Cessione d’azienda stipulata dall’amministratore di s.r.l. in violazione dei limiti del suo potere gestorio
La conclusione, da parte dell’amministratore di società a responsabilità limitata, di un contratto di cessione di azienda in violazione dei limiti del suo potere gestorio rileva unicamente sul piano dei rapporti interni e non si traduce in una invalidità del negozio, salvo che si provi che i terzi hanno intenzionalmente agito in danno della società, secondo quanto previsto dall’art. 2475 bis c.c.
Al fine di ottenere una dichiarazione di nullità del contratto di cessione d’azienda per contrarietà a norme imperative ex art. 1418 c.c., non è sufficiente la produzione nel giudizio civile della sentenza pronunciata in sede penale (avente ad oggetto le medesime condotte poste in essere dall’amministratore della società cedente) se questa ha dichiarato estinto il reato contestato per intervenuta prescrizione. Infatti, il giudicato penale è vincolante nel giudizio civile in ordine all’accertamento dei fatti materiali solo ove si tratti di sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento, ma non nel caso di sentenza meramente dichiarativa dell’intervenuta prescrizione del reato. La pronuncia di non luogo a procedere per estinzione del reato viene ad escludere lo stesso accertamento dell’illecito penale e quindi non prova nulla circa la responsabilità degli imputati per quel fatto. Per queste ragioni, il giudice civile non è vincolato al rispetto della sentenza e deve interamente e autonomamente rivalutare il fatto in contestazione, potendo ripartire la responsabilità in modo diverso rispetto a quanto stabilito dal giudice penale.
Nell’ipotesi di vendita di azienda altrui si applicano i principi generali previsti all’art. 1478 c.c., secondo cui tale vendita non è nulla o inefficace, bensì è valida con efficacia obbligatoria (e non traslativa), facendo sorgere in capo al venditore l’obbligo di procurare l’acquisto del bene altrui venduto al compratore. In ogni caso, l’acquirente che era ignaro dell’altruità dell’azienda al momento dell’acquisto può, in conformità con quanto previsto dall’art. 1479 c.c., chiedere la risoluzione del contratto.
Sulla revoca del liquidatore e l’impugnazione del bilancio finale di liquidazione. Nullità della delibera assembleare di approvazione del bilancio redatto in modo contrario alla forma legale di amministrazione della società.
Le contestazioni intese ad ottenere la revoca della nomina del Curatore speciale non hanno incidenza alcuna sulla validità degli atti da lui compiuti, posto che la revoca non può che operare ex nunc, restando salva, ad ogni effetto, l’attività già compiuta. L’eventuale impugnazione del decreto di nomina, ove ammissibile, avrebbe dovuto essere proposta col diverso mezzo reclamo alla Corte di Appello ex art. 739 c.p.c.
In ordine alla particolare impugnazione (reclamo) del bilancio di liquidazione ex art. 2492 co. 3 c.c. si deve osservare come la stessa costituisca un mezzo straordinario per impugnare lo stesso ove già adottato ed “eseguito”, come consentito dalla legge (art. 2492), dall’organo amministrativo. Nel caso in cui appare approvato un bilancio dell’ultima fase di amministrazione liquidatoria con piano di riparto finale ancora da eseguirsi, ed in effetti poi non eseguito i soci dissenzienti possono sicuramente impugnare “a monte” la delibera di approvazione di un riparto che non condividono, risultando anzi dubbia, ove non lo facciano, la loro facoltà di contestare “a valle” l’esecuzione conforme di quel riparto.
Nelle società di capitali, al contrario che nelle società di persone, la precisa articolazione dei compiti degli organi e la loro potenziale, e nel caso effettiva, distinzione soggettiva, non consente di ritenere alcun effetto sanante della assemblea plenaria, restando la stessa convocata a deliberare su oggetto illecito, ovvero su una proposta avanzata in forma contraria all’ amministrazione in forma legale della società (nel caso di specie il bilancio era stato redatto da uno solo dei due amministratori con poteri paritari e congiunti risultando così l’adozione del suddetto bilancio una violazione di precetto inderogabile costituente causa di nullità della delibera).
Diritto dell’amministratore di società di capitali alla percezione del compenso
Il principio di cui all’art. 2389 c.c., secondo il quale gli amministratori di s.p.a. hanno diritto ad un compenso per l’attività svolta per conto della società, è applicabile analogicamente anche agli amministratori di s.r.l.
L’ammontare del compenso spettante all’amministratore di società di capitali per l’opera prestata è stabilito all’atto della nomina o dall’assemblea con successiva ed autonoma deliberazione e, in difetto di tali manifestazioni formali, deve essere giudizialmente determinato su domanda dell’amministratore, anche mediante liquidazione equitativa, in applicazione dell’art. 1709 c.c., rimanendo prive di effetti eventuali altre forme di determinazione, tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge.
Non esiste un compenso minimo degli amministratori, tanto è vero che essi possono accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguato al lavoro svolto, anche se, in tali ipotesi, vi deve essere il loro consenso, ancorché tacito. Del resto, il diritto al compenso degli amministratori è disponibile e, come tale, può costituire oggetto di rinuncia, pure tacita, purché inequivoca. Ed invero, in tema di compenso in favore dell’amministratore di una società di capitali, che abbia agito come organo, legato da un rapporto interno alla società, e non nella veste di mandatario libero professionista, la facoltà dell’amministratore di insorgere avverso una liquidazione effettuata dall’assemblea della società in misura inadeguata, per chiedere al giudice la quantificazione delle proprie spettanze, viene meno, vertendosi in materia di diritti disponibili, qualora detta delibera assembleare sia stata accettata e posta in esecuzione senza riserve.
Ai fini della determinazione giudiziale del compenso dell’amministratore, il giudice può avvalersi di una pluralità di criteri, tra cui la situazione societaria, la resa economica, l’impegno dell’amministratore, i criteri adottati in precedenti esercizi, il compenso corrente nel mercato per analoghe prestazioni in relazione a società di medesime dimensioni [nel caso di specie, il Tribunale ha applicato gli artt. 15 ss. della tabella C ex d.m. 140/2012 disciplinanti il compenso spettante ai commercialisti per le attività di amministrazione, consulenza e redazione bilancio].
Legittimazione a impugnare la delibera del CdA e interesse ad agire per l’accertamento della nullità di un contratto
L’affermazione dell’obiettivo di ottenere la rimozione dall’ordinamento di una delibera contraria a norma imperativa equivale all’affermazione di un generico interesse all’attuazione della legge; di contro, l’interesse ad impugnare (nell’accezione di cui agli artt. 1421 c.c. e 100 c.p.c.) richiede la prospettazione dell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica. Non è coerente con il sistema ammettere all’impugnativa chi abbia contribuito direttamente a determinare la causa di nullità (art. 157 c.p.c.), né potrebbe mai riconoscersi un valido interesse ad agire nell’obiettivo di ottenere, con la pronuncia di annullamento, l’eliminazione dal mondo giuridico degli effetti di una condotta già definitivamente accertata, in sede giudiziale erariale, come produttiva di danno, stante la prevalenza dell’interesse pubblicistico al perseguimento della pretesa recuperatoria dell’indebito erariale. Ove il deliberato consiliare, di contenuto autorizzativo, costituisca un atto prodromico alla stipulazione di un successivo contratto – fonte, a sua volta, dell’effettivo spostamento patrimoniale indebito – non può ammettersi l’impugnativa sine die della stessa delibera che ha esaurito i suoi propri effetti con la stipulazione del successivo contratto.
Legittimazione dell’amministratore a impugnare la delibera consiliare invalida e delegabilità del potere gestorio nel CdA
L’art. 2388 cc, che disciplina per le spa i casi di invalidità delle delibere del consiglio di amministrazione, deve ritenersi applicabile in via analogica anche alle srl, in applicazione di un principio generale di sindacabilità -a iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci i cui interessi siano stati direttamente incisi- delle decisioni dell’organo amministrativo di società di capitali contrarie alla legge o allo statuto.
E’ sussistente l’interesse all’impugnazione in capo all’amministratore assente o dissenziente per far valere l’invalidità di una delibera del CdA contraria alla legge o allo statuto anche solo per evitare che l’eventuale delibera, in difetto di suo annullamento, risulti comunque idonea a produrre effetti nell’ambito endo-societario quale precedente organizzativo passibile, ove non rimosso, di rappresentare un modello per future deliberazioni, con conseguente interesse del componente del Cda a richiederne l’accertamento di invalidità con forza di giudicato e il conseguente annullamento, onde evitare il riprodursi di vicende gestorie a suo dire in contrasto con le regole statutarie.
Nel quadro normativo di riferimento, la delegabilità dei poteri del CdA non è affatto la regola ma solo una delle possibili scelte statutarie o assembleari: secondo il disposto dell’art.2381 cc secondo comma, infatti, il CdA “può” delegare le proprie attribuzioni a un suo componente “se lo statuto o l’assemblea lo consentono”,
con la conseguenza che il funzionamento interamente collegiale dell’organo gestorio, lungi dall’essere di per sé assurdo e prodromico a una sicura paralisi dell’ente, rappresenta normativamente una modalità di organizzazione del tutto fisiologica la cui scelta è rimessa allo statuto o all’assemblea, in definitiva dunque ai soci. [Nel caso di specie il Tribunale di Milano ha annullato la delibera del CdA che conferiva poteri ad un consigliere senza la previa autorizzazione assembleare prevista statutariamente per tale delega].
Revoca di amministratore di società di capitali in assenza di giusta causa: conseguenze ed onere della prova
L’amministratore non ha diritto al mantenimento dell’incarico e, in base all’art. 2383, 3° comma c.c., pacificamente applicabile alle s.r.l., l’assemblea può revocare l’amministratore dall’incarico in qualunque tempo e ad nutum, non essendo il requisito della giusta causa elemento costitutivo della validità e/o dell’efficacia della deliberazione di revoca, ma rilevando – invero – il requisito della presenza della giusta causa sotto l’eventuale profilo risarcitorio.
Le ragioni della revoca devono essere enunciate espressamente e specificatamente nella deliberazione, senza facoltà di integrazione in sede giudiziale.
Quando l’amministratore revocato agisce in giudizio, contestando la sussistenza della giusta causa e facendo valere il diritto al risarcimento del danno, la posizione sostanziale di attore spetta alla società, onerata della prova della giusta causa di revoca secondo i caratteri avanti indicati, mentre l’amministratore è il convenuto sostanziale.
Azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare ed eventuale concorso dell’amministratore di fatto
Nel contesto dell’azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l.f., sussiste una presunzione iuris tantum di decorrenza del termine di prescrizione quinquennale ex art. 2394 c.c. dalla dichiarazione di fallimento, spettando all’amministratore convenuto dare la prova contraria della diversa data anteriore d’insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale. La prova di tale insorgenza deve pur sempre avere ad oggetto fatti sintomatici di assoluta evidenza.
La figura dell’amministratore di fatto ricorre per la sola circostanza dello stabile esercizio di funzioni gestorie, non soltanto quando la nomina alla carica amministrativa risulti irregolare, ma anche in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società. Per essere rilevanti, le attività gestorie (svolte concretamente) devono presentare carattere sistematico e non si devono esaurire soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale.
Qualora una società di capitali subisca, per effetto dell’illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché tale danno possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non già anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio e obbliga il responsabile a risarcirne il danno, costituendo l’incidenza negativa sui diritti del socio nascenti dalla partecipazione sociale un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito.
L’azione di responsabilità nelle s.r.l.: legittimazione attiva e rilevanza dell’ulteriore qualità di amministratore giudiziario
La legittimazione attiva alla proposizione dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori della s.r.l. non è una competenza esclusiva del socio ma è aggiuntiva rispetto a quella della società, della quale il socio assume la veste di “sostituto processuale”. Anche quando l’iniziativa è di un singolo socio, la pronuncia risarcitoria sarà sempre in favore della società (e infatti l’art. 2476, co. 6 c.c. chiarisce che, accanto all’azione in esame, il socio potrà anche esperire l’azione di responsabilità per danni diretti).
Nell’azione di responsabilità avente ad oggetto l’attività svolta in qualità di amministratore della società, deve tenersi conto altresì della qualità ricoperta di amministratore giudiziario del capitale e del patrimonio aziendale con riferimento alla necessità dell’ottenimento di eventuali autorizzazioni della competente autorità giudiziaria, per il compimento di una serie di atti. Ai fini dell’individuazione dei poteri dell’amministratore, dei limiti al relativo esercizio e, quindi, dell’eventuale negligenza nello svolgimento dell’attività, è rilevante la qualità di ausiliario del giudice rivestita dal professionista preposto all’amministrazione.
Sequestro conservativo nei confronti degli amministratori
Ai fini della concessione del sequestro conservativo, ricorre il requisito del fumus boni juris quando sia accertata, con un’indagine sommaria, la probabile esistenza del credito, restando riservato al giudizio di merito ogni altro accertamento in ordine alla sua effettiva sussistenza e al suo ammontare. Tale accertamento si risolve in una prognosi di fondatezza della pretesa del creditore.
Alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori danno luogo a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato un danno al patrimonio sociale rendendolo incapiente, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti. L’irregolare tenuta della contabilità e redazione dei bilanci integrano una violazione dei doveri dell’amministratore, potenzialmente, ma non necessariamente, foriera di danno per la società. Eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4, c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge; ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato non già dalla misura del falso, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi si sono occultate o che, grazie a quei falsi, sono state consentite. Tali condotte, dunque, devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.
In tema di reati fallimentari, i consulenti commercialisti o esercenti la professione legale concorrono nei fatti di bancarotta quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell’imprenditore o degli amministratori della società, forniscano consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolgano attività dirette a garantire l’impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui proposito criminoso.
Il timore, cui si riferisce la norma di cui all’art. 671 c.p.c., deve essere fondato – cioè supportato dalla presenza o di elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, oppure di elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti dispositivi, idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio –, nonché riferito alla perdita della garanzia del credito e, quindi, alla eventualità che detto patrimonio subisca alterazioni tali da compromettere, in caso di inadempimento, la realizzazione coattiva del credito.
Costituzione di parte civile nei confronti dell’amministratore infedele partecipante all’attività di direzione e coordinamento e azione civile di responsabilità ex art. 2497, secondo comma, c.c.
La costituzione di parte civile nel processo penale avente ad oggetto la contestazione di una condotta distrattiva da parte di un amministratore della società concerne, sotto il profilo civilistico, sia gli inadempimenti ai doveri di amministratore della società considerata “uti singula” sia gli inadempimenti di quei medesimi doveri eventualmente commessi quale partecipe all’attività di direzione e coordinamento svolta dalla holding, essendo la condotta inadempiente sempre la stessa, così come i doveri violati e i soggetti danneggiati. Conseguentemente, poiché la coincidenza di petitum, causa petendi e parti delle azioni promosse in sede civile e penale determina l’applicazione dell’effetto estintivo previsto implicitamente dall’art. 75, primo comma, c.p.p., l’azione di responsabilità ex art. 2497, secondo comma, c.c. proposta in sede civile nei confronti del medesimo amministratore in ragione della sua partecipazione all’attività di direzione e coordinamento abusivamente svolta dalla holding dovrà essere dichiarata estinta d’ufficio.