Obbligo di buona fede nell’interpretazione di un contratto di franchising
Coma la Suprema Corte ha ripetutamente ribadito, “l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale che, nell’ambito contrattuale, implica un obbligo di reciproca lealtà di condotta che deve presiedere sia all’esecuzione del contratto che alla sua formazione ed interpretazione” (Cass. 5348/2009). La buona fede costituisce un obbligo di solidarietà che impone a ciascuna parte di tenere comportamenti idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass. 246/2006; Cass. 13345/2006). In applicazione di tale principio, che per la giurisprudenza costituisce strumento giudiziale di controllo del contratto in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, anche in senso modificativo o integrativo (Cass. 5348/2009; Cass. 23726/2007), non può interpretarsi una clausola di un contratto di franchising in modo tale da consentire all’affiliante di eliminare dal mercato l’affiliato, escludere la collaborazione e pregiudicare l’interesse, non solo della controparte, ma comune alle parti, dell’immagine del prodotto.