Comunicazioni ingannevoli, violazione della disciplina pubblicistica sugli integratori alimentari e concorrenza sleale
La condotta contraria a disposizioni pubblicistiche non implica in sé automaticamente – quale comportamento necessariamente plurioffensivo – anche una condotta anticoncorrenziale, così come quest’ultima non presuppone necessariamente la lesione di disposizioni pubblicistiche, in quanto gli interessi protetti dalle disposizioni pubblicistiche e da quelle della concorrenza sleale spesso sono distinti, per cui i comportamenti lesivi delle prime non lo sono automaticamente anche delle seconde.
Trattandosi di illecito di pericolo, ciò che rileva perché una comunicazione ingannevole integri anche concorrenza sleale è solo l’idoneità del messaggio a trarre in inganno il consumatore, il quale può essere “dirottato” nella sua scelta di acquisto ed indotto ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso, con conseguente alterazione anche della corretta dinamica concorrenziale a danno dell’imprenditore leale che, nella prospettiva del consumatore, offre sul mercato un bene equipollente; le disposizioni a tutela del consumatore svolgono infatti, sotto questo profilo, anche il ruolo di proteggere la libera competizione degli imprenditori, colpendo condotte che dissuadono i consumatori dall’acquistare beni dei concorrenti leali.
Per la quantificazione del danno da illecito concorrenziale ex art. 2600 c.c., gli utili conseguiti dal concorrente vanno considerati (in applicazione solo analogica all’art. 125, comma 3, c.p.i., dettato esclusivamente per le privative industriali e di stretta interpretazione) solo quali parametro massimo per la quantificazione del pregiudizio patito dall’attore, da coniugare con un giudizio stringente sul nesso causale.