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29 Giugno 2024

Abuso di maggioranza e conflitto di interessi nell’aumento del capitale mediante compensazione

Il conflitto di interessi implica una vera e propria incompatibilità fra l’interesse concreto della società e quello del socio, messo in gioco nell’esercizio del voto e non può ritenersi sussistente per il solo fatto che la maggioranza abbia dato corso a un aumento di capitale con “minimo sforzo economico” mediante compensazione con i crediti vantati dai soci stessi per i finanziamenti precedentemente effettuati in favore della società.

Rispetto all’abuso di maggioranza, va ricordato che il socio è pienamente libero di votare le delibere secondo la valutazione del suo proprio interesse, con il solo limite di non esercitare il voto secondo mala fede, ciò che avviene quando il voto è esercitato con il solo scopo di danneggiare gli altri soci, senza che vi sia alcun legittimo interesse proprio. In tale contesto, l’interesse della società, spesso di difficile individuazione, rimane sullo sfondo: ma nella materia dell’aumento di capitale plurimi indici normativi favorevoli agli aumenti (anche della disciplina transitoria del periodo Covid) spingono a considerare l’aumento di capitale tendenzialmente come fatto che risponde sempre all’interesse della società.

Se anche l’aumento è ottenuto mediante liberazione da debiti, senza iniezione di capitale, ciò è sempre di vantaggio della società, che vede anche aumentare il patrimonio netto. Quando si tratta di convertire in capitale delle pregresse effettive iniezioni di liquidità dei soci, non si fa che dare risposta a quella esigenza, normativamente tutelata anche mediante la disciplina della postergazione, secondo la quale le necessità della società vanno sovvenute dai soci mediante aumento di capitale.

L’art. 2467 c.c., stabilendo che siano postergati i finanziamenti soci che siano fatti quando sarebbe invece opportuno un conferimento, non stabilisce una regola sterile e meramente punitiva per il socio, ma sottende la regola dell’obbligo del socio di aumentare il capitale, quando ciò è necessario, se vuole che il programma societario proceda.

7 Maggio 2024

Contratto di edizione musicale: inadempimento e onerosità sopravvenuta

Nella valutazione della gravità dell’inadempimento di un contratto, devono essere preliminarmente distinte le violazioni delle obbligazioni costitutive del sinallagma contrattuale, che possono essere apprezzate ai fini della valutazione della gravità di cui all’art. 1455 c.c., rispetto a quelle che incidono sulle obbligazioni di carattere accessorio, che non sono idonee, in sé sole, a fondare un giudizio di gravità dell’inadempimento, potendosi darsi rilievo alla violazione degli obblighi generali di informativa ed avviso imposti dalla cd. buona fede integrativa soltanto in presenza di un inadempimento grave incidente sul nucleo essenziale del rapporto giuridico, ovvero di una ipotesi di abuso del diritto da parte di uno dei paciscenti.

Il contratto di edizione musicale, privo di una disciplina legale, si pone al di fuori delle indicazioni contenute negli artt. 118 e ss. della legge 22 aprile 1941, n. 633, costituendo pertanto un negozio atipico che attiene alla cessione di diritti economici dell’autore sulle opere musicali oggetto del contratto.

L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell’art. 1467 c.c., la risoluzione del contratto, richiede l’incidenza sul sinallagma contrattuale di eventi che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale e che si caratterizzano per la loro straordinarietà, connotato di natura oggettiva che qualifica un evento in base all’apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l’intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico); e per la loro imprevedibilità, che ha fondamento soggettivo, in quanto fa riferimento alla fenomenologia della conoscenza.

Il contratto di edizione musicale è indubbiamente caratterizzato da un profilo aleatorio di apprezzabile rilievo, tenuto conto della normale incertezza che necessariamente caratterizza le previsioni di successo relative a composizioni musicali future anche laddove espressione della personalità di un artista già apprezzato dal pubblico.

12 Marzo 2024

Esercizio abusivo della clausola simul stabunt simul cadent

La previsione statutaria della cessazione dell’intero consiglio di amministratore per effetto delle dimissioni di taluno dei suoi membri (simul stabunt simul cadent) attribuisce all’esercizio da parte del singolo componente dell’organo amministrativo della facoltà di recedere liberamente dal mandato, l’ulteriore effetto di determinare la decadenza immediata dell’organo gestorio con la funzione, non solo di conservare gli equilibri interni di composizione del consiglio originariamente voluti e cristallizzati nella delibera assembleare di nomina evitando in particolare l’alterazione che potrebbe derivare a danno della compagine di minoranza dall’applicazione del meccanismo della cooptazione, ma anche di fungere da stimolo alla coesione dell’organo gestorio.

La decadenza immediata dell’organo amministrativo conseguente alla legittima applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent non comporta a favore del componente non dimissionario alcun effetto indennitario o risarcitorio dal momento che la previsione conforma specificamente il mandato gestorio assunto da ciascun membro del consiglio di amministrazione con l’accettazione della carica.

Quando in presenza della clausola statutaria simul stabunt simul cadent le dimissioni di taluni membri del consiglio di amministrazione siano preordinate esclusivamente a consentire poi all’assemblea dei soci di rinnovare l’organo amministrativo con l’esclusione del solo componente sgradito per sottrare la società all’obbligo di indennizzo connesso all’adozione diretta di una deliberazione assembleare di revoca senza giusta causa, può configurarsi l’abuso nell’esercizio delle facoltà spettanti ai componenti degli organi sociali coinvolti, fonte dell’obbligo della società di risarcire il danno subito dal componente non dimissionario illegittimamente privato della prestazione indennitaria.

Il complesso onere probatorio gravante sull’amministratore che deduce l’uso distorto del meccanismo decadenziale concerne, quindi, un vero e proprio procedimento elusivo costituito dalla concatenazione concertata di atti negoziali e comportamenti riferibili a componenti di organi sociali diversi volti a convergere sull’unico scopo della realizzazione di un effetto equivalente alla revoca ingiustificata senza indennizzo dell’amministratore.

La configurabilità della fattispecie procedimentale dell’abuso in questione presuppone: (i) l’esercizio strumentale della facoltà di dimissioni da parte di taluni componenti del consiglio di amministrazione con il solo scopo di provocare la decadenza immediata dell’organo in vista della programmata esclusione da parte dell’assemblea convocata per il rinnovo dell’organo del solo componente sgradito; (ii) la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario; (iii) il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio di amministrazione e la successiva immediata nomina da parte dell’assemblea del nuovo consiglio di amministrazione composto da tutti i membri precedenti escluso quello non più gradito, connotato dall’esclusivo intento di ottenere la sua estromissione senza indennizzo dall’organo gestorio.

12 Marzo 2024

Abusivo ricorso al meccanismo simul stabunt simul cadent

La previsione statutaria della cessazione dell’intero consiglio di amministratore per effetto delle dimissioni di taluno dei suoi membri attribuisce all’esercizio da parte del singolo componente dell’organo amministrativo della facoltà di recedere liberamente dal mandato senza alcuna necessità di motivazione desumibile dall’art. 2385, co. 1, c.c. l’ulteriore effetto di determinare la decadenza immediata dell’organo gestorio con la funzione, non solo di conservare gli equilibri interni di composizione del consiglio originariamente voluti e cristallizzati nella delibera assembleare di nomina evitando in particolare l’alterazione che potrebbe derivare a danno della compagine di minoranza dall’applicazione del meccanismo della cooptazione, ma anche di fungere da stimolo alla coesione dell’organo gestorio poiché ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno o di alcuni degli altri determina la decadenza dell’intero consiglio e nel contempo può contribuire a quella decadenza quando in disaccordo con gli altri. La decadenza immediata dell’organo amministrativo conseguente alla legittima applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent non comporta a favore del componente non dimissionario alcun effetto indennitario o risarcitorio dal momento che la previsione conforma specificamente il mandato gestorio assunto da ciascun membro del consiglio di amministrazione con l’accettazione della carica.

La revoca dell’amministratore corrisponde, invece, a una facoltà discrezionale dell’assemblea dei soci, fondata sulla natura eminentemente fiduciaria dell’incarico, che può essere esercitata per determinare la cessazione immediata del rapporto gestorio anche a prescindere dal preavviso o dall’esistenza di una giusta causa salva, però, la necessità in questo caso di corrispondere all’amministratore il risarcimento del danno previsto dall’art. 2383 c.c., avente natura essenzialmente indennitaria in quanto connesso all’esercizio legittimo di una facoltà.

Quando in presenza della clausola statutaria simul stabunt simul cadent le dimissioni di taluni membri del consiglio di amministrazione siano preordinate esclusivamente a consentire poi all’assemblea dei soci di rinnovare l’organo amministrativo con l’esclusione del solo componente sgradito per sottrare la società all’obbligo di indennizzo connesso all’adozione diretta di una deliberazione assembleare di revoca senza giusta causa può configurarsi l’ abuso nell’esercizio delle facoltà spettanti ai componenti degli organi sociali coinvolti, fonte dell’obbligo della società di risarcire il danno subito dal componente non dimissionario illegittimamente privato della prestazione indennitaria. Il complesso onere probatorio gravante sull’amministratore che deduce l’uso distorto del meccanismo decadenziale concerne, quindi, un vero e proprio procedimento elusivo costituito dalla concatenazione concertata di atti negoziali e comportamenti riferibili a componenti di organi sociali diversi volti a convergere sull’unico scopo della realizzazione di un effetto equivalente alla revoca ingiustificata senza indennizzo dell’amministratore.

La configurabilità della fattispecie procedimentale dell’abuso in questione presuppone, in particolare: (i) l’esercizio strumentale della facoltà di dimissioni da parte di taluni componenti del consiglio di amministrazione con il solo scopo di provocare la decadenza immediata dell’organo in vista della programmata esclusione da parte dell’assemblea convocata per il rinnovo dell’organo del solo componente sgradito; (ii) la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario; (iii) il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio di amministrazione e la successiva immediata nomina da parte dell’assemblea del nuovo consiglio di amministrazione composto da tutti i membri precedenti escluso quello non più gradito, connotato dall’esclusivo intento di ottenere la sua estromissione senza indennizzo dall’organo gestorio.

21 Febbraio 2024

Esclusione del socio di s.r.l.: termine d’impugnazione, abuso dei diritti e periculum in mora per il socio escluso

Il legislatore, omettendo di dettare una disciplina del procedimento di esclusione del socio di s.r.l., ha ritenuto che i presidi generali della disciplina del tipo sociale siano sufficienti baluardi a tutela anche del socio escluso. L’art. 2479 ter c.c. disciplina le modalità di impugnazione delle delibere assembleari assegnando il termine di novanta giorni, salvi i casi di cui al terzo comma. Il termine di cui all’art. 2479 ter c.c. è termine a carattere processuale, e non solo perentorio – a garanzia della certezza dei fatti sociali – ma anche stabilito dal legislatore per assicurare agli interessati un congruo tempo per impugnare. La natura cogente del termine si individua anche in considerazione del principio generale stabilito dall’art. 2965 c.c.: una volta che il legislatore ritiene congruo per le impugnative in materia di decisioni (segnatamente assembleari) nelle s.r.l. il termine di novanta giorni, un termine minore deve ritenersi produttivo di eccessiva difficoltà nella tutela del diritto.

Nulla ostacola il socio escluso dall’impugnativa secondo le norme generali, poiché un rimedio volto a rimuovere una esclusione illegittima deve poter essere utilizzato da colui che di tale esclusione è vittima. Lo statuto non può derogare al termine di impugnazione di novanta giorni stabilito dalla legge all’art. 2479 ter c.c. per la impugnazione delle delibere delle s.r.l.; un eventuale termine previsto potrà ritenersi operante solo riguardo alla durata dell’effetto sospensivo automatico.

La ratio del disposto dell’art. 2378, co. 3, c.c. è quella di evitare che la materia della sospensiva sia trattata autonomamente da un processo destinato a decidere in modo definitivo sulla validità della delibera, mentre non vi è ragione che vieti di anticipare con una sospensiva gli effetti della sentenza, dopo che il merito è stato introdotto, all’interno dello stesso processo, e successivamente all’inizio di questo.

Il socio di s.r.l. che si giovi del suo diritto all’accesso documentale per procurarsi notizie che gli assicurino un vantaggio competitivo sul mercato a discapito della società, cagionandole danno grave, rappresenta un caso di abuso che costituisce un limite allo stesso diritto ispettivo del socio. Diversamente, l’utilizzo dei documenti a fini di difesa processuale non realizza abuso del diritto ispettivo, né sotto il profilo concorrenziale né sotto altro profilo, avendo i soci diritto all’accesso anche nell’interesse proprio, purché non confliggente con quello della società.

Al fine dell’individuazione del periculum in mora, i soci che si ritengono ingiustamente esclusi sono portatori di un interesse a conservare l’esercizio delle loro prerogative sociali, e ciò anche se la società è stata nel frattempo posta in liquidazione. Anzi, poiché la liquidazione è tendenzialmente destinata a portare la società a fine vita, la soddisfazione del loro interesse a potere esercitare il controllo della sua conduzione, nelle forme di legge, e a conseguire le eventuali spettanze economiche finali, appare non differibile.

5 Febbraio 2024

Il socio tiranno. Simulazione relativa nella cessione di partecipazioni

La figura del socio tiranno costituisce una tipizzazione giurisprudenziale e dottrinale che si inserisce nella più generale categoria dell’abuso del diritto. Il socio tiranno utilizza, infatti, la personalità giuridica della (o delle) società da lui controllate come un mero schermo allo scopo di beneficiare impropriamente della responsabilità limitata, a fini diversi da quelli per cui è prevista dall’ordinamento e in danno dei creditori. A sua volta, la tutela accordata ai creditori della società danneggiati dall’abuso si ispira al modello della exceptio doli, negando al socio tiranno il beneficio della limitazione della responsabilità e disconoscendo l’esistenza dello schermo societario abusato. Il socio tiranno è tale quando si serva della struttura sociale come schermo al fine di gestire i propri affari con responsabilità patrimoniale limitata e allorché alla forma societaria corrisponda una gestione in tutto e per tutto individuale. Più nel dettaglio, la figura del socio tiranno è riferita alla fattispecie in cui un socio non titolare dell’intero pacchetto di quote o di azioni, spesso occulto, gestisce o fa gestire la società di capitali come un proprio strumento, perseguendo finalità egoistiche e personali, abusando della distinta soggettività giuridica della società stessa, con conseguente disprezzo delle norme fondamentali del diritto societario e con confusione del patrimonio personale con il patrimonio della società tiranneggiata, dimostrando che la società è stata costituita o proseguita al solo scopo di frapporre tra sé e i terzi lo schermo di un soggetto di diritto per sottrarsi alle pretese dei creditori e per fruire indebitamente del beneficio della responsabilità limitata.

In tema di simulazione, la cosiddetta controdichiarazione costituisce un atto di riconoscimento o di accertamento scritto che, non avendo carattere negoziale e non facendo parte del procedimento simulatorio come elemento essenziale, può non essere coeva all’atto simulato e può altresì provenire dalla sola parte contro il cui interesse è redatta e che voglia manifestare il riconoscimento della simulazione. Il contratto di cessione di quote di s.r.l. non soggiace tra le parti a particolari requisiti di forma, con la conseguenza che la prova della controdichiarazione non incontra, in via generale, limiti diversi e ulteriori da quelli inerenti alla prova testimoniale e per presunzioni ai sensi degli artt. 1417 e 2722 c.c. Peraltro, allorché la simulazione relativa riguardi un contratto a forma libera, non opera la limitazione di cui all’art. 2725 c.c., sicché, nel rapporto tra le parti, si potrà invocare la prova per testimoni o per presunzioni, sia quando la prova venga richiesta per dimostrare l’illiceità del contratto dissimulato ex art. 1417 c.c., sia quando ricorra una delle condizioni prescritte dall’art. 2724 c.c. (principio di prova per iscritto, impossibilità morale o materiale di procurarsi il documento e perdita incolpevole del documento), che costituiscono eccezioni al divieto di prova testimoniale del patto aggiunto o contrario al contenuto del documento simulato, per il quale si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contestuale ex art. 2722 c.c.

22 Maggio 2023

Inconfigurabilità di un diritto del socio agli utili in assenza di una deliberazione assembleare in tal senso

Ai sensi dell’art. 2433, c. 1, c.c., la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall’assemblea che approva il bilancio. La disposizione codicistica demanda all’assemblea, e, dunque, alla maggioranza degli azionisti in sede di approvazione del bilancio, la valutazione in ordine alla distribuibilità degli utili ai soci. Non è, dunque, configurabile un diritto del socio agli utili senza una preventiva deliberazione assembleare in tal senso, rientrando nei poteri dell’assemblea, in sede approvativa del bilancio, la facoltà di disporne l’accantonamento o il reimpiego nell’interesse della stessa società, sulla base di una decisione censurabile solo se propria di iniziative della maggioranza volte ad acquisire posizioni di indebito vantaggio a danno degli altri soci cui sia resa più onerosa la partecipazione.

I soci non vantano nei confronti della società un diritto al dividendo ab origine per il solo fatto di essere titolari di azioni o di quote; esso si costituisce per gradi ed integra una fattispecie a formazione progressiva, perché sorge solo dopo la chiusura dell’esercizio sociale, la registrazione di eventuali utili, l’approvazione del bilancio e infine la decisione dell’assemblea di distribuire o meno i medesimi a favore dei soci. In questa prospettiva, la mancata sussistenza dell’obbligo per l’assemblea di distribuire l’utile ai soci comporta la legittimità della delibera che destini gli utili a riserve facoltative, salvo che l’operazione posta in essere dalla maggioranza sia animata da scopi extrasociali o da intenti emulativi nei confronti della minoranza. In altre parole, la condotta abusiva della maggioranza costituisce il limite alla discrezionalità dell’assemblea in ordine alla decisione di non distribuire gli utili di esercizio: ma, per configurare tale fattispecie, l’attore deve provare un intento vessatorio (o extrasociale) ai danni dei soci di minoranza e la mancanza di ogni ragionevole motivazione ispiratrice della scelta compiuta.

19 Gennaio 2023

Buona fede e correttezza nell’esercizio del diritto di consultazione del socio di s.r.l.

L’art. 2476 c.c. riconosce ai soci il diritto di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione. Segnatamente, in analogia con quanto previsto dall’art. 2261 c.c. in tema di controllo sulla gestione di società di persone da parte dei soci che non partecipano alla relativa amministrazione, anche nelle società a responsabilità limitata il diritto alla consultazione dei libri e documenti sociali è riconosciuto a qualunque socio non amministratore, indipendentemente dalla consistenza della partecipazione di cui lo stesso sia titolare. In particolare, il diritto di cui si discute – strumentale all’esercizio del potere di controllo accordato al socio – attiene alla consultazione di tutti i documenti afferenti all’amministrazione della società, dal momento della relativa costituzione, e comprende, quale necessario corollario, anche la facoltà di estrarre copia dei documenti esaminati (naturalmente a spese del socio interessato).

Il diritto di controllo del socio non amministratore, non a caso disciplinato nell’ambito dell’art. 2476 c.c., soddisfa l’esigenza di acquisizione di informazioni utili in merito alle modalità di effettivo svolgimento della funzione gestoria da parte degli amministratori ed è funzionale, altresì, all’esperimento dell’azione sociale di responsabilità promuovibile in via surrogatoria da ciascun socio, nonché dell’azione di revoca dell’organo gestorio.

Il diritto di consultazione ex art. 2476, co. 2, c.c. spettante al socio non amministratore di s.r.l., in quanto strumentale all’esercizio del fondamentale potere di controllo, non tollera limitazioni di sorta, se non quelle connesse alla generale operatività del principio di buona fede e correttezza.

In omaggio al principio di buona fede e correttezza sono da considerare illegittimi i comportamenti che risultino rivolti a fini diversi da quelli strettamente informativi. Il socio è infatti tenuto ad astenersi da una ingerenza nell’attività degli amministratori per finalità di turbativa dell’operato di questi ultimi con la richiesta di informazioni di cui il socio non ha effettivamente bisogno al solo scopo di ostacolare l’attività sociale; in tal caso l’esercizio del diritto non potrebbe ricevere tutela in quanto mosso da interessi ostruzionistici. Parimenti contraria a buona fede è la condotta del socio che eserciti il controllo in modo contrastante con l’interesse sociale. In siffatti casi, sussiste un vero e proprio obbligo degli amministratori di rifiutare informazioni sociali riservate, considerato anche che gli amministratori potrebbero rendersi responsabili verso la società per l’indebito uso delle informazioni da parte del socio ai danni della società.

Sia che si invochi il limite generale derivante dai doveri di correttezza e buona fede, sia che si invochi la figura dell’abuso del diritto, è certo che i soci non possano esercitare i propri diritti di controllo con modalità tali da recare intralcio alla gestione societaria ovvero da svantaggiare la società nei rapporti con imprese concorrenti: una scelta puramente emulativa o vessatoria o antisociale di tempi e modi dei diritti di controllo farebbe, infatti, esorbitare questi ultimi dallo scopo per cui sono stati concessi dall’ordinamento ai soci stessi.

Fra le esigenze che possono legittimare la società a richiedere il rispetto di determinate condizionalità e modalità di accesso e, financo, di precludere la visione di taluni documenti o informazioni in essi riportati, rientrano la salvaguardia dei dati e del know-how aziendale e la prevenzione di un uso strumentale del diritto di ispezione da parte del socio; segnatamente, non indirizzato a fini di controllo individuale, quanto piuttosto a scopi concorrenziali, avuto riguardo alla concreta posizione del socio richiedente che renda verosimili e seri i rischi di utilizzo abusivo della documentazione riservata.

Qualora le circostanze facciano presagire un comportamento del socio contrario a buona fede nei rapporti sociali, è ammissibile che la società subordini l’esercizio del diritto di ispezione a specifiche proprie richieste. Tra queste, l’oscuramento dei dati sensibili, anche di natura commerciale, sulle copie dei documenti maggiormente rilevanti ovvero la firma di impegni di non disclosure da parte del socio. Tuttavia, tali prassi devono trovare giustificazione, in concreto, dal pregiudizio che potrebbe conseguire alla società dalla divulgazione a terzi delle informazioni oggetto di ostensione al socio ovvero dall’utilizzo delle stesse da parte del medesimo. Ciò a maggior ragione poiché l’assenso da parte degli amministratori della società ad una richiesta di ispezione pretestuosa potrebbe esporre gli amministratori a responsabilità verso la società per i danni ad essa arrecati dall’indebito uso delle informazioni da parte del socio.

Al di là delle limitazioni derivanti dall’operatività del principio di buona fede e correttezza, l’ingiustificato procrastinarsi del rifiuto da parte degli amministratori all’accesso del socio alla documentazione sociale vale, di per sé, ad integrare il periculum in mora che giustifica l’emissione di un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., poiché il ritardo lede il diritto di controllo del socio medesimo sull’amministrazione della società e l’esercizio dei poteri connessi sia all’interno della società che mediante eventuali iniziative giudiziarie.

Proprio in quanto fondamentale strumento per l’esercizio dei poteri di controllo spettanti al socio non amministratore, il diritto alla consultazione ed eventuale estrazione di copie deve intendersi riferito a tutti i libri sociali e documenti relativi alla gestione. Quindi, integra una seria e grave lesione di tale diritto anche la preclusione dell’esame di taluni soltanto dei documenti richiesti.

20 Ottobre 2022

Diritto di ispezione del socio di s.r.l.: abuso del diritto e azione cautelare

Il secondo comma dell’articolo 2476 c.c. attribuisce ai soci di s.r.l. che non partecipano all’amministrazione il diritto di ricevere dagli amministratori informazioni sullo svolgimento degli affari sociali, il diritto di consultare i documenti relativi all’amministrazione, al fine di acquisire ogni informazione ed ogni documentazione utile alla valutazione della situazione patrimoniale ed economico-finanziaria della società. Detto diritto si qualifica come potestativo e può essere finalizzato non solo all’esercizio dell’azione di responsabilità, ma anche al soddisfacimento di una qualunque prerogativa del socio.

Per quanto ampie siano le facoltà connesse all’esercizio del diritto di ispezione, quest’ultimo, al pari di ogni altro diritto soggettivo, dev’essere esercitato in conformità ai doveri di correttezza e buona fede oggettiva, espressione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 della Costituzione. Di conseguenza, anche tale diritto incontra un limite generale nell’abuso del diritto.

L’azione cautelare volta alla tutela del diritto di ispezione – per quanto assai ampio – suppone comunque, come tutte, che sussista interesse ad agire, cioè che quel diritto sia negato o contestato: non può richiedersi in sede cautelare la tutela di un diritto ispettivo che non è stato negato, contestato od il cui esercizio non sia stato ostacolato dalla società obbligata.

30 Giugno 2022

Nullità e abuso del diritto di pegno su partecipazioni sociali

La nullità del pegno per violazione del divieto di patto commissorio non può che derivare da un vizio genetico dell’atto costitutivo di una garanzia che sia congegnata in modo tale da attribuire al creditore la proprietà del bene vincolato nell’ipotesi di inadempimento con modalità che espongano il debitore al rischio di perdere un bene di valore superiore al credito. Come tale, deve necessariamente emergere dall’analisi del contenuto delle pattuizioni negoziali da cui l’effetto sostanziale vietato dalla norma promana, a prescindere dalle modalità di buona o mala fede con cui le parti le abbiano attuate.

L’attribuzione del diritto di voto in assemblea al creditore pignoratizio costituisce elemento connaturale al pegno di partecipazioni sociali specificamente previsto dagli artt. 2352 e 2471 bis c.c., espressione dello spossessamento della peculiare res data in garanzia e non equivale affatto all’attribuzione al creditore pignoratizio di un diritto dominicale sulla partecipazione che possa comportare la violazione del divieto di patto commissorio.

L’abuso del diritto di pegno delineato dall’art. 2793 c.c. presuppone che il creditore pignoratizio nell’esercizio dei diritti derivanti dal possesso della res acquisita in funzione di garanzia ne stia pregiudicando l’integrità ed il valore e, in tema di pegno su partecipazioni sociali, stia, dunque, esercitando il diritto di voto in assemblea in modo tale da pregiudicare l’interesse sociale alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Non è sufficiente a configurare l’abuso del diritto di pegno da parte del creditore la semplice designazione nell’organo amministrativo di componenti di sua fiducia, ma è necessaria anche la prova che costoro stiano tenendo condotte predatorie, lesive dell’integrità del patrimonio sociale, su istruzioni e nell’interesse esclusivo del soggetto che li ha designati.