2 Gennaio 2025

La prova del legame causale tra condotta e danno nell’illecito di concorrenza sleale

Per accertare l’integrazione dell’illecito di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 è necessaria una pluralità di elementi: anzitutto, la comunanza di clientela e un rapporto di concorrenzialità tra le parti interessate; in secondo luogo, il compimento di atti di concorrenza sleale da parte di uno dei soggetti coinvolti; in terzo luogo, la sussistenza di un danno risarcibile e il nesso eziologico tra tale danno e la condotta sleale di controparte; infine, il coefficiente psicologico della colpa in capo al danneggiante (presunto, ex art. 2600 c.c., salva prova contraria).

Il danno cagionato dagli atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l’utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione. Se è vero che l’accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa che onera l’autore degli stessi della dimostrazione dell’assenza dell’elemento soggettivo ai fini dell’esclusione della sua responsabilità, è altrettanto vero che il corrispondente danno cagionato dalla condotta anticoncorrenziale necessita di essere provato dal danneggiato.

La prova del danno subito e del legame causale tra condotta e danno, in ossequio alla ripartizione dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., grava dunque sul danneggiato. Il mancato assolvimento dell’onere probatorio in ordine alla sussistenza del nesso eziologico tra condotta e danno assorbe ogni indagine ulteriore e impone il rigetto della domanda risarcitoria di parte attrice.

9 Dicembre 2024

Concorrenza sleale per storno di dipendenti: animus nocendi ed elementi indicativi dell’antigiuridicità del comportamento del concorrente

Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva del concorrente (animus nocendi), disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito.

Attesa l’esigenza di salvaguardare sia il diritto al lavoro e alla sua adeguata remunerazione (artt. 4 e 36 Cost.), sia il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), la mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica. La condotta del concorrente non è, pertanto, di per sé censurabile quando questi agisca con il semplice obiettivo di recare a sé un vantaggio competitivo, ma solo quando agisca con il proposito supposto di procurare un danno eccedente il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita dei dipendenti o collaboratori in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa, ove si traduca in comportamenti obiettivamente contrassegnati dall’attitudine a disarticolare con modi scorretti l’altrui attività imprenditoriale. Dunque, mentre non può considerarsi intrinsecamente contraria alla correttezza professionale la condotta dell’imprenditore che si adoperi perché il lavoratore dell’impresa concorrente si trasferisca alle proprie dipendenze, deve reputarsi illecita, in quanto contraria alla nominata correttezza, l’attività che, attraverso lo storno, risulti deliberatamente preordinata a danneggiare l’altrui azienda.

All’accertamento dell’animus nocendi si procede (in mancanza di prova diretta di tale animus) con criterio solitamente oggettivo, ossia attraverso un’indagine di fatto della sussistenza di una serie di elementi indicativi dell’antigiuridicità del comportamento, che vengono tradizionalmente rinvenuti dalla giurisprudenza nelle modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato; nella quantità e nella qualità del personale stornato, nella sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente; nelle difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e nei metodi adottati per indurre i dipendenti o collaboratori a passare all’impresa concorrente.

Spetta, infatti, a chi denuncia un c.d. «storno di dipendenti» sotto il profilo dell’illecito ex art. 2598, n. 3, c.c. fornire la prova degli elementi destrutturanti della propria organizzazione imprenditoriale causati dall’acquisizione di suoi dipendenti da parte di un concorrente, fornendo in giudizio, quantomeno, concreti elementi per conoscere l’organigramma complessivo dell’azienda, il ruolo ricoperto dai dimissionari, le difficoltà incontrate per sostituire i fuoriusciti in relazione alle mansioni dagli stessi svolte ed alla reperibilità di analoghe professionalità al proprio interno o comunque sul mercato del lavoro .

L’imprenditore che recluti il lavoratore dimissionario non è vincolato al rispetto degli accordi che inerivano al precedente rapporto, di talché l’assunzione di un lavoratore che non abbia osservato il preavviso non implica necessariamente una condotta disgregatrice dell’altrui impresa, salvo dimostrare la sussistenza di detta precipua intenzionalità .

La concorrenza sleale per «illecito sviamento di clientela» è un concetto estremamente vago e non tipizzato, e pertanto non assimilabile ad altre figure sintomatiche di concorrenza sleale scorretta elaborate in modo tradizionalmente consolidato dalla giurisprudenza (storno di dipendenti, violazione di norme pubblicistiche, boicottaggio, vendita sottocosto…). Il tentativo di sviare la clientela (che non «appartiene» all’imprenditore) di per sé rientra nel gioco della concorrenza (che altro non è che contesa della clientela), sicché per apprezzare nel caso concreto i requisiti della fattispecie di cui all’articolo 2598, n.3, e ritenere illecito lo sviamento, occorre che esso sia provocato, direttamente o indirettamente, con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale (intesa come il complesso di regole desunte dalla coscienza collettiva imprenditoriale di una certa epoca, socialmente condivise dalla categoria). Non è, quindi, sufficiente il tentativo di accaparrarsi la clientela del concorrente sul mercato nelle sue componenti oggettive e soggettive, ma è imprescindibile il ricorso ad un mezzo illecito secondo lo statuto deontologico degli imprenditori.

Al fine di mantenere segrete le informazioni, l’imprenditore deve intervenire su più livelli, adottando misure che possono ricondursi a tre categorie: le misure di carattere fisico (quali l’utilizzo di archivi cartacei protetti da chiavi e accessibili solo ad alcuni dei dipendenti), le misure di carattere tecnologico (quali l’utilizzo di sistemi che rendano accessibili le informazioni solo a particolari soggetti, mediante l’utilizzo di accorgimenti tecnici) e le misure di carattere organizzativo (quali ad esempio circolari interne, protocolli, ordini di servizio, patti di non concorrenza o accordi di segretezza che consentano di rendere manifesta la volontà del titolare delle informazioni di mantenerle segrete). L’idoneità delle misure adottate deve essere valutata caso per caso, considerando vari fattori, tra i quali rilevano le dimensioni dell’impresa, la natura dell’informazione, il numero di soggetti che vi abbiano accesso e la tipologia di accesso previsto all’informazione stessa.

 

29 Ottobre 2024

Violazione del patto di non concorrenza e concorrenza sleale: responsabilità e conseguenze

Il principio secondo il quale la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non configurabile, pertanto, ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”, non esclude la legittima predicabilità dell’illecito concorrenziale anche quando l’atto lesivo del diritto del concorrente venga compiuto da un soggetto (il c.d. terzo interposto) il quale, pur non possedendo egli stesso i necessari requisiti soggettivi (non essendo, cioè, concorrente del danneggiato), agisca, tuttavia, per conto di (o comunque in collegamento con) un concorrente del danneggiato stesso, essendo egli stesso legittimato a porre in essere atti che ne cagionino vantaggi economici. In tal caso il terzo va legittimamente ritenuto responsabile, in solido, con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre, mancando del tutto siffatto collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l’imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c.

22 Ottobre 2024

I rapporti tra la disciplina pubblicistica e la normativa concorrenziale: il caso Finish v. Pril

Il messaggio al pubblico dell’operatore di mercato rientra nel più ampio genere delle pratiche commerciali e deve essere conforme alla disciplina di cui alla Direttiva CE n. 29/2005 sulle pratiche sleali tra imprese e consumatori, come recepita nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 146/2007 che ha modificato gli artt. da 18 a 27 del d.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo).

A ciò si aggiunga che la condotta contraria alle disposizioni pubblicistiche, quale comportamento plurioffensivo – che pregiudica, da un lato, la libertà contrattuale del consumatore e, dall’altro, l’operatore al cui bene o servizio è preferito quello di un altro – non comporta automaticamente la configurazione di una condotta anticoncorrenziale, così come quest’ultima non presuppone necessariamente la lesione di disposizioni pubblicistiche.

Il sindacato sul versante della violazione dell’art. 2598 co. 3 c.c. deve essere autonomo rispetto a quello della violazione della disciplina pubblicistica. E ciò conformemente all’orientamento di legittimità secondo il quale gli interessi protetti dalle disposizioni pubblicistiche e dalle norme sulla concorrenza sleale sono distinti per cui i comportamenti lesivi delle prime non sono automaticamente lesivi delle seconde in quanto occorre pur sempre indagare se la violazione pubblicistica sia anche idonea o meno a generare un danno anticoncorrenziale nei confronti dell’imprenditore leale.

La fattispecie di cui all’art. 2598 co. c.c. è riscontrata al ricorrere di tre condizioni cumulative ovvero: a) la violazione della normativa pubblicistica; b) l’effetto distorsivo che tale violazione produce sul mercato inducendo il consumatore medio a tenere un comportamento economicamente rilevante attraverso le sue scelte d’acquisto, diverso da quello che avrebbe altrimenti tenuto; c) la produzione di un danno anche solo potenziale in capo all’imprenditore leale, ossia all’operatore di mercato che offre un bene equipollente a quello del concorrente sleale che viene scartato a causa del messaggio ingannevole.

Sotto il profilo degli oneri probatori va rammentato che la violazione delle regole della concorrenza dà vita ad un’ipotesi di responsabilità di natura extracontrattuale valutabile secondo i parametri e gli specifici oneri di allegazione e probatori richiesti in tema di prova dell’illecito aquiliano, con l’unica particolarità della presunzione dell’esistenza dell’elemento soggettivo della colpa. L’attore è invece gravato dell’onere della prova in ordine alla sussistenza degli atti integranti l’addebito di concorrenza sleale, anche mediante il ricorso a presunzioni, purché dotate dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.

Azione di contraffazione del marchio: modalità di valutazione del rischio confusorio

La tutela prevista dall’art. 2598, comma 1, c.c., è cumulabile con quella specifica posta a protezione di segni distintivi tipici, trattandosi di azioni diverse per natura, presupposti, ed oggetto, stante il fatto che la prima ha carattere personale e presuppone la confondibilità con i prodotti del concorrente, mentre la seconda, a tutela delle privative industriali, ha natura reale ed opera anche indipendentemente dalla confondibilità dei prodotti e prescinde da connotazioni soggettive.

Ai fini del giudizio di confondibilità, di cui dell’art. 20 c.p.i., il c.d. rischio confusorio deve essere accertato attraverso una valutazione globale, tenendo conto dell’impressione d’insieme che suscita il raffronto tra i due segni mediante un esame unitario e sintetico che tenga in considerazione diversi fattori, quali la identità/somiglianza dei segni, la identità/somiglianza dei prodotti e servizi, il carattere distintivo del marchio anteriore, gli elementi distintivi e dominanti dei segni concorrenti, in relazione al normale grado di percezione dei potenziali acquirenti del prodotto del presunto contraffattore.

In tema di tutela del marchio, l’apprezzamento del giudice sulla confondibilità dei segni nel caso di affinità dei prodotti, non deve avvenire in via analitica attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni elemento, ma in via globale e sintetica, mediante una valutazione d’impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e che deve essere condotta alla stregua della normale diligenza e avvedutezza del consumatore di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo mnemonico dell’altro.

Una volta accertato il c.d. fumus boni juris, il periculum in mora è da ritenersi in re ipsa poiché la concorrenza confusoria comporta di per sé un drenaggio irreversibile di clientela e devalorizzazione o discredito dell’immagine commerciale e dei segni distintivi.

27 Giugno 2024

Segreto commerciale, imitazione servile e tutela autoriale: limiti di campo

Non è invocabile la tutela per i segreti commerciali contenuta agli artt. 98 e 99 del c.p.i. per informazioni aziendali riconducibili a soluzioni e componenti standard, utilizzate anche da altri produttori concorrenti, riproducibili mediante reverse engineering.

L’impiego di componenti esteriori acquistati da un fornitore comune ad un concorrente, per la realizzazione di prodotti finali simili, non integra ipotesi di imitazione servile ex art. 2598 n.1 c.c. qualora: i componenti identici impiegati appaiano banali e standardizzati, utilizzati da tutti i produttori del settore; i prodotti finali integrino altresì differenti modelli dei componenti forniti dal medesimo fornitore oppure relativi agli aspetti di maggior dettaglio e di specifica implementazione tecnica.

La presenza nel catalogo prodotti o nel libretto di istruzioni di testi, grafici e fotografie estremamente simili – se non identiche – al catalogo di un concorrente, non è illecita laddove le fotografie non definiscono né incorporano alcun know-how del concorrente, e, in sé, non costituisce violazione dell’opera dell’ingegno altrui, in quanto la tutela autoriale non ha ad oggetto il contenuto del catalogo o del libretto di istruzioni, quanto piuttosto la sua forma espressiva.

31 Maggio 2024

Storno di dipendenti: indici sintomatici dell’illecito

Il passaggio di dipendenti/collaboratori da un’impresa ad un’altra non è di per sé solo elemento sufficiente ad integrare l’ipotesi di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., costituendo espressione dei principii di rilevanza costituzionale di libera circolazione del lavoro (artt. 4 e 36 Cost.) e di libertà d’iniziativa economica (art. 41 Cost.).

La condotta di storno di dipendenti è illecita solo se attuata con l’intento di disgregare l’altrui organizzazione produttiva, ossia se connotata da animus nocendi, che deve essere desunto da elementi oggettivi e posta in essere con modalità del tutto inconciliabili con i principi di correttezza professionale, se non supponendo in capo all’autore il proponimento di arrecare un serio danno al grado di competitività dell’impresa stornata concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito

Costituiscono indici sintomatici dell’illecito in parola ex art. 2598 n.3 c.c.: 1) la quantità dei soggetti stornati; 2) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente; 3) la posizione ricoperta dai dipendenti stornati, in ragione delle mansioni svolte e del loro grado di specializzazione; 4) la non facile e tempestiva sostituibilità dei lavoratori; 5) l’induzione a violare l’obbligo di fedeltà e di non concorrenza; 6) l’idoneità di tale atto a compromettere lo svolgimento ordinario dell’attività concorrente; 7) l’utilizzo di mezzi contrari alla correttezza professionale (tra i quali il compimento di attività denigratorie o la sottrazione di dati riservati)

25 Maggio 2024

La confondibilità nell’illecito concorrenziale

La verifica della sussistenza o meno della confondibilità con l’attività o i prodotti di un concorrente deve essere espletata avendo riguardo all’impressione che, presumibilmente, la somiglianza dei segni può suscitare nel consumatore medio, dotato di ordinaria diligenza e capacità, considerando sempre la specifica tipologia di clientela cui il prodotto è destinato, oltre al livello di attenzione che mediamente il consumatore presta in relazione alla tipologia di prodotto di cui trattasi. Laddove non si tratti di un prodotto di durata e/o di lusso l’attenzione del consumatore non si può considerare certamente elevata.

Per la configurabilità dell’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c. è sufficiente che sussista la possibilità di confusione eseguita con un giudizio di probabilità e non è necessario che si produca un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto leso essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno.

19 Aprile 2024

Concorrenza sleale e violazione dei principi della correttezza professionale

In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato.

La fattispecie di cui all’art 2598 n.3 cc attiene a forme di slealtà concorrenziale realizzata con meccanismi diversi rispetto a quelli afferenti i casi tipici di cui all’ art 2598 n.1 e 2 cod. civ., sussistendo concorrenza sleale ai sensi della norma de qua quando l’imprenditore si avvalga di qualsiasi mezzo contrario alla correttezza e nel contempo idoneo a danneggiare l’altrui impresa. La norma di cui all’art 2598 n.3 cc costituisce invero una disposizione aperta che spetta al giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato ed alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l’appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente.

Responsabilità extracontrattuale per “bullismo mediatico” e risarcimento del danno

Non è configurabile un comportamento integrante un illecito di concorrenza sleale per atti di “bullismo mediatico” qualora non sia provata da chi si assume danneggiato la qualifica di imprenditore del danneggiante, necessaria ai fini di un’ipotesi di cui all’art. 2598, n. 2, c.c.. Presupposto della configurabilità di un atto di concorrenza sleale è infatti la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, con la conseguenza che essa ricorre solo se entrambi i soggetti, attivo e passivo, dell’illecito rivestono la qualità di imprenditori secondo la nozione delineata dall’art. 2082 c.c. Ai fini di tale prova, è irrilevante il fatto che il danneggiante avesse pacificamente provveduto alla commercializzazione di alcune magliette e adesivi contenenti messaggi volti a ridicolizzare l’altra parte, essendo tale circostanza, in sé considerata, insufficiente.

Quanto all’elemento soggettivo, ai fini della configurazione di un illecito diffamatorio, integrante responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., non è necessaria la prova della sussistenza di un animus inuriandi vel diffamandi, essendo sufficiente la volontà di comunicare a più persone il fatto lesivo dell’altrui reputazione, nella volontà cosciente e libera di usare espressioni offensive.

In tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa“, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.