Concorrenza sleale dell’ex dipendente e risarcimento del danno
Il rapporto processuale nei confronti di una società di capitali estinta al momento in cui si è perfezionata la notificazione si radica correttamente nei confronti dei soci superstiti che siano parimenti evocati in giudizio e chiamati a rispondere nei limiti di quanto riscosso in sede di riparto di liquidazione ex art. 2495.2 c.c.
Il socio di una società di capitali è legittimato passivo a rispondere di un’azione di concorrenza sleale in qualità di concorrente ex art. 2055 c.c. alla commissione di condotte rilevanti ex art. 2598 c.c. commesse dalla società in qualità di imprenditore.
La società che adotta come denominazione sociale e segno distintivo il patronimico di un socio corrispondente al nome di un’impresa concorrente, fa realizzare e utilizza brochure in cui si presenta al pubblico come naturale prosecuzione dell’impresa concorrente e si appropria della storia imprenditoriale del concorrente nelle comunicazioni con soggetti terzi e potenziali clienti, con effetti concreti di confusione sul mercato, lede i diritti sui segni distintivi del concorrente ex art. 2564 c.c. e 22 c.p.i. e commette atti di concorrenza sleale confusoria e per appropriazione di pregi ex art. 2598 c.c.
La realizzazione di listini tramite sistematico ribasso dei prezzi del concorrente, con conseguente risparmio degli investimenti necessari per la creazione di una propria linea e degli oneri connessi alla pricing strategy, costituisce utilizzo indebito di segreti commerciali ex art. 98 c.p.i. e condotta di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.
La corrispondenza e-mail di una parte (nella specie: l’ex dipendente) estratta da account di posta elettronica in uso all’altra (nella specie: la società ex datrice di lavoro) può essere prodotta e utilizzata in un giudizio civile dalla parte titolare dell’account, anche se acquisita con modalità illegittime.
I soci e amministratori di una società di capitali che hanno posto in essere personalmente le condotte ritenute illecite concorrono ex art. 2055 c.c. negli atti di concorrenza sleale realizzati nell’esclusivo interesse della società e sono obbligati in solido con quest’ultima al risarcimento del danno.
Il danno risarcibile come conseguenza della contraffazione di segni distintivi, violazione di segreti commerciali e concorrenza sleale confusoria, per appropriazione di pregi e sviamento di clientela non è pari all’utile della società convenuta, se quest’ultima ha compravenduto beni che non erano nella disponibilità dell’impresa concorrente, e può essere determinato in via equitativa (nella specie: il 50% dell’utile complessivo della società convenuta).
La spendita illegittima presso clienti e fornitori di un segno distintivo altrui con effetti confusori, anche attraverso appropriazione dei pregi, comporta il potenziale svilimento del blasone e della tradizione storica del suo titolare e quindi un danno non patrimoniale che può essere determinato in via equitativa sulla base del periodo di operatività e dell’utile percepito dal concorrente sleale.
Il concorso da parte di un dipendente in atti di concorrenza sleale nell’interesse di un’impresa terza non comporta ex se un inadempimento delle mansioni conferite dal datore di lavoro, che non può quindi richiedere la restituzione di parte della retribuzione corrisposta senza allegare le specifiche mansioni che il dipendente avrebbe lasciato inadempiute.
La mera divulgazione di notizie specificamente attinenti la perpetrazione di atti di concorrenza sleale (nella specie: confusoria e per appropriazione di pregi) nel corso di un giudizio che li ha accertati non costituisce illecito, ma è espressione del diritto dell’impresa danneggiata a evitare l’aggravamento del danno subito, portando a conoscenza i terzi dell’inesistenza di collegamenti commerciali tra la propria attività e quella del concorrente sleale.
In caso di oggettiva sproporzione tra la domanda di risarcimento del danno (nella specie: superiore a 6 milioni di euro) e la somma effettivamente liquidata (nella specie: circa 25.000 euro), ragioni di equità sostanziale impongono di parametrare il valore della controversia e la conseguente condanna alle spese al decisum effettivo e non al valore della domanda.
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Carmine Di Benedetto
Dottorando di ricerca in Diritto privato, diritto romano e cultura giuridica europea presso l'Università di Pavia. Laurea in Giurisprudenza (110/110 con lode) presso Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano, 2013....(continua)