Sulla corretta individuazione dell’amministratore di fatto
La figura del c.d. “amministratore di fatto” presuppone che la persona abbia in concreto svolto attività di gestione (e non anche meramente esecutive) della società e che tale attività abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale. La corretta individuazione della figura richiede l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, che si verifica quando le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, non si siano esaurite nel compimento di atti di natura eterogenea e occasionale, essendo la sistematicità sintomatica dell’assunzione di quelle funzioni; l’influenza dell’amministratore di fatto si deve tradurre, per essere rilevante, nell’ingerenza concreta nella gestione sociale che abbia il carattere della sistematicità.
Sull’amministratore di fatto di s.r.l.
L’amministratore di fatto viene positivamente individuato quando si realizza la compresenza dei seguenti elementi: a) mancanza di un’efficace investitura assembleare; b) attività di gestione svolta in maniera continuativa, non episodica od occasionale; c) autonomia decisionale interna ed esterna, con funzioni operative e di rappresentanza. La prova della posizione di amministratore di fatto implica, per ciò, l’accertamento della sussistenza di una serie di indici sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, tipizzati dalla prassi giurisprudenziale, quali il conferimento di deleghe in favore dell’amministratore di fatto in fondamentali settori della attività di impresa, la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la costante assenza dell’amministratore di diritto, la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti, il conferimento di una procura generale ad negotia, quando questa, per l’epoca del conferimento o per il suo oggetto, concernente l’attribuzione di autonomi e ampi poteri, fosse sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico od occasionale.
L’amministratore di fatto e il danno derivante dall’irregolare tenuta delle scritture contabili
L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. – con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione (artt. 2393, co. 4; 2941, n. 7; 2949; 2394, co. 2, c.c.) e dei limiti al risarcimento (art. 1225 c.c.) ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali.
L’amministratore di fatto di una società di capitali, pur privo di un’investitura formale, esercita sotto il profilo sostanziale nell’ambito sociale un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione.
Il danno risarcibile a causa di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione del bilancio – che sia stata idonea a occultare pregresse operazioni illecite o a celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484 n. 4 c.c. per la perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge – è rappresentato, non già dalla misura del falso, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi di sono occultate o che grazie a quei falsi sono state consentite. Tali condotte, dunque, devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.
Quanto alle giacenze di magazzino, la natura contrattuale della responsabilità dell’amministratore sociale consente alla società che agisca per il risarcimento del danno, o al curatore in caso di sopravvenuto fallimento di quest’ultima, di allegare l’inadempimento dell’organo gestorio quanto, restando a carico del convenuto l’onere di dimostrare l’utilizzazione delle merci nell’esercizio dell’attività di impresa.
Ambito di applicazione dell’art. 2560, co. 2, c.c. sui debiti relativi all’azienda
Al termine dell’affitto d’azienda, l’affittante risponde in solido con l’affittuario delle obbligazioni assunte da quest’ultimo durante l’affitto, dovendosi pur in tal caso applicare l’art. 2560, co. 2, c.c., secondo una lettura della norma che trova indiretta conferma nell’art. 104 bis, co. 6, l.fall., il quale stabilisce oggi che la retrocessione al fallimento di aziende o rami di aziende non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli artt. 2112 e 2560 c.c.: il che significa che, pur nell’ipotesi di affitto di azienda attuato nell’ambito della procedura concorsuale, in mancanza di detta norma di contenuto derogatorio, si applicherebbe l’art. 2560 c.c., che determinerebbe, all’esito della retrocessione dell’azienda affittata, la responsabilità della procedura per i debiti sorti a carico dell’affittuario.
Il rigore dell’art. 2560, co. 2, c.c., per il quale l’acquirente dell’azienda non risponde dei debiti contratti dall’alienante, se non risultano dalle scritture contabili obbligatorie, cessa di essere applicabile nel caso limite dell’identità soggettiva – sostanziale, se non formale – tra alienante e acquirente, la quale è significativa di una conoscenza diretta dei rapporti giuridici in fieri, estranea alla ratio protettiva del successore a titolo particolare nell’azienda, sottesa all’art. 2560 c.c., come nel caso di un conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale.
Non configurabilità della figura di socio di fatto di una società di capitali; la società di fatto
Non sono giuridicamente configurabili le figure del socio co-fondatore di fatto e del socio di fatto in relazione ad una società di capitali regolarmente iscritta al registro delle imprese e costituita in base ad un formale contratto di società, in cui lo status di socio è stato legittimamente e pubblicamente acquisito da altri soggetti, al pari della formazione ed assunzione degli organi e cariche sociali, nel pieno rispetto delle prescrizioni di legge. Non può trovare spazio la figura del co-fondatore di fatto e del socio di fatto all’interno di una società regolare di capitali in cui la valida e legittima acquisizione di tali qualità soggettive è subordinata a formalità e attività non surrogabili con facta concludentia. Diverso è il caso in cui si ipotizzi la costituzione di un terzo soggetto giuridico collettivo di fatto e, quindi, non regolare, costituito tra due o più persone fisiche o tra una persona fisica e una società regolarmente costituita, fenomeno, quest’ultimo, la cui ammissibilità è riconosciuta.
Costituisce una società di fatto quella società il cui contratto non è formato da una manifestazione di volontà espressa, ma da una manifestazione tacita di volontà, che si desume dal comportamento concludente delle parti. La prova della sussistenza di una società di fatto può essere fornita con ogni mezzo, anche mediante presunzioni semplici. Il giudice deve valutare l’esteriorizzazione del vincolo sociale, cioè se i comportamenti posti in essere creino il ragionevole affidamento nei terzi dell’esistenza di una società. La sussistenza del contratto sociale di fatto può risultare, oltre che da prove dirette, concernenti i requisiti di cui all’art. 2247 c.c. (ossia gli apporti dei soci finalizzati all’esercizio congiunto dell’attività economica, l’esistenza di un fondo comune, la partecipazione ai profitti e alle perdite, l’affectio societatis), anche da manifestazioni esteriori dell’attività dei soci, quali reiterati finanziamenti o concessione di fideiussioni, comune contabilità, pubblicità con nomi congiunti, spendita del nome sociale e così via. Nell’ipotesi di società di fatto tra consanguinei, la prova diviene più rigorosa, dovendosi escludere che l’intervento del familiare nella vita aziendale possa essere motivato dalla c.d. affectio familiaris, bensì conseguente alla sola volontà di compartecipare all’attività commerciale secondo la c.d. affectio societatis.
Ai fini della prova della qualifica di amministratore di fatto occorre dimostrare l’esercizio, in modo continuativo e significativo, dei poteri tipici inerenti la funzione di amministratore. In particolare, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza. Tale prova implica, dunque, l’accertamento della sussistenza di una serie di indici sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (tali il conferimento di deleghe in favore dell’amministratore di fatto in fondamentali settori dell’attività di impresa; la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria; la costante assenza dell’amministratore di diritto; la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti; il conferimento di una procura generale ad negotia).
L’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire; ne consegue che non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto, il quale può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza. L’interesse ad agire sussiste quando dall’ipotetico accoglimento delle istanze possa conseguire un vantaggio giuridicamente apprezzabile per l’istante. In presenza di domanda di mero accertamento delle qualità di socio e/o di amministratore di fatto difetta l’interesse ad agire nel caso in cui vi sia stata estinzione, per sopravvenuta prescrizione, di qualsiasi ragione di credito o economico-patrimoniale in riferimento alle predette qualifiche sociali.
La modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali. In particolare, in base al principio della c.d. teleologica complanarità, il diritto così introdotto in giudizio deve attenere alla medesima vicenda sostanziale già dedotta, correre tra le stesse parti, tendere alla realizzazione, almeno in parte, salva la differenza tecnica di petitum mediato, dell’utilità finale già avuta di mira dalla parte con la sua iniziativa giudiziale e dunque risultare compatibile con il diritto originariamente dedotto in giudizio. [In applicazione di tali principi, il Tribunale ha ritenuto che ove l’attore che ha agito per il mero accertamento delle sue qualità di socio co-fondatore di fatto e di co-amministratore di fatto e/o socio di fatto proponga nel corso del giudizio domanda di condanna al pagamento di somme dovute in ragione del dedotto rapporto societario, tale ultima domanda è inammissibile in quanto non configura una mera emendatio libelli bensì una domanda nuova, ulteriore, diversa e aggiuntiva rispetto a quella inizialmente proposta in citazione. Ha ritenuto, infatti, che tali domande introducono temi di indagine e di decisione inediti e più ampi rispetto a quelli inizialmente prospettati, dilatando oltre misura la primigenia materia del contendere, con significativa compressione dei diritti di difesa delle controparti].
Quantificazione del danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare ex art. 2486, terzo comma, c.c.
La figura dell’amministratore di fatto ricorre allorché un soggetto si sia ingerito nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, sia pure irregolare o implicita, sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale. [ LEGGI TUTTO ]
Responsabilità dell’amministratore di fatto per i danni cagionati alla società fallita
L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c. in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali, a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.
A rivestire la qualità di amministratore di fatto può essere anche un terzo totalmente estraneo alla società e alla sua compagine, poiché a rilevare è la prova che vi sia, per facta concludentia, l’intromissione nella direzione dell’impresa sociale, con istruzioni agli amministratori ufficiali e condizionamento delle scelte operative e gestionali, nonostante l’assenza di un’investitura formale quale amministratore da parte dell’assemblea dei soci. L’estensione della qualifica soggettiva di amministratore presuppone l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione e la “significatività e continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri dell’organo di gestione, ma richiedono in ogni caso l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. L’accertamento deve tenere conto di una serie di indici sintomatici tipizzati dalla prassi giurisprudenziale, quali il conferimento di deleghe in favore dell’amministratore di fatto in fondamentali settori dell’attività di impresa, la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la costante assenza dell’amministratore di diritto, la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti, il conferimento di una procura generale ad negotia, quando questa, per l’epoca del suo conferimento e per il suo oggetto, concernente l’attribuzione di autonomi e ampi poteri, fosse sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale.
I criteri per l’individuazione dell’amministratore di fatto
Le norme di legge che disciplinano l’attività degli amministratori di una società di capitali, dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell’amministrazione dell’ente, sono applicabili non soltanto alle persone fisiche immesse, nelle forme stabilite dalla legge, mediante atto negoziale di preposizione gestoria nelle funzioni di amministrazione, ma anche a coloro che si siano di fatto ingeriti nella gestione della società in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea, sia essa irregolare o implicita. Ne consegue che i responsabili delle violazioni di dette norme vanno individuati, anche nell’ambito del diritto privato, non sulla base della loro qualificazione formale, bensì con riguardo al contenuto delle funzioni concretamente esercitate; con l’ulteriore, necessaria, precisazione che l’individuazione della figura del cosiddetto “amministratore di fatto” presuppone che la persona abbia in concreto svolto attività di gestione (e non anche meramente esecutive) della società e che tale attività abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale. Al fine di far emergere il soggetto che effettivamente esercita le funzioni gestorie e di individuare, quindi, l’amministratore di fatto è possibile far riferimento a elementi quali: (i) assenza di una efficace investitura assembleare; (ii) attività esercitata (non occasionalmente ma) continuativamente; (iii) funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto; (iv) autonomia decisionale (non necessariamente surrogatoria, ma almeno cooperativa non subordinata) rispetto agli amministratori di diritto.
Se il curatore non specifica il titolo della domanda nell’azione di responsabilità, si presume che abbia esercitato congiuntamente le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c.
L’amministratore di fatto viene positivamente individuato quando si realizza la compresenza dei seguenti elementi: (i) mancanza di un’efficace investitura assembleare; (ii) attività di gestione svolta in maniera continuativa, non episodica od occasionale; (iii) autonomia decisionale interna ed esterna, con funzioni operative e di rappresentanza. La prova della posizione di amministratore di fatto implica, perciò, l’accertamento della sussistenza di una serie di indici sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti, ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, tipizzati dalla prassi giurisprudenziale, quali il conferimento di deleghe in favore dell’amministratore di fatto in fondamentali settori dell’attività di impresa, la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la costante assenza dell’amministratore di diritto, la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti, il conferimento di una procura generale ad negotia, quando questa, per l’epoca del suo conferimento e per il suo oggetto, concernente l’attribuzione di autonomi e ampi poteri, fosse sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale.
L’efficacia probatoria del contenuto della relazione redatta dal curatore esige di essere diversamente valutata a seconda della natura delle risultanze da essa emergenti: la relazione, in quanto formata da pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fa piena prova fino a querela di falso degli atti e dei fatti che egli attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza (ivi comprese le dichiarazioni dei terzi relativamente e limitatamente alla loro realtà effettuale). Tale rilevanza probatoria non assiste, invece, contro le contestazioni opponibili dai controinteressati, il contenuto delle dichiarazioni dei terzi nella loro intrinseca veridicità, che resta quindi liberamente valutabile in ordine alla effettiva rispondenza di quanto dichiarato (e dal curatore soltanto recepito e riferito) alla verità storica dei fatti.
L’azione esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c.; la mancata specificazione del titolo nella domanda fa presumere che il curatore abbia inteso esercitarle congiuntamente entrambe.
Grava sull’amministratore l’onere di dare prova dell’esatto adempimento dei propri doveri e quindi della conformità delle operazioni economiche generatrici di esborsi agli interessi della società.
Requisiti per l’accertamento della responsabilità dell’amministratore di fatto
L’amministratore di fatto viene positivamente individuato quando si realizza la compresenza dei seguenti elementi: a) mancanza di un’efficace investitura assembleare; b) attività di gestione svolta in maniera continuativa, non episodica od occasionale; c) autonomia decisionale interna ed esterna, con funzioni operative e di rappresentanza. La prova della posizione di amministratore di fatto implica, per ciò, l’accertamento della sussistenza di una serie di indici sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, tipizzati dalla prassi giurisprudenziale, quali il conferimento di deleghe in favore dell’amministratore di fatto in fondamentali settori dell’attività di impresa, la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la costante assenza dell’amministratore di diritto, la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti, il conferimento di una procura generale ad negotia, quando questa, per l’epoca del suo conferimento e per il suo oggetto, concernente l’attribuzione di autonomi e ampi poteri, fosse sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale.”