Impresa familiare e società di fatto
A mente del terzo comma dell’art. 230 bis c.c., costituisce impresa familiare quella nella quale collaborano, anche attraverso il lavoro nella famiglia, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado, allorquando l’attività lavorativa e di collaborazione da essi svolta nell’impresa di pertinenza del congiunto non sia stata specificamente regolamentata dalle stesse parti secondo un diverso “schema tipico”.
La tutela approntata dal legislatore in favore dei membri della famiglia nucleare che prestino in modo continuativo la propria attività nell’impresa di pertinenza del congiunto si articola nel riconoscimento di specifici diritti patrimoniali ed amministrativi.
Con specifico riferimento al diritto di partecipazione agli utili, in assenza di un patto di distribuzione periodica, gli utili realizzati dall’impresa familiare non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, bensì al reimpiego nell’azienda o in acquisto di beni. Va, tuttavia, evidenziato che nella pratica è diffusa la stipulazione espressa, fra i membri della famiglia, di negozi volti a regolare i reciproci rapporti nell’ambito dell’impresa familiare, con espressa individuazione della misura della partecipazione di ciascuno agli utili; e ciò anche al fine di avvalersi della possibilità di frazionare il reddito d’impresa a fini tributari.
L’art. 230 bis c.c. non regolamenta in maniera espressa le modalità di esercizio dei “diritti amministrativi”; tuttavia, la rilevanza meramente interna delle decisioni dei familiari induce a propendere per il carattere assolutamente informale del procedimento di adozione delle stesse.
E’ ormai prevalente – sia in dottrina che in giurisprudenza – la tesi che l’art. 230 bis c.c., avendo la mera funzione di approntare una tutela minima e residuale del lavoro prestato dai familiari all’interno dell’impresa del congiunto, non dia vita ad un’impresa a base associativa; al contrario la disciplina dettata da tale norma, avendo carattere meramente obbligatorio, non altera la struttura individuale dell’impresa e non incide sulla titolarità dei beni aziendali, che restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore – datore di lavoro. In tale prospettiva, dunque, i diritti patrimoniali dei partecipanti all’impresa familiare vanno riguardati come semplici diritti di credito nei confronti del familiare dell’imprenditore; in particolare, anche con riferimento ai beni acquistati con gli utili d’impresa ed agli incrementi dell’azienda, ai singoli familiari che partecipano all’impresa nella titolarità del congiunto compete non un diritto reale bensì un mero diritto di credito nei confronti dell’imprenditore (che è e resta l’unico proprietario del complesso aziendale)
Dalla ricostruzione dell’istituto di cui all’art. 230 bis c.c. come impresa individuale discende, inoltre, che il relativo titolare agisce nei confronti dei terzi in proprio e non come rappresentante di una struttura associativa; pertanto solo al titolare dell’impresa familiare sono imputabili gli effetti degli atti posti in essere nell’esercizio dell’impresa e solo allo stesso fa capo la responsabilità, nei confronti dei terzi per le obbligazioni contratte.
Dall’indicata “natura individuale” dell’istituto contemplato dall’art. 230 bis c.c. discende, peraltro, che, alla morte del relativo titolare, l’impresa familiare cessa ed il complesso dei beni destinati all’esercizio dell’attività produttiva viene ad essere ricompreso nell’asse ereditario dell’imprenditore deceduto.
La società di fatto nasce quando tra due o più soggetti, in mancanza della formalizzazione dell’accordo, si costituisce il vincolo sociale, manifestato attraverso un comportamento concludente consistente nell’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili e con l’assunzione delle responsabilità inerenti.
L’esistenza di una qualunque società, e, quindi, anche di una società di fatto, richiede il concorso di un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi, con la formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di un’attività imprenditoriale. Tale comune intenzione costituisce il contratto sociale, senza del quale la società, qualsiasi società, non può esistere. Quel che caratterizza la società di fatto, e la differenzia dalla società irregolare, non è, dunque, la mancanza del contratto sociale, ma il modo in cui questo si manifesta e si esteriorizza; esso infatti può essere stipulato anche tacitamente, e risultare da manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo, quando esse, per la loro sintomaticità e concludenza, evidenzino l’esistenza della società .
Alla società di fatto sono applicabili le norme sulla società semplice. Perché si costituisca la società, non è necessario che le parti abbiano disciplinato ogni aspetto della vita sociale, in quanto, nel silenzio delle parti, la legge stessa integra la carente disciplina pattizia, indicando la società in nome collettivo il tipo sociale di riferimento, così che l’amministrazione appartiene disgiuntamente a ciascun socio.
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Chiara Petruzzi
Avvocato, già tirocinante ex art. 73 d.l. n. 69/2013 presso la Sezione Specializzata in materia d’Impresa del Tribunale di Milano. Cultore della materia presso la cattedra di Istituzioni di diritto privato...(continua)