Dichiarazione del condebitore di adesione alla transazione e dies a quo ai fini della prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dai creditori sociali
La dichiarazione del condebitore di voler profittare della transazione stipulata con il creditore dal condebitore in solido ai sensi dell’art. 1304 co. 1° c.c. integra esercizio di un diritto potestativo sostanziale esercitabile anche nel corso del processo, senza requisiti di forma né limiti di decadenza; il che implica che, una volta esercitato tale diritto ed atteso il corrispondente stato di soggezione in cui viene trovarsi al riguardo il creditore (come tale, impossibilitato ad opporvisi), il rapporto obbligatorio plurisoggettivo preesistente, qualunque ne sia la fonte, muta quanto al suo stesso contenuto: venendo definitivamente conformato, anche quanto al condebitore originariamente estraneo al successivo accordo, secondo la pattuizione transattiva intercorsa fra gli stipulanti.
L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c. è soggetta a prescrizione quinquennale, la quale tuttavia decorre per principio generale (art. 2935 c.c.) dal momento dell’oggettiva percepibilità da parte dei creditori dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti e quindi della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.); sicché, anche in ragione della onerosità della prova gravante sull’attore, si ritiene sussistere una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore o sul sindaco convenuto – attraverso la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza – la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.
La violazione del dovere degli amministratori, una volta verificatasi una causa di scioglimento, di proseguire nell’amministrazione (sino alla “consegna” dell’azienda sociale al o ai liquidatori) “ai soli fini della conservazione dell’integrità e dal valore del patrimonio sociale”, può dirsi aver cagionato un danno alla società se e quando la gestione caratteristica così illecitamente continuata abbia generato non tanto debiti, quanto perdite tali da intaccare il patrimonio sociale: intese queste quale saldo negativo dei costi e ricavi di una singola operazione connotata da rischio imprenditoriale e non dell’esercizio nel suo complesso, il cui risultato può esser derivato in tutto o in parte da altre cause. Solo allorché una ricostruzione analitica si dimostri impossibile per l’incompletezza dei dati contabili ovvero la notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, il giudice potrà avvalersi in via equitativa del criterio presuntivo -e di suo, largamente approssimativo e necessitoso di adeguati correttivi- della differenza dei netti patrimoniali.
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Carolina Gentile
Dottoranda presso la Scuola di Dottorato "Impresa, lavoro e Istituzioni" dell'Università Cattolica di Milano (curriculum di Diritto Commerciale).(continua)