Esercizio dell’azione sociale di responsabilità per plurime condotte illecite, in particolare per la sistematica gestione dell’impresa sociale in conflitto di interessi
Nell’ambito dell’azione sociale di responsabilità – esercitata nei confronti di alcuni amministratori per l’asserita gestione degli affari sociali sistematicamente rivolta a favorire controparti negoziali riferibili ai medesimi convenuti – l’accertamento di un preciso interesse
proprio dei convenuti nella individuazione dei partners commerciali e quindi nella definizione dei relativi rapporti negoziali fa emergere in maniera inequivocabile la grave violazione da parte degli stessi a fondamentali doveri (quali espressamente previsti ex art. 2391, comma 1°, c.c.) di precisa informazione al resto del consiglio di amministrazione di una tale tela di rapporti e, anzi, di necessaria astensione dalla conclusione a propria firma dei contratti. Proprio l’inadempimento a tali doveri e dunque, più in generale, la mancanza in origine di una compiuta illustrazione dell’interesse proprio della società nella definizione dei rapporti negoziali con le parti correlate (secondo prescrizioni imperative che trovano puntuale riscontro nella analitica struttura della nota integrativa del bilancio), rendono ancora più pregnanti gli oneri di deduzione e di prova che a questo punto gravano indiscutibilmente sui convenuti (sia pure naturalmente sotto un profilo di diligente cura dell’interesse della società rappresentata secondo un’ottica ex ante) a fronte delle puntuali allegazioni dell’attore. Al riguardo, pare il caso di rimarcare che si discute di contestazioni riferibili, in primo luogo, a ipotesi di responsabilità “contrattuale” in relazione a pregiudizi patrimoniali (documentati dall’attore) conseguenti a un lamentato non corretto adempimento dei doveri inerenti le cariche ricoperte, dunque con l’emergere di pressanti esigenze di controdeduzione e piena prova che gravano sui convenuti secondo gli ordinari principi di distribuzione dell’onere della prova in materia (nel caso di specie, le condotte imputate agli amministratori convenuti consistevano, tra l’altro: nel versamento, a favore di soggetti terzi riferibili agli stessi amministratori, di consistenti anticipi finanziari su forniture ancora da realizzare, a condizioni contrattuali di sfavore per la società attorea; nella stipulazione, con i predetti soggetti terzi, di contratti di acquisto e di vendita di merci, ovvero di locazione di immobili, a condizioni economiche “fuori mercato”, ovvero per quantitativi “smisurati ed illogici”, svincolati dal reale fabbisogno della società attorea; nella prestazione di assistenza finanziaria diretta a favore dei summenzionati terzi, tramite pagamento dei relativi debiti “senza prospettive di rimborso”).
Con riferimento alla quantificazione del danno, parte convenuta invoca la necessità di scomputare, ai fini della quantificazione del danno effettivamente risarcibile, un corrispondente beneficio fiscale (in tesi) conseguente alle perdite maturate, secondo esigenze di puntuale ricostruzione, peraltro, demandata a controparte ovvero da verificare d’ufficio. A parere del Collegio tale prospettazione non può essere accolta in relazione a nessuna delle vicende per cui è proposta, giacchè si tratta di situazioni in cui il pregiudizio patrimoniale lamentato avrebbe potuto essere eliso solo in virtù dell’effettivo conseguimento del beneficio fiscale in parola, quale possibile in fatto solo in ipotesi di cospicui utili maturati dalla società e così soggetti a tassazione nel medesimo esercizio o in esercizi successivi, dunque al di fuori di ogni automatismo e piuttosto in ragione di specifici accadimenti compiutamente verificatisi. In tal senso si discute, dunque, di circostanze di fatto la cui introduzione in giudizio risulta governata dai generali principi di distribuzione degli oneri di deduzione e di prova, come tali interamente gravanti sulla parte interessata alla relativa deduzione. Nella specie, tali oneri sono risultati indiscutibilmente non assolti, essendosi i convenuti limitati a invocare una astratta possibilità di recupero fiscale pretendendo, erroneamente, di rovesciare sugli attori la prova del mancato conseguimento del relativo beneficio.
Con riferimento all’eccezione di nullità della comparsa di riassunzione per omessa indicazione delle domande rivolte nei confronti dei terzi chiamati, si rileva che l’art 125 disp. att. c.p.c. propone espressi rinvii alle disposizioni di cui agli artt. 163-bis e 166 c.p.c. ma non anche a quelle di cui all’art 164 c.p.c., né per altro verso prevede alcuna specifica sanzione di nullità a fronte della mancanza di qualcuno degli elementi indicati dall’art 125 c.p.c., per cui l’eventuale giudizio di nullità potrebbe conseguire solo ad ipotesi di inidoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo suo proprio. In tal senso, e più in generale, si ritiene qui di dover senz’altro condividere l’orientamento interpretativo assolutamente consolidato secondo cui: “L’atto di riassunzione del processo non dà inizio ad un nuovo procedimento ma ha solo la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente, con la conseguenza che, al fine di una corretta valutazione della sua validità, il giudice di merito deve apprezzare l’intero contenuto dell’atto come notificato, onde verificarne la concreta idoneità a consentire la ripresa del processo ed in particolare se contenga tutti gli elementi necessari alla identificazione della causa e delle ragioni della precedente sospensione”.
Con riferimento all’eccezione di incapacità a testimoniare del vicepresidente della società, a termini di statuto investito (insieme ad altri membri del Consiglio) della rappresentanza legale dell’ente, si deve osservare che nel caso di specie l’atto di citazione fa generico riferimento a società costituita “in persona del legale rappresentante pro tempore”, ma la relativa procura risulta sottoscritta dal Presidente del consiglio di amministrazione. Tale rilievo deve reputarsi pienamente dirimente per il rigetto della eccezione in esame, alla stregua del consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui: “In tema di prova per testimoni, l’amministratore di una società è incapace a testimoniare soltanto nel processo in cui rappresenti la società medesima, non potendo assumere contemporaneamente la posizione di parte e di teste, ovvero se nella causa abbia un interesse attuale e concreto, che potrebbe legittimarne la partecipazione al giudizio, e non già meramente ipotetico, quale quello relativo ad una sua eventuale responsabilità verso la società” (Cass. n. 14987/12).
Con riferimento all’eccezione di irrilevanza degli elementi probatori raccolti in altri giudizi, può reputarsi ben noto, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, che: “Il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale” (Cass. n. 2168/13); “Nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali” (Cass. n. 1593/17). Nel merito, pare appena il caso di sottolineare che nel caso di specie si discute di prove già oggetto di ampio contraddittorio in sede di dibattimento penale (v. Cass. n. 21299/14), fermo restando che la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. n. 2168/13).
In relazione al tema della liquidazione delle spese di giudizio inerenti la chiamata in causa di un terzo, le spese devono rimanere interamente in capo al chiamante in caso di assoluta e manifesta mancanza, già in astratto, di ragioni giustificative dell’iniziativa dallo stesso assunta (non apparendo la chiamata “giustificata dal contenuto della domanda proposta dall’attore verso il convenuto”; v. Cass. n. 25781/13).