Legittimazione attiva del cessionario di azienda, abuso di dipendenza economica e contrarietà del recesso ad nutum al principio generale di buona fede
Ai fini della legittimazione attiva, la cessionaria di azienda deve provare l’intervenuto contratto di cessione ai sensi dell’art. 2556 c.c.
Una clausola contrattuale che impedisce a una parte di lavorare per altri soggetti in diretta concorrenza con la controparte contrattuale a cui favore la clausola è predisposta, non comporta abuso di dipendenza economica. Ai fini dell’accertamento dell’abuso di dipendenza economica non rileva solo la singola clausola contrattuale contestata ma il concreto atteggiarsi del rapporto intercorso. Un recesso ad nutum, ancorché in assenza di vincoli contrattuali, si pone in contrasto con le linee elaborate dalla giurisprudenza già a partire dalla sentenza 2009/20106 emessa dalla Suprema Corte. In tale sentenza, infatti, la Corte di Cassazione ha richiamato la clausola generale della buona fede di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e, inquadrandola nell’ambito dei valori costituzionali di cui agli artt. 2 e 42 della Costituzione, ha affermando che “la sua rilevanza si esplica nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”. In questa prospettiva, la Suprema Corte ha altresì precisato che le norme in questione consentono al giudice di “controllare in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi”, valutando, nel rispetto della libertà di scelta dell’imprenditore “se l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principi espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza”.
D’altra parte, seppure nel caso non si tratta di un vero e proprio contratto di somministrazione nel senso indicato dalle norme codicistiche, il contratto oggetto di causa può essere assimilato a tale figura tipica quanto alle regole che ne disciplinano il recesso e – segnatamente – può applicarsi in via analogica l’art. 1569 c.c. Tale norma, per il contratto di somministrazione a tempo indeterminato, dispone che ciascuna parte possa recedere “dando preavviso nel termine pattuito o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, in un termine congruo avuto riguardo alla natura della somministrazione”. Ora applicando tutto quanto sopradelineato al caso di specie, ritiene il Collegio che la convenuta – pur libera (e necessitata dal calo di fatturato, secondo la sua prospettazione) di interrompere i rapporti di commessa con la società attrice – avrebbe dovuto, al fine di preservarne gli interessi e di metterla in condizione di assumere le opportune scelte, darle un congruo preavviso, cosa che invece non è avvenuta.