Natura e caratteri del patto leonino
Il patto leonino ricorre allorché gli accordi finalizzati all’esclusione del socio dalle perdite e dagli utili siano stati stipulati dai soci con la società, mentre il patto avente identico contenuto e finalità, ove stipulato inter socios, non è riconducibile nell’alveo del predetto divieto in quanto esso non sarebbe opponibile alla società rimasta ad esso estranea, la quale, per ciò, continuerebbe ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni sociali in base agli ordinari criteri e principi, nel rispetto anche del divieto de quo.
La ratio che informa il divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., applicabile anche alle società di capitali, consiste nel preservare la purezza della causa societatis, evitando che un socio possa essere escluso dagli utili o dalle perdite; ipotesi questa che contrasta con l’interesse generale alla corretta amministrazione della società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione della stessa, avendo comunque assicurato il guadagno o restando esonerato da ogni possibile perdita. Deve, quindi, trattarsi di un patto finalizzato alla regolamentazione degli assetti ed equilibri societari con conseguenti implicazioni anche di natura organizzativa/gestoria.
Il patto leonino è ravvisabile solo in presenza di una esclusione totale e costante dalle perdite e dagli utili e solo quando questa non integri una funzione autonoma meritevole di tutela. L’esclusione dalle perdite o dagli utili, quale situazione assoluta e costante, deve cioè riverberarsi sullo status del socio. Infatti, perché il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 c.c. sussista è necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante, perché riflette la posizione, lo status, del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di società. Detta esclusione deve finire per alterare la causa societaria nei rapporti con l’ente-società, che trasla, quanto al socio interessato da quell’esonero dalla condivisione dell’esito dell’impresa collettiva, da rapporto associativo a rapporto di scambio con l’ente stesso.
Il patto parasociale, in forza del quale taluni soci si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società, integra la fattispecie del contratto a favore di terzo, ai sensi dell’art. 1411 c.c., del quale sono legittimati a pretendere l’adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.
Una domanda avente ad oggetto l’adempimento di obbligazioni nascenti da patti parasociali coinvolgenti società di capitali, e diretti, in generale, a disciplinare, inter alia, profili di natura organizzativa e gestoria della società partecipata, la circolazione delle relative partecipazioni e, quindi, l’assetto e la struttura della compagine sociale, nonché, a dotare quest’ultima delle necessarie risorse finanziarie, introduce una controversia, oggettivamente e soggettivamente, riconducibile a quelle per le quali la competenza è, ope legis, riservata, in via esclusiva funzionale ed inderogabile, ratione materiae, alle sezioni specializzate in materia di impresa, in virtù del disposto di cui all’art. 3, lett. c, d.lgs. n. 168/2003, il quale, tra le controversie attribuite alla competenza funzionale ed inderogabile delle sezioni specializzate in materia di impresa, include espressamente quelle “in materia di patti parasociali”.
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Rossana Leggieri
Avvocato presso Studio De Poli - Venezia; docente Cuoa; curatore speciale e custode per il Tribunale delle Imprese di Venezia(continua)