Illegittima prosecuzione dell’attività caratteristica e assorbimento degli addebiti riguardanti operazioni straordinarie manifestamente arbitrarie poste in essere dopo la perdita del capitale. Criteri di liquidazione del danno e di riparto delle quote interne di responsabilità
L’azione di responsabilità in astratto proponibile dalla procedura fallimentare nei confronti degli amministratori e dei sindaci può articolarsi in una duplice tipologia di causae petendi: da una parte, la formulazione di addebiti specifici, ad esempio l’avventatezza e l’ingiustificatezza di puntuali operazioni gestorie al fine di ottenere il ristoro delle perdite puntualmente derivatene; dall’altra parte, la contestazione, di carattere più generale, di prosecuzione dell’attività sociale caratteristica a capitale perduto e quindi in stato di scioglimento de iure ex art. 2484 n. 4 c.c., in violazione degli artt. 2447, 2485 e 2486 (e 2407 co. 2°) c.c., con pretesa al ristoro del danno consistito nel correlativo aggravio del dissesto patrimoniale sino alla messa in liquidazione. Sennonché, qualora le specifiche operazioni dannose risultino perfezionate nel corso della fase di illegittima prosecuzione e, inoltre, l’addebito generale di prosecuzione illecita dell’attività sociale in stato di scioglimento risulti fondato, anche la porzione di depauperamento del patrimonio stesso specificamente imputabile alle operazioni contestate ne risulta assorbita come il meno nel più, senza che possa ritenersi sussistente un interesse ulteriore dell’attore a sentir comunque accertare le eventuali perdite direttamente conseguenti in via esclusiva agli addebiti “specifici”(nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che l’addebito generale di illecita prosecuzione – assieme all’addebito logicamente presupposto di infedele rappresentazione in bilancio della reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società – fosse fondato, poiché è emerso in causa che la perdita del capitale sociale si fosse verificata precedentemente rispetto al momento in cui gli amministratori l’avevano rilevata. Infatti, in seguito alla riclassificazione di alcune poste attive effettuata dal consulente tecnico d’ufficio, emergeva la sovrastima di alcune poste contenute nel bilancio dell’anno antecedente alla formale messa in liquidazione, in particolare quella relativa alla partecipazione acquistata per effetto di un’operazione straordinaria di acquisizione di una società controllata e del relativo ramo di azienda. Perciò la valutazione dell’effettiva portata lesiva delle operazioni dannose specificamente contestate, tra le quali quest’ultima, è stata assorbita dall’accertata lesività dell’illegittima prosecuzione. Pertanto, gli amministratori, avvertiti della perdita del capitale netto della società e dei reali termini quantitativi della stessa, avrebbero dovuto immediatamente proporre ai soci la messa liquidazione della società senza attendere il marzo dell’anno successivo, astenendosi sin da allora da ogni operazione non strettamente e doverosamente conservativa del patrimonio sociale. I sindaci -a fronte della verifica, o quanto meno del fondato dubbio, circa la (carenza di) veridicità e correttezza di valutazione e appostazione in contabilità delle voci indicate, avrebbero dovuto esprimere un giudizio negativo sul progetto di bilancio dell’esercizio, chiedendo che l’assemblea chiamata ad approvarlo avesse all’ordine del giorno i provvedimenti di cui al combinato disposto degli art. 2446 e 2447 c.c.; e richiedendo, in difetto, l’immediato intervento del tribunale ai sensi della seconda parte del co. 2° dell’art. 2446 c.c.. Inoltre, quanto all’elemento soggettivo, dall’evidenza dei dati contabili e dalla macroscopicità degli errori di valutazione, il Tribunale ha dedotto la convinzione della inescusabile negligenza dell’organo amministrativo nel momento in cui li commise, e dell’organo di controllo allorché -nonostante i diversi warning da questo formulati- ritenne ugualmente di esprimere parere positivo sul bilancio dell’esercizio in cui il capitale sociale risultava essere, in realtà, già eroso dalle perdite.).
Con particolare riferimento alla posizione in consiglio di amministrazione del consigliere privo di deleghe, la redazione del bilancio di esercizio e più in generale la tenuta della contabilità costituisce compito fondamentale di tutti i componenti del c.d.a.. Si tratta di compito non delegabile (art. 2381 co. 4° c.c.) che rende quindi tutti i consiglieri, attributari o meno di deleghe di gestione, inscindibilmente responsabili verso la società, i creditori ed i soci quanto al rispetto delle regole di veritiera, corretta e chiara redazione di tale essenziale documento contabile annuale e del libro giornale. Infatti, l’avere il soggetto consentito che di fatto se ne occupassero prevalentemente o esclusivamente gli altri membri del consiglio, costituisce semmai un ulteriore –e non lieve- titolo di colpa (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto conseguentemente che le seguenti circostanze allegate dall’amministratore non possono produrre alcun effetto liberatorio con riferimento alla responsabilità per aver concorso a predisporre e proporre all’approvazione assembleare situazioni patrimoniali contabilmente false: la natura tecnica delle mansioni concretamente assunte nella società fallita, la sua presenza o meno alle assemblee e alle riunioni consiliari, la correttezza o meno delle giustificazioni fornitegli dagli altri consiglieri in merito alle operazioni avvenute in costanza di carica, e lo stesso contrasto che ne derivò in seno al consiglio).
A seguito di specifica domanda di accertamento formulata in via subordinata dai convenuti – solidalmente responsabili ai sensi degli artt. 2392 co. 1° e 2407 co. 2° c.c. nei confronti della società e dei creditori – si deve procedere a ripartire internamente il peso del debito nella misura corrispondente alla gravità dei rispettivi apporti alla causazione del danno. In particolare si deve considerare la natura di secondo grado della responsabilità dell’organo di controllo e le rassicurazioni -sia pur non documentate e incomplete- fatte dagli amministratori nel periodo di emersione delle perdite idonee ad erodere il capitale sociale. Pertanto la graduazione va effettuata imputando al consiglio di amministrazione i due terzi della responsabilità risarcitoria accertata e, quindi, dell’efficienza causale del danno, e al collegio sindacale il rimanente terzo (in particolare, nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto che la quota di responsabilità dei sindaci doveva essere suddivisa in parti uguali fra i tre componenti del collegio – 2/18 ciascuno, per un totale di 6/18, diversamente dalla quota dei componenti del consiglio di amministrazione, pari a 12/18, dove la preponderante posizione dei soci amministratori imponeva di graduare la rispettiva responsabilità attribuendola per 5/18 in capo a ciascuno dei detti soggetti, e per i residui 2/18 in capo al consigliere non delegato).
In punto di quantificazione del danno specificamente patito per effetto delle operazioni straordinarie poste in essere dopo l’integrale dissoluzione del capitale sociale, non è corretta la pretesa del fallimento attore di agglomerare in unica somma e considerare quale danno emergente l’intero importo nominale degli investimenti effettuati dalla società per le suddette operazioni e del passivo derivatone. Detta pretesa è infatti erronea, perché in tanto una singola operazione gestoria compiuta dagli amministratori può esser considerata foriera di una danno risarcibile, in quanto essa abbia cagionato una diminuzione patrimoniale permanente, per la cui verifica non è possibile conteggiare soltanto i costi sostenuti o le obbligazioni assunte, ma occorre una valutazione complessiva dell’operazione stessa che ricomprenda tutti i costi e benefici economici, e quindi sintetizzi nella stima del danno anche i cespiti attivi e i ricavi conseguiti. Pur nel quadro di un evidente aggravamento dello sbilancio patrimoniale fra la data delle illecite operazioni e quella dell’ultimo documento contabile disponibile, qualora i dati contabili a disposizione impediscano una precisa ricognizione dell’aggravamento patrimoniale specificamente riconducibile, in termini di perdite operative nette derivatene, a queste, è evidente che deve quindi farsi ricorso al criterio equitativo consentito per la liquidazione del danno dall’art. 1226 c.c., legittimato dalla raggiunta prova della sussistenza dell’illecito e del danno patrimoniale conseguente. Danno che, in accordo con la costante giurisprudenza della sezione specializzata, andrà quindi equitativamente stimato: – nella differenza fra il netto patrimoniale contabile della società alla data di chiusura dell’esercizio in cui il capitale risulta perduto e quello disponibile alla data più prossima alla messa in liquidazione; – previa omogeneizzazione dei criteri contabili seguiti nella redazione dei due bilanci, espungendo dalle risultanze e dal confronto, da un lato, tutte quelle passività che si sarebbero comunque realizzate anche in ottica puramente conservativa del patrimonio e, dall’altro, quelle non hanno più giustificazione in chiave liquidatoria (si pensi, per l’esempio più evidente, agli ammortamenti periodici dei beni strumentali) – nonché infine, verificando se la liquidazione fallimentare, i cui minusvalori non sono (salvo prova contraria) addebitabili alla prosecuzione indebita dell’attività a società sciolta, non abbiamo per avventura invece condotto ad una plusvalenza rispetto ai valori di bilancio, e quindi ad un plusvalore detraibile in sede di aestimatio del pregiudizio.