Storno illecito di personale e valutazione del capitale umano
Il cosiddetto storno di dipendenti rappresenta una normale espressione della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. e della libera circolazione del lavoro ex art. 4 Cost.. Affinchè l’ attività di acquisizione di collaboratori e dipendenti integri l’ ipotesi della concorrenza sleale è necessario che sia stata attuata con la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura che ecceda il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro che scelgano di lavorare presso altra impresa.
Non basta infatti che l’ atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente, anche attraverso l’ acquisizione dei migliori collaboratori, ma è necessario che sia diretto a privarlo del frutto del “suo” investimento. Per individuare siffatta scorrettezza concorrenziale occorre innanzitutto considerare i mezzi utilizzati, valutando le modalità di reclutamento dei dipendenti stornati e gli effetti potenzialmente “destrutturanti” sull’altrui organizzazione aziendale, in uno con la parassitaria sottrazione di avviamento (il che consente di ancorare ad elementi indiziari oggettivi il requisito del c.d. “animus nocendi”).
Non corrisponde ai principi di lealtà l’assunzione di dipendenti altrui finalizzata pure all’utilizzo di specifiche conoscenze commerciali e comunque alla sottrazione di clienti con cui i dipendenti si trovavano in relazione privilegiata. I vantaggi in termini di avviamento e clientela derivati dall’attività promozionale dei dipendenti del settore commerciale sono patrimonio acquisito dell’impresa da cui dipendono ed il necessario rispetto delle regole di correttezza ex art. 2598 n. 3 c.c. non consente al nuovo datore di lavoro di utilizzare gli ex collaboratori del concorrente per un sistematico contatto con i clienti già trattati al fine di acquisirli a proprio favore. In questa prospettiva meno rileva, se non ad aggravare una condotta già di per sé potenzialmente illecita, che il contatto avvenga utilizzando liste clienti e prezzari con le caratteristiche di cui all’art. 98 CPI, ovvero semplicemente ricostruite da ciascun commerciale.
E’noto, che il “capitale umano” non è privo di un valore stimabile economicamente, essenzialmente in una prospettiva organizzativa, che consente di riguardarlo quale risorsa dell’ impresa costituita dalle “conoscenze”e dalle “competenze” detenute dal personale (abilità, formazione, esperienza e valore personale), ovviamente tanto più rilevante quanto già organizzata ed abituata ad operare in team (che fonde professionalità complementari e già use a decisioni condivise) e ad avere un approccio competitivo sul mercato.
In proposito, la dottrina aziendalistica ha notoriamente sviluppato delle metodologie di valutazione basate sui costi (relativi all’ acquisizione e formazione del personale medesimo, ed usualmente parametrati tra 1/3 e 2,5 della retribuzione annua lorda) o, in alternativa sulle potenzialità economico-redittuali. Tali metodologie possono fornire solo un criterio di valutazione, sicchè il Giudice deve fare ricorso ai poteri di cui all’ art. 1226 c.c. ed alle nozioni di comune esperienza per integrare le risultanze istruttorie.