La responsabilità degli amministratori di s.p.a.: limite all’insindacabilità del merito delle scelte gestionali e riparto dell’onere della prova.
In tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali per i danni cagionati dalla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (cd. “business judgement rule”) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia “ex ante”, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni previste, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere (Cass.civ. Sez. 1, Sent. n. 15470 del 22/06/2017).
La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che questa ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. In particolare, spetta all’attore l’onere della allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, di cui chiede, in nome proprio ma nell’interesse della società, il ristoro, e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente.
Condizione di efficacia dell’attività processuale del curatore e quantificazione del danno per illecita prosecuzione dell’attività
Al fine di imputare all’amministratore colpevole il danno effettivamente derivato dall’illecita prosecuzione dell’attività a seguito del verificarsi di una causa di scioglimento, occorre confrontare i bilanci, vale a dire quello relativo al momento in cui si è realmente verificata la causa di scioglimento e quello della messa in liquidazione (ovvero, in mancanza, del fallimento), dopo avere effettuato non solo le rettifiche volte a elidere le conseguenze della violazione dei criteri di redazione degli stessi, ma anche quelle derivanti dalla necessità di porsi nella prospettiva della liquidazione, visto che proprio alla liquidazione, se si fosse agito nel rispetto delle norme, si sarebbe dovuti giungere.
L’autorizzazione del giudice delegato a promuovere azione giudiziale o a resistere all’altrui azione è da ritenersi quale condizione di efficacia dell’attività processuale del curatore. Ne consegue che l’autorizzazione ad agire o a resistere data nel successivo giudizio d’impugnazione produce la sanatoria con effetto ex tunc del vizio di mancata autorizzazione.
Efficacia probatoria del verbale dell’assemblea ordinaria
Il verbale di assemblea ordinaria di una società di capitali ha efficacia probatoria poiché documenta quanto avvenuto in sede di assemblea (data in cui si è tenuta, identità dei partecipanti, capitale da ciascuno rappresentato, modalità e risultato delle votazioni, eventuali dichiarazioni dei soci) in funzione del controllo delle attività svolte anche da parte dei soci assenti e dissenzienti. Tuttavia, non trattandosi di atto dotato di fede privilegiata, i soci possono far valere eventuali sue difformità rispetto alla realtà effettuale con qualsiasi mezzo di prova, con la conseguenza che, se i soci non assolvano a detto onere probatorio su di essi incombente, non possono mettere in discussione quanto documentato dal verbale.
Dalla delibera dell’assemblea dei soci di s.r.l. che, rimuovendo ex post i limiti del potere rappresentativo degli amministratori, faccia propri ex tunc gli effetti degli atti compiuti dall’amministratore in violazione dei limiti derivanti dal mandato conferitogli non consegue la sottrazione dell’amministratore al rischio dell’azione sociale di responsabilità, atteso che il socio di minoranza assente o dissenziente può esperirla ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c. Tale azione, infatti, può essere solo oggetto di rinuncia o transazione da parte della società con le maggioranze prescritte dall’art. 2476, co. 5, c.c.
Irregolare tenuta delle scritture contabili e azione di responsabilità
Eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4 c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge, ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato, all’evidenza, non già dalla misura del “falso”, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi di sono occultate o che grazie a quei falsi sono state consentite. Tali condotte, dunque, devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.
In caso di azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare, il danno non deve essere automaticamente identificato nella differenza tra attivo e passivo fallimentare. Può essere individuato in via presuntiva (art. 1226 c.c.) nella differenza fra attivo e passivo solo in caso di radicale impossibilità di ricostruire le vicende societarie per mancanza o assoluta inattendibilità delle scritture contabili e a condizione che sia allegato e dimostrato uno specifico inadempimento, imputabile all’amministratore, tale da determinare specifici effetti pregiudizievoli – c.d. “inadempimento qualificato” – ma che non può consistere nell’omessa tenuta delle scritture contabili, in quanto la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina.
La regolazione del compenso degli amministratori delle società di capitali e il termine di prescrizione del diritto
La regolazione del compenso degli amministratori delle società di capitali è rimessa in primo luogo allo statuto e, solo se il compenso non è stabilito in quella sede, vi può provvedere l’assemblea. Qualora lo statuto o l’assemblea non prevedano alcun compenso o lo stesso sia determinato in modo inadeguato, l’amministratore può domandarne al giudice la determinazione, anche in via equitativa, purché alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte, non essendo sufficiente da sola l’indicazione del compenso stabilito per esercizi sociali di anni diversi.
Il diritto al compenso dell’amministratore è soggetto al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949 c.c., rispetto al quale non opera la decorrenza dalla cessazione del rapporto, trattandosi di regola che vale solo rispetto a prestazioni lavorative che rientrino nell’ambito di tutela di cui all’art. 36 Cost.
La responsabilità degli amministratori per irregolare tenuta della contabilità
Il thema probandum, nell’ambito dell’azione di responsabilità ex art. 146 l.f., si articola nell’accertamento di tre elementi: l’inadempimento di uno o più degli obblighi specifici previsti dalla legge o dallo statuto e/o dell’obbligo generale di diligenza previsto dall’art. 2392 c.c., il danno subito dalla società e il nesso causale, mentre il danno risarcibile sarà quello causalmente riconducibile, in via immediata e diretta, alla condotta (dolosa o colposa) dell’agente sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante, dunque commisurato in concreto al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, positivo o omissivo, non fosse stato posto in essere.
In forza del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, il giudice, investito di un’azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori, non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione, valutandone, così, l’opportunità e la convenienza. La gestione della società, infatti, in quanto attività d’impresa, comporta fisiologicamente un alto margine di rischio e richiede il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all’organo amministrativo in relazione alla scelta delle operazioni da intraprendere. Ne consegue che, se fosse possibile compiere una valutazione sull’opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un’indebita ingerenza dell’autorità negli affari sociali, in pregiudizio all’autonomia ed indipendenza dell’organo amministrativo e con probabile paralisi del normale svolgimento dell’attività d’impresa. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori.
L’irregolare e anche disordinata tenuta della contabilità integra una violazione dei doveri dell’amministratore potenzialmente, ma non necessariamente, foriera di danno per la società, idonea a fondare solo una pronuncia di condanna generica al risarcimento che non investe la sussistenza del danno.
Nelle ipotesi in cui eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci abbiano rappresentato lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite, ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4, c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge, il danno risarcibile è rappresentato, all’evidenza, non già dalla misura del falso, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi si sono occultate o che, grazie a quei falsi, sono state consentite. Tali condotte dunque devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.
Mancata revoca dell’amministratore infedele da parte della società
Deve ritenersi incontestato che la fiducia della società nei confronti dell’amministratore non sia venuta meno laddove la prima, pur consapevole di condotte connotate da malafede del secondo, non abbia provveduto a revocarlo. [ LEGGI TUTTO ]
Competenza del tribunale e requisito della prova scritta nel decreto ingiuntivo relativo al diritto al compenso di amministratore
È infondata la prospettazione dell’incompetenza della sezione ordinaria del Tribunale ad emettere il decreto ingiuntivo relativo al diritto al compenso di un membro del consiglio di amministrazione di società cooperativa in quanto, nonostante si tratti di pretesa inerente a rapporto sociale – materia di competenza della Sezione Specializzata Impresa ex art. 3 d.lgs. n. 168/2003 –, “il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni all’ufficio giudiziario, da cui l’inammissibilità del regolamento di competenza, richiesto d’ufficio ai sensi dell’art. 45 c.p.c.; [ LEGGI TUTTO ]
Durata del termine di prescrizione delle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali e sussistenza di reati penali e fallimentari
La sussistenza di reati compiuti dagli amministratori di società determina (ai sensi dell’art. 2947, co. 1, c.c.) l’applicazione del maggior termine di durata della prescrizione all’azione civile di responsabilità, con la conseguenza che il termine non è più quello quinquennale ma il diverso e più lungo previsto dalla specifica fattispecie penale.
In caso di fallimento della società, il termine ordinario di prescrizione quinquennale per l’azione sociale di responsabilità (art. 2393, co. 4 c.c.) e per quella dei creditori sociali (artt. 2394 e 2949 c.c.) subisce – per effetto della sussistenza di reati fallimentari (quali ad esempio quello di bancarotta) – l’incremento del periodo di durata (6 o anche 10 anni) connesso e conseguente al reato compiuto, applicandosi in tal caso il maggior termine di prescrizione previsto per la fattispecie illecita compiuta.
In ipotesi di addebiti specifici di condotte lesive e pregiudizievoli nei confronti degli organi gestori, la Curatela non può ricorrere a criteri equitativi di liquidazione del danno come quello della differenza tra attivo e passivo del fallimento.
A prescindere dalla attendibilità, comunque, resta fermo che le dichiarazioni di circostanze sfavorevoli contenute nelle scritture contabili hanno un valore confessorio che conferisce una efficacia probatoria contra se rispetto all’amministratore che le ha redatte: conseguentemente è onere dello stesso convenuto dimostrare analiticamente le movimentazioni del denaro e delle vendite attraverso le relative pezze di appoggio; onere probatorio che deve essere assolto in modo ancora più rigoroso se si considera un quadro di sostanziale inadempimento di basilari obblighi gestori.
Azione di responsabilità e finanziamenti in favore della società soggetta a direzione e coordinamento
In tema di azione di responsabilità esercitata dalla società avverso i componenti del consiglio di amministrazione, difetta il nesso causale tra l’addebito mosso a quest’ultimi – ai quali era stata attribuita una condotta negligente nel non aver richiesto la restituzione dei finanziamenti erogati in conto futuro aumento di capitale a favore della società controllata, pur avendo questa deciso di non procedere all’aumento di capitale – e il danno lamentato, consistente nella differenza tra i finanziamenti erogati ed il ricavato dalla vendita delle azioni in cui erano stati convertiti i finanziamenti a seguito di un successivo aumento di capitale della controllata. Deve infatti osservarsi che, anche ove fosse stata formulata, la richiesta di restituzione dei finanziamenti nei confronti della società eterodiretta non avrebbe potuto trovare seguito, considerati il carattere postergato, ex art. 2497 c.c., dei versamenti eseguiti dalla controllante e la situazione di illiquidità della controllata, che avrebbe potuto determinare il suo fallimento, qualora si fosse proceduto con la restituzione dei finanziamenti, con conseguente totale svalutazione della partecipazione della prima nel capitale sociale della seconda.