Disciplina dei segni distintivi e concorrenza sleale in una controversia tra due ONLUS
La tutela del diritto al nome dettata dal codice civile con riguardo alle persone fisiche è estesa alle persone giuridiche. Infatti, così come il nome e il cognome rientrano nell’ambito dei diritti della personalità in quanto destinati a una funzione identificativa dell’individuo, allo stesso modo la denominazione identifica presso il pubblico una persona giuridica.
Ai fini dell’applicabilità delle discipline relative alla ditta e al marchio non si richiede che il soggetto che opera nel mercato sia un imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c., essendo sufficiente che si sia in presenza di un soggetto che eserciti sul mercato un’attività di impresa ossia un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi. Ciò che assume rilievo è che l’utilizzo del segno avvenga nel commercio ovvero nell’attività economica ed abbia l’effetto di occupare uno spazio di mercato indipendentemente dalla sua finalità.
Ricorrono gli estremi della tutelabilità della ditta e del marchio in caso di conflitto tra denominazioni di due ONLUS, in considerazione del fatto che gli enti in questione possono porsi in concorrenza tra loro non solo nell’ottenere donazioni dal pubblico, ma anche nell’offerta al pubblico di prodotti e/o servizi funzionali al perseguimento degli scopi statutari.
Un segno può avere idonea capacità distintiva in forza della combinazione di parole, segni e figure che singolarmente considerate si presentano generiche o recano indicazioni riferibili al prodotto o al servizio contrassegnato ma che, nel loro insieme o per l’aspetto grafico loro conferito, siano in grado di dar vita ad un’espressione o combinazione originale.
La capacità distintiva della ditta va valutata con minor rigore di quanto attiene in materia di marchio, attesa la diversa cerchia di soggetti cui il segno è principalmente indirizzato, rappresentata non già dalla generalità del pubblico dei consumatori, ma dagli altri imprenditori operanti nel ramo di attività del titolare della ditta o, comunque, aventi con questi rapporti di affari.
Utilizzare un altrui segno distintivo accompagnandolo all’espressione “vero” non fa venir meno il rischio di confusione con il segno originale, riprodotto in forma immutata. Semmai al contrario, la parola “vero” potrebbe addirittura accrescere tale pericolo, dato che tale termine indica nella comune percezione che è proprio “quel” segno e non un segno “altro” o “diverso”.
Quando l’uso parodistico è anche solo latamente concorrenziale, venendo in rilievo per prodotti identici o affini, trovano comunque applicazione le disposizioni di cui alla lettera b) dell’art. 20 n. 1 c.p.i. e, dunque, deve considerarsi vietato l’utilizzo di un segno distintivo simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, ogniqualvolta, a causa della somiglianza tra tali segni e prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può sussistere anche in un rischio di associazione.
L’aggettivo “vero” in contrapposizione ad altro ente, evocato dall’identica denominazione, e costituito per lo svolgimento della medesima attività statutaria, assume una connotazione evidentemente negativa dell’ente contrapposto che diviene dunque “non genuino”, “falso” e “solo apparente”, costituendo quindi una classica forma di comparazione dispregiativa illecita.
La funzione riparatrice del provvedimento di pubblicazione deve essere perseguita attraverso una fedele riproduzione del provvedimento senza aggiunte ulteriori che possano in qualche modo distrarre l’attenzione del lettore su argomenti e circostanze diverse dalle statuizioni imposte dall’autorità giudiziaria.
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Carmine Di Benedetto
Dottorando di ricerca in Diritto privato, diritto romano e cultura giuridica europea presso l'Università di Pavia. Laurea in Giurisprudenza (110/110 con lode) presso Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano, 2013....(continua)