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Onerosità dell’attività di amministratore di s.r.l.

La presunzione di onerosità dell’incarico di amministratore di una società stabilita dall’art. 1709 c.c. non esonera l’amministratore che chiede la condanna della società al pagamento del proprio compenso dall’onere di dare prova delle attività concretamente svolte nell’interesse della società.

Clausola simul stabunt simul cadent e revoca dell’amministratore

Non c’è abusivo esercizio della clausola simul stabunt simul cadent (nel caso di specie con la previsione che, al venire meno della maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione, decade l’intero consiglio di amministrazione) nel caso di revoca dell’amministratore se le dimissioni dei consiglieri sono sorrette da valide ragioni e non strumentali alla revoca.

Anche ove dovesse ritenersi fondata la responsabilità di uno dei consiglieri per la promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. (nel caso di specie non provata), con riguardo alla quantificazione del danno, il risarcimento del danno potrebbe essere parametrato, al più, al compenso dovuto per il periodo di preavviso. Non può invece  considerarsi come componente automatica, nel conteggio del compenso annuale, anche la porzione variabile del corrispettivo.

Competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa nelle controversie tra la società e gli amministratori o sindaci per il pagamento dei compensi

Sussiste la competenza della Sezione Specializzata in materia di Impresa in merito alle controversie tra la società e gli amministratori o i sindaci riguardanti le somme dovute in relazione all’attività dagli stessi esercitata quali organi della società; tale materia, infatti, è ricompresa nell’ambito dei rapporti societari di cui all’art. 3 comma 2 lett. a) D.L.vo n. 168/2003, tenuto conto sia della formulazione letterale della norma, sia della sua ratio tendente a concentrare la materia societaria innanzi al giudice specializzato.

Compenso dell’amministratore di s.r.l.: modifica unilaterale da parte dei soci e necessità di un’accettazione espressa

La decisione dei soci di sospendere il compenso riconosciuto dall’assemblea in favore del presidente del CdA non esprime alcuna efficacia rispetto al rapporto con l’amministratore.  Si tratta infatti di un atto che, fermi i suoi effetti interni alla società, non può incidere unilateralmente sul contratto di amministrazione, da ricondursi al rapporto di mandato. Solo la comunicazione di tale decisione all’amministratore e l’accettazione da parte di quest’ultimo può modificare i termini del rapporto obbligatorio, salva la possibilità per l’amministratore in questione di rinunciare all’incarico. Pertanto, in mancanza di prova della comunicazione e dell’accettazione della sospensione del compenso, attesa l’inefficacia della decisione dei soci rispetto al rapporto in corso con l’amministratore,  lo stesso mantiene il suo diritto al corrispettivo.

L’accettazione di un pagamento parziale non fa di per sé presumere la rinuncia alla parte residua del credito, essendo facoltà del creditore, ai sensi dell’articolo 1181 c.c., accettare un pagamento parziale, senza necessità di riserva per il residuo. In mancanza di prova circa la rinuncia espressa, la mera circostanza che la creditrice accetti pagamenti parziali non consente di presumere che la stessa  abbia così intenzione di rinunciare alla quota di credito rimasta insoluta.

Azione di responsabilità del fallimento nei confronti dell’ente pubblico socio unico, dell’amministratore e del revisore

Il codice della crisi di impresa sembra riproporre la questione della configurabilità della responsabilità da direzione e coordinamento, ai sensi dell’art. 2497 c.c., in capo ad un ente pubblico territoriale, che, pur privo di interesse imprenditoriale proprio, persegua l’interesse generale all’erogazione del servizio pubblico avvalendosi dello strumento della partecipazione in una società di diritto comune, risolta dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 19, co. 6, d.l. 78/2009, laddove esclude, all’art. 2, lett. h), e all’art. 13, d.l. 118/2021, in vigore dal 25 agosto 2021, lo Stato e gli enti pubblici territoriali dal novero dei soggetti destinatari della norma di responsabilità dettata dall’art. 2497 c.c. nell’ambito della disciplina della crisi del gruppo di imprese e torna ad evidenziare la complessità della posizione del socio ente pubblico territoriale, tenuto a perseguire, anche nell’attività di direzione e coordinamento delle società partecipate, l’interesse pubblico primario che può, però, non essere in sintonia con l’interesse imprenditoriale del gruppo e delle singole società.

Il carattere rituale di un lodo statutariamente definito “irrituale”

Qualora davanti al medesimo ufficio giudiziario pendano più cause connesse per pregiudizialità, il giudice della causa pregiudicata non può sospenderla ex art. 295 c.p.c., ma deve rimetterla al presidente del tribunale ai sensi dell’art. 274 c.p.c., perché questi valuti l’opportunità di assegnarla al giudice della causa pregiudicante, a nulla rilevando che i due giudizi siano soggetti a riti diversi, soccorrendo, in tal caso, la regola dettata dall’art. 40 c.p.c.

In caso di domanda di nullità del lodo, la qualificazione dell’arbitrato come rituale o irrituale costituisce un fatto impeditivo, modificativo o estintivo del diritto tutelato, non potendo quindi qualificarsi come domanda o eccezione “nuova”, in quanto non si tratta di questione attinente alla competenza ma di una questione preliminare di merito.

Ai fini della qualificazione di un lodo come rituale o irrituale, nel caso in cui procedimento seguito sia del tutto assimilabile ad un giudizio contenzioso, (e cioè nell’ipotesi in cui, ad esempio, l’arbitro autorizzi lo scambio di memorie e di repliche, nomini un ctu, fissi l’udienza di precisazione delle conclusioni, disattenda un’eccezione di prescrizione e rigetti una domanda riconvenzionale), il lodo deve essere considerato rituale a prescindere da qualsiasi indicazione contenuta nello statuto sociale.

I caratteri dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall.

L’azione esercitata ai sensi dell’art. 146 l. fall. compendia in sé le ordinarie azioni di responsabilità verso l’organo amministrativo e quello preposto al controllo previste a tutela della società e dei terzi creditori. In particolare, la responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l’azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c., con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cc.dd. operativi), ferma l’applicazione della business judgement rule, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti, rispondono non già con la diligenza del mandatario, ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, co. 2, c.c. Ha, invece, natura extracontrattuale l’azione volta alla tutela dei creditori sociali, verso i quali gli organi amministrativi e di controllo hanno l’obbligo generale di agire correttamente e secondo buona fede, sì da rispondere dei comportamenti dolosi o colposi che abbiano arrecato ai creditori un pregiudizio suscettibile di ristoro patrimoniale. Tali azioni, peraltro, non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione.

14 Febbraio 2022

Natura e prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore

L’azione esperita dal curatore del fallimento, prevista dall’art. 146 l. fall., ha una duplice natura: ha natura contrattuale l’azione di responsabilità nei confronti di amministratori, liquidatori, sindaci e revisori esercitata a tutela della società, e natura extracontrattuale, l’azione a tutela dei creditori sociali, con tutte le conseguenze in tema di onere della prova. E infatti, con riguardo all’azione di responsabilità contrattuale, ove il curatore fallimentare deduca l’irregolare tenuta della contabilità e la distrazione di ingenti risorse della società, sarà onere dei convenuti provare l’adempimento agli obblighi su ciascuno gravanti in ragione del ruolo ricoperto e la non imputabilità a sé dei fatti dannosi. Con riguardo, invece, all’azione aquiliana, la curatela ha l’onere di dimostrare la condotta dolosa o colposa posta in essere dai convenuti, il danno arrecato ai creditori mediante tale condotta ed il nesso di causalità tra la prima ed il secondo.

Nell’ambito dell’azione di responsabilità contro gli amministratori, non è consentito sindacare il c.d. merito gestorio, poiché l’obbligazione contratta dagli stessi è di natura professionale, si tratta di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, con la conseguenza che non sono addebitabili agli amministratori gli esiti infausti di una scelta gestionale, purchè questa sia stata posta in essere secondo criteri di ragionevolezza, previa assunzione di ogni elemento conoscitivo utile alla stessa, da valutarsi ex ante, ossia sulla base delle circostanze note al momento delle condotte in esame.

Le azioni di responsabilità verso amministratori e sindaci si prescrivono in cinque anni a norma dell’art. 2949 c.c. Tale termine decorre dal compimento della condotta lesiva, per i sindaci, e dalla cessazione della carica, per gli amministratori, in virtù della sospensione del decorso del termine di prescrizione delle azioni rivolte a questi ultimi per tutta la durata dell’incarico, prevista dall’art. 2941, n. 7, c.c. L’azione dei creditori sociali, che pure il curatore è legittimato ad esercitare unitamente all’azione sociale di responsabilità, presuppone poi la conoscibilità delle condizioni per la sua proposizione, dunque l’emersione dell’incapienza patrimoniale della società che legittima i creditori all’esercizio dell’azione di responsabilità in oggetto, in applicazione del principio generale espresso dall’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere. Occorre, quindi, guardare non già al momento in cui l’insufficienza patrimoniale si verifica, ma a quello in cui si manifesta, diventando oggettivamente conoscibile da parte dei creditori, alla stregua di fatti sintomatici di assoluta evidenza. In difetto della prova del fatto obiettivo che avrebbe reso conoscibile l’incapienza ai creditori sociali prima del fallimento (prova di cui sono onerati i convenuti), si presume che tale conoscibilità coincida con il fallimento della società.

Le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili, purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale; è, altresì, necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e, cioè, dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.

In caso di condotte distrattive degli amministratori di società di capitali, potenzialmente fonte di responsabilità penale degli stessi per bancarotta fraudolenta, anche all’azione civile si applica il più lungo termine di prescrizione del reato decorrente dal giorno in cui è divenuta conoscibile l’incapienza patrimoniale della società, essendo a tal fine sufficiente l’astratta configurabilità del reato in relazione alla condotta lesiva ascritta agli amministratori medesimi.

14 Febbraio 2022

Responsabilità dell’amministratore nei confronti del terzo e responsabilità del liquidatore ex art. 2495 c.c.

In tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali nei confronti del terzo (ex art. 2395 c.c. nelle s.p.a. ed ex art. 2476, co. 7, c.c. nelle s.r.l.), l’inadempimento contrattuale della società può al contempo integrare gli estremi di un illecito extracontrattuale imputabile ai suoi amministratori in danno dell’altro contraente, riconducibile all’alveo dell’art. 2043 c.c., sebbene non si tratti di una conseguenza automatica. Ai fini dell’azione individuale di responsabilità è irrilevante che il comportamento dell’amministratore sia stato conforme agli interessi della società o a vantaggio di questa.

L’inadempimento contrattuale di una società di capitali non implica automaticamente la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente, atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, richiede la prova della condotta dolosa o colposa degli amministratori, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente.

In tema di liquidazione di società di capitali, la responsabilità del liquidatore verso i creditori sociali prevista dall’art. 2495 c.c. ha natura aquiliana, gravando sul creditore rimasto insoddisfatto di dedurre ed allegare che la fase di pagamento dei debiti sociali non si è svolta nel rispetto del principio della par condicio creditorum.

3 Febbraio 2022

Responsabilità da direzione e coordinamento degli enti pubblici diversi dallo Stato

L’art. 2497 c.c. si applica nei casi in cui la costituzione della società in house o comunque la partecipazione in società degli enti pubblici – diversi dallo Stato – sono attuate non solo per scopi lucrativi ma anche per la realizzazione di finalità istituzionali che richiedono lo svolgimento di attività economica o finanziaria da realizzare attraverso la società partecipata. La norma di interpretazione autentica dell’art. 2497 c.c. di cui all’art. 19 del d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009 ha espressamente escluso solo lo Stato azionista dalla nozione di “ente” contemplata dalla norma richiamata.

La società in house è istituto di derivazione comunitaria, prima enunciato in sentenze della Corte di Giustizia e poi modellato nelle Direttive UE del 2014, nn. 23, 24 e 25, con il preciso scopo di limitare le ipotesi che consentono di derogare alle regole della concorrenza del mercato mediante il ricorso a forme di affidamenti diretti di compiti relativi alla realizzazione di opere pubbliche o alla gestione di servizi pubblici. L’affidamento diretto non comporta alcuna lesione del principio di concorrenza se ed in quanto, in osservanza al principio di libera amministrazione delle pubbliche autorità, esso non rappresenta una esternalizzazione ma una autoproduzione di servizi tramite un soggetto che, sostanzialmente – atteso che l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi – non è diverso dell’ente pubblico.

Sussiste una società in house qualora vi siano i seguenti presupposti: (i) il capitale sociale è integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieta la cessione delle partecipazioni ai soggetti privati; (ii) la società esplica statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo tale che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; (iii) la gestione è per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile. Tali requisiti devono sussistere contemporaneamente e risultare da precise disposizioni statutarie in vigore all’epoca cui risale la condotta illecita.

L’espressione “interesse imprenditoriale proprio o altrui” porta a escludere dall’ambito di responsabilità ex art. 2497 c.c. solo le ipotesi nelle quali sia perseguito un interesse meramente privato (quale l’interesse personale degli amministratori/cariche pubbliche della società/ente controllante) e a ricomprendervi tutte le altre ipotesi in cui è stato perseguito un interesse extrasociale rispetto a quello della società eterodiretta. Con l’art. 19 del d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009, il legislatore ha chiarito che “l’art. 2497, primo comma del codice civile si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria”; l’ampiezza dell’espressione “finalità di natura economica o finanziaria” è tale da ricomprendere gli obiettivi che l’ente pubblico territoriale persegue attraverso la costituzione di società in house o comunque delle società cui partecipa.

La titolarità del pacchetto di maggioranza è elemento sufficiente per integrare la presunzione di cui all’art. 2497 sexies c.c.

La sospensione necessaria del processo civile ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile e a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale.

Il consulente tecnico d’ufficio può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse.