Natura del rapporto tra organo gestorio e società, giusta causa di revoca e risarcimento del danno
Il rapporto di amministrazione costituisce non un mandato, ma una figura di contratto a sé stante. Gli amministratori, a differenza dei mandatari, sono tenuti a compiere non solo singoli e ben delimitati atti giuridici, ma una complessa attività di gestione, con la precisazione che nell’attività tipica degli amministratori rientrano non soltanto la gestione routinaria dell’impresa, ma anche le scelte strategiche più importanti.
Il rapporto che lega l’amministratore alla società è un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato né tout court solo come mandato né come rapporto di lavoro subordinato né come collaborazione continuata e coordinata, rientrando invero le prestazioni dell’amministratore piuttosto nell’area del lavoro professionale autonomo.
Detto rapporto, sicuramente di natura contrattuale, va ricondotto nell’ampio genus del contratto di prestazione d’opera, in cui peraltro continuano ad assumere rilievo, come fonti integrative, tanto la disciplina del contratto di mandato quanto la disciplina del codice civile, che predetermina in larga parte il contenuto di detto contratto. Si parla di contratto in quanto è pur sempre necessario l’incontro di volontà fra le parti, del resto l’accettazione della nomina ad amministratore di una società – necessaria, avendo i poteri degli amministratori, fonte contrattuale – non richiede l’osservanza di specifiche formalità e può essere anche tacita.
La nozione di giusta causa di revoca dalla carica gestoria, che esclude il diritto dell’amministratore al risarcimento del danno prodotto dall’anticipato scioglimento del rapporto, deve fondarsi sull’esistenza di fatti, non necessariamente costituenti inadempimento agli obblighi gestori, che facciano venir meno l’affidamento dei soci sulle capacità ed attitudini dell’amministratore ovvero il rapporto fiduciario fra le parti.
La giusta causa può essere sia soggettiva che oggettiva, purché si tratti di circostanze o fatti sopravvenuti, idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto; nel secondo caso essa consiste in situazioni estranee alla persona dell’amministratore, quindi non integranti un suo inadempimento e sempre che ricorra un quid pluris, cioè l’esistenza di situazioni tali da elidere il citato affidamento riposto sulle attitudini e le capacità dell’organo di gestione, in modo tale da poter fondatamente ritenere che siano venuti meno, in capo allo stesso, quei requisiti di avvedutezza, capacità e diligenza di tipo professionale che dovrebbero sempre contraddistinguere l’amministratore di una società di capitali.
Possono assumere rilievo, ai fini della giusta causa sottesa al provvedimento di revoca, anche profili di abilità e di capacità manageriale ed imprenditoriale, viste in relazione alle aspettative che la società aveva riposto nell’amministratore al momento della scelta.
La deliberazione assembleare di revoca dell’amministratore integra una fattispecie di recesso in senso tecnico, quale atto che pone fine ex nunc al rapporto giuridico sorto dal contratto -la revoca, in senso tecnico, ha invece ad oggetto non il rapporto, ma l’atto, di cui impedisce il sorgere degli effetti o li fa venir meno ex tunc-, si osserva che per consolidata giurisprudenza di legittimità la revoca assembleare per giusta non configura una sanzione e quindi non richiede la previa contestazione degli addebiti.
Alla luce del principio di immodificabilità delle ragioni di recesso, è condizione indefettibile della giusta causa che le ragioni della revoca vengano esplicitate nel corso dell’assemblea e risultino a verbale, non potendo trovare ingresso né legittimità motivi aggiunti o individuati ex post per la prima volta solo in corso di causa, ma mai precedentemente indicati e/o specificati nel corso della deliberazione assembleare.
Se non motivata, la revoca è ugualmente efficace, ma la società può essere condannata al risarcimento dei danni per mancanza appunto della giusta causa.
La pretesa di un amministratore di società di capitali al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo perfetto sicché, ove la misura di tale compenso non sia stata stabilita dall’atto costitutivo o dall’assemblea, può esserne chiesta al giudice la determinazione equitativa.
L’ipotesi del mutamento della compagine sociale e dell’ingresso di nuove maggioranze non è ritenuta, di per sé, come giusta causa di revoca dalla dottrina assolutamente maggioritaria e dalla giurisprudenza sul presupposto della neutralità, quanto meno formale, del mutamento della maggioranza rispetto al rapporto società- amministratore; quindi nulla vieta -ed anzi nelle cessione delle azioni sono previste clausole contenenti l’impegno dei cedenti a provocare le dimissioni dei vecchi amministratori- che effettivamente la società possa procedere al ricambio dell’organo amministrativo, per consentire ai nuovi azionisti di maggioranza di imporre la propria impronta organizzativa e gestionale, ma la revoca in questi casi non sarebbe assistita da giusta causa e quindi non sarebbe escluso il diritto dell’amministratore revocato al risarcimento dei danni.