Il giudizio di confondibilità dei segni distintivi quale presupposto per la sussistenza della fattispecie di cui all’art. 2598 c.c. in materia di atti di concorrenza sleale
In tema di segni distintivi, il giudizio di confondibilità deve essere condotto sulla base dell’oggettiva composizione dei segni utilizzati, in particolare con riferimento al risultato percettivo d’insieme che essi, nel complesso dei simboli grafici e fonetici che li formano e secondo un giudizio di sintesi, possono produrre. Nondimeno, il criterio di valutazione dei medesimi deve essere integrato dal principio secondo il quale nel confronto tra i vari elementi che compaiono nei segni si deve privilegiare il “cuore” del segno distintivo ovvero la parte che per le sue caratteristiche assume maggior forza evocativa e suggestiva, pertanto, più idonea ad imprimersi nella mente e nella sensibilità del pubblico. Il nome ed il patronimico devono essere utilizzati esclusivamente in funzione identificativa della titolarità con la conseguenza che qualora il citato patronimico costituisca il cuore della denominazione di altra ditta già operante nel medesimo settore commerciale, l’inclusione del nome e del patronimico della detta, non possono svolgere una funzione caratterizzante, ma devono essere inseriti nel contesto di ulteriori indicazioni idonee a prevenire il rischio di confusione (nel caso di specie il convenuto utilizzava il proprio cognome nella denominazione della società a lui riferibile, identificandone la titolarità, unitamente ad altre lettere puntate, ritenute dal Tribunale “idonee a differenziare la denominazione e ad evitare il rischio di confusione” – escludendo quindi la concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.).
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Edoardo Beghelli
Cultore della materia in Diritto Commerciale presso l'Università di Bologna; Avvocato in Bologna presso lo Studio Legale Associato Demuro Russo.(continua)