Contratto di associazione in partecipazione, concorrenza sleale e patto di non concorrenza
Con il contratto di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 cod. civ., l’associante attribuisce all’associato, come corrispettivo di un determinato apporto unitario, una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari, trattandosi, a differenza del contratto di società, di un negozio bilaterale, che crea un singolo scambio fra l’apporto e detta partecipazione. Il divieto di svolgere attività in concorrenza non costituisce un dovere giuridico autonomo, che prescinde dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali, rispondendo ad un generico obbligo di buona fede. Infatti, la legge regola in modo espresso e specifico il patto di non concorrenza, imponendo che lo stesso debba essere provato per iscritto, debba essere circoscritto ad una determinata zona e ad una determinata attività, e non possa estendersi oltre i cinque anni (art. 2596 c.c.). Si può così escludere che un simile patto possa essere un elemento implicito ad un negozio (nella specie un accordo di collaborazione o di associazione in partecipazione) essendo al contrario un elemento del contratto del tutto eventuale e rimesso alla volontà e all’autonomia contrattuale dei contraenti, ma sottoposto comunque a precise evidenze e precisi limiti. È nullo, in quanto contrastante con l’ordine pubblico costituzionale (artt. 4 e 35 Cost.), il patto di non concorrenza diretto, non già a limitare l’iniziativa economica privata altrui, ma a precludere in assoluto a una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento. Non sussiste un danno all’immagine quando non vi siano elementi di prova che inducano a ritenere che da un episodio sia risultato un discredito a carico di un’impresa, così da danneggiare sul mercato l’immagine della società e da pregiudicare il suo buon nome nei confronti della clientela del settore. Si ritiene che non compia concorrenza sleale l’imprenditore che acquisisca collaborazioni da parte di dipendenti già della concorrente, eventualmente offrendo remunerazioni o condizioni di lavoro migliori, posto che in tale attività non fa che ricorrere ai mezzi che normalmente muovono il libero mercato. La necessità di considerare anche il diritto dell’imprenditore che subisce lo storno a svolgere la propria attività in un corretto regime di relazioni industriali ha condotto a ritenere che lo storno di dipendenti debba essere caratterizzato anche da molteplici elementi. Si ritiene che lo storno sia illecito solo quando riguardi dipendenti qualificati, indispensabili, che assolvano a ruoli chiave nella gestione dell’impresa concorrente. Parimenti si considera illecito lo storno finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente o di informazioni utili concernenti la sua organizzazione, laddove tuttavia vi sia la prova dell’esistenza e del valore di simili aspetti di riservatezza ed organizzativi e laddove vi sia la prova che i dipendenti stornati ne fossero a conoscenza e siano stati stornati proprio per carpire gli elementi dell’altrui patrimonio di conoscenze. Ai fini della concorrenza sleale per storno di dipendenti si ritiene che debba essere dimostrato anche l’animus nocendi, cosicché gli effetti pregiudizievoli per il soggetto passivo della concorrenza sleale assumono specifico rilievo quando non sono soltanto le conseguenze dell’atto di concorrenza, ma sono altresì intenzionali e posti in essere con lo specifico intento di danneggiare l’altrui azienda.
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Maria Luigia Franceschelli
AssociateDottorato di Ricerca in Proprietà Industriale, Università degli Studi di Milano Avvocato presso Hogan Lovells Studio Legale, IP team(continua)