creative. Al contrario, il criterio de quo non è soddisfatto quando la costituzione della banca di dati sia dettata da considerazioni di carattere tecnico, da regole o vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa.
Non va considerata, al fine di valutare l’originalità della banca dati , la rilevanza del dato in quanto tale e nemmeno il fatto che la costituzione della banca di dati abbia richiesto, oltre alla creazione dei dati in essa contenuti, un dispiego di attività e know-how significativi da parte del suo autore (fattori rilevanti, invece, per la tutela della banca dati sui generis ex ar.t 102 LdA). Da ciò consegue che, qualora l’organizzazione dei dati si ispiri ed assolva a informative o gestionali, senza un apprezzabile gradiente di apporto intellettuale creativo, il carattere dell’originalità non sussiste.
Qualora si tratti di una banca dati di tipo dinamico, è nell’in sé della banca dati stessa che i contenuti si evolvano in continuazione, dal che non è possibile sostenere che le continue modifiche del contenuto dei dati attribuiscano all’investimento una portata qualificante e sostanziale, tale da far decorrere continuamente un nuovo termine quindicennale: seguendo tale impostazione, una tale tipologia di banca dati godrebbe di una tutela sui generis illimitata, e ciò si porrebbe in contrasto con la norma che, al contrario, precede che detta tutela sia accordata per un tempo determinato. Al fine di far decorrere un nuovo termine quindicennale, è dunque necessario un investimento di rilevante e sostanziale innovazione della banca dati, distinto dal mero aggiornamento dei dati contenuti nei listini prezzi.
Intestazione fiduciaria di quote sociali e onere della prova
L’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie è un contratto che determina un’interposizione reale di persona, in cui il trasferimento della proprietà, pur effettivo e reale, è strumentale al perseguimento degli interessi del fiduciante, essendo l’attività del fiduciario svolta nell’interesse del fiduciante.
Il patto fiduciario, al pari dei negozi traslativi delle azioni o quote che lo realizzano, è sempre a forma libera, non rilevando affatto se la società abbia, nel suo patrimonio, beni immobili.
La prova dell’intestazione fiduciaria di partecipazioni può essere offerta anche per testimoni o per presunzioni, ossia mediante l’introduzione in giudizio di fatti gravi, precisi e concordanti che inducano a desumere che il trasferimento delle partecipazioni fosse funzionale al perseguimento degli interessi del fiduciante e che i diritti connessi alla titolarità delle partecipazioni siano stati esercitati solo formalmente dai fiducianti, i quali abbiano agito su direttiva o per conto del fiduciante. La prova testimoniale è ammessa persino allorquando il negozio fiduciario abbia ad oggetto diretto beni immobili, avendo chiarito che anche in relazione al patto fiduciario con oggetto immobiliare non è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario.
La prova testimoniale deve avere ad oggetto fatti concreti specifici, determinati nel loro contesto spazio temporale, utili a contestualizzare le modalità di conclusione del negozio fiduciario, il contesto nel quale è avvenuto, le parti presenti, il contenuto specifico delle clausole convenute tra le parti. La richiesta di provare per testimoni un fatto esige, cioè, non solo che questo sia dedotto in un capitolo specifico e determinato, ma anche che sia collocato univocamente nel tempo e nello spazio, al duplice scopo di consentire al giudice la valutazione della concludenza della prova e alla controparte la preparazione di un’adeguata difesa, non essendo possibile demandare al teste di provare l’esistenza di un negozio fiduciario mediante una generica dichiarazione, che lo inviti semplicemente a confermare l’esistenza di un patto fiduciario in quanto tale, senza offrire alcun elemento utile a ricostruire la vicenda storica che avrebbe dato origine al patto stesso.