Conflitto di interessi ex art. 2475-ter c.c.; responsabilità degli amministratori ed onere della prova; risoluzione ex art. 1453 c.c. e risarcibilità del danno ex art. 1223 c.c.
Ai fini del conflitto di interessi, ex art. 2475-ter c.c., quale causa di annullamento del contratto concluso dal rappresentante legale della società, è necessario che costui persegua interessi propri suoi personali (od anche di terzi) inconciliabili con quelli del rappresentato, così che, all’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante per sé medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato. L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società ed il suo amministratore, ai fini dell’annullabilità del contratto, deve essere accertata in concreto sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società ed il suo amministratore, non essendo a tal fine sufficiente neanche la mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle contrapposte parti contrattuali. Quindi, il conflitto sussiste per il fatto che il rappresentante sia portatore di interessi incompatibili con quelli del rappresentato ed il perseguimento di detto interesse particolare gli impedisce di tutelare adeguatamente l’interesse del rappresentato. Inoltre, è sufficiente la mera potenzialità del danno, sebbene è innegabile che l’accertamento in concreto di un pregiudizio nella sfera giuridica ed economica del rappresentato costituisca un elemento di riscontro circa l’effettiva sussistenza di un conflitto di interessi (Cass. 9188/2013; Cass. 15981/2007; Cass. 16708/ 2002). Ai fini dell’annullamento è peraltro necessario che detto conflitto sia conosciuto o conoscibile da parte del terzo, contraente con la società.
La responsabilità dell’organo amministrativo non può essere desunta da una scelta di gestione – queste, in quanto conseguenti a scelte di natura imprenditoriale e quindi ontologicamente connotate da rischio, non sono sindacabili in termini di fonte di responsabilità – bensì dal modo in cui la stessa è stata compiuta: in altre parole in questi casi – si esclude evidentemente l’ipotesi del dolo – è solo l’omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche ovvero dell’assunzione delle necessarie informazioni preliminari al compimento dell’atto gestorio, normalmente richieste per una scelta del tipo di quella adottata, che può configurare violazione dell’obbligazione di fonte legale in discorso, così come è fonte di responsabilità la colpevole mancata adozione di quei provvedimenti, che per legge o statuto avrebbero dovuto essere prontamente assunti a tutela della società o dei terzi (cfr. Cass. 3652/1997; Cass. 5718/2004; Cass. 3409/2013; Cass. 1783/2015).
Il soggetto che agisce, ai fini del risarcimento del danno in caso di responsabilità dell’organo amministrativo, deve allegare, in relazione a specifici fatti concreti di cui deve essere data prova, l’inadempimento – da parte dell’amministratore – degli obblighi a lui imposti dalla legge e/o dallo statuto e/o dal generale obbligo di vigilanza e di intervento preventivo o successivo, al fine di evitare il determinarsi di eventi dannosi, ed inoltre deve allegare e provare, sia pure ricorrendo a presunzioni, l’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale di cui chiede il ristoro, e la riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta di mala gestio; in difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto (cfr. Cass. 5960/2005). La violazione dei suddetti obblighi gravanti sugli amministratori – e quindi l’accertamento dell’inadempimento da parte di costoro dei doveri imposti dalla legge e/o dallo statuto – costituisce pertanto presupposto necessario, ma non sufficiente per affermare la responsabilità risarcitoria in capo agli amministratori inadempienti; infatti anche in questo caso è pur sempre necessaria la prova del danno, ossia del deterioramento effettivo e materiale della situazione patrimoniale della società, e la diretta riconducibilità causale di detto danno alla condotta omissiva o commissiva degli amministratori stessi. Il riferimento al nesso causale, oltre che a servire come parametro per l’accertamento della responsabilità risarcitoria dell’amministratore inadempiente, è quindi rilevante anche da un punto di vista oggettivo, in quanto consente – come regola generale – di limitare l’entità del risarcimento all’effettiva e diretta efficienza causale dell’inadempimento e quindi a porre a carico dell’amministratore solo il danno direttamente riconnesso alla sua condotta omissiva o commissiva.
La responsabilità ex art. 2392 c.c. è responsabilità diretta e personale per i singoli amministratori – non è quindi dell’organo – la quale dà, quindi, luogo ad obbligazioni risarcitorie di natura solidale fra componenti del consiglio di amministrazione.
Posto il disposto dell’art. 2055 c.c., in base al quale se il fatto danno è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno, nell’ipotesi di concorso di più persone nella causazione del fatto dannoso è quindi pur sempre necessario, per la positiva affermazione della responsabilità solidale dei singoli pretesi responsabili, verificare che il fatto dannoso sia per l’appunto imputabile a ciascuno dei singoli concorrenti, ancorché le condotte lesive possano fra loro essere autonome e in ipotesi diversi possano essere i titoli di responsabilità di ciascuno di essi (cfr. Cass. 11018/2005); si deve invece procedere alla gradazione della responsabilità fra i vari autori dell’unico evento dannoso, in base all’eventuale differente apporto causale, solo nel caso di apposita domanda di ripartizione interna.
Ove su riscontri una lacuna in ordine all’allegazione e prova di precisi elementi oggettivi dai quali desumere l’esistenza stessa del danno risarcibile, essa non può essere colmata ricorrendo all’equità, in quanto l’equità non può mai equivalere ad arbitrio da parte del Giudice. L’equità, bensì, soccorre quando è difficile o impossibile l’esatta monetizzazione del danno, ma presuppone pur sempre la prova, in base a conferente allegazione, degli elementi costitutivi del danno stesso, oltre che dell’altrui responsabilità; quindi l’esistenza e la derivazione causale dei danni integrano il fatto costitutivo della pretesa al risarcimento e la loro sussistenza va provata da chi la allega (cfr. Cass. 13288/2007; Cass. 10607/2010; Cass. 27447/2011; Cass. 8213/2013).
La richiesta di restituzione di quanto pagato in esecuzione di un contratto presuppone la risoluzione del contratto stesso, in quanto solo in tal modo viene meno la causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali. Detta richiesta, infatti, fa supporre l’implicita proposizione di domanda di risoluzione. La volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo implicitamente essere contenuta in altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione (cfr. Cass. 21230/2009)
In merito alla domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c., la gravità dell’inadempimento di una delle parti contraenti (ex art. 1455 c.c.) non va commisurata all’entità del danno, che potrebbe anche mancare, ma alla rilevanza della violazione del contratto con riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto interesse dell’altra parte all’esatta e tempestiva prestazione (cfr. Cass. 15363/2010). Inoltre, il debito restitutorio ex art. 1458 c.c., trova la sua giustificazione non nella colpa, ma nella risoluzione, che sanziona il venir meno del contratto ed impone il ristabilimento della situazione ad esso anteriore e, quindi (fatte salve quelle relative ai contratti di durata), priva di titolo le prestazioni anteriormente eseguite da entrambe le parti; pertanto gli effetti liberatori (ex nunc) e quelli restitutori (ex tunc) si verificano anche nei confronti ed a favore della parte inadempiente per il semplice fatto della risoluzione, che lascia privo di causa ogni adempimento futuro in relazione al contratto e rende indebite, ob causam finitam, le prestazioni già effettuate (cfr. Cass. 4442/2014).
Ai fini della risarcibilità del danno ex art. 1223 c.c., in relazione all’art. 1218 c.c. o agli artt. 2043 e 2056 c.c., il creditore o il preteso danneggiato deve infatti allegare, in relazione a specifici fatti concreti di cui deve essere fornita la prova, non solo l’altrui inadempimento ovvero allegare e provare l’altrui fatto illecito, ma in entrambi i casi deve pur sempre allegare e provare l’esistenza di una lesione, cioè della riduzione del bene della vita (patrimonio, salute, immagine, ecc.) di cui chiede il ristoro, e la riconducibilità della lesione al fatto del debitore o del danneggiante: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente o illecita; in difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto (cfr. Cass. 5960/2005). In adesione al principio ermeneutico basato sul concetto di danno-conseguenza in contrapposizione a quello di danno-evento ed escludendo l’ipotizzabilità di un risarcimento automatico e di un danno in re ipsa, va ribadito che la domanda risarcitoria deve essere provata, sia pure ricorrendo a presunzioni, sulla base di conferente allegazione: non si può invero provare ciò che non è stato oggetto di rituale ed adeguata allegazione (cfr. Cass. SU 26972/2008).
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Carolina Gentile
Dottoranda presso la Scuola di Dottorato "Impresa, lavoro e Istituzioni" dell'Università Cattolica di Milano (curriculum di Diritto Commerciale).(continua)