Amministratore di comodo e doveri gestori
L’amministratore di società, in forza della mera accettazione dell’incarico, è gravato dagli specifici obblighi contemplati dalla legge o dallo statuto nonché, dal generale dovere di esercitare le proprie funzioni con diligenza e in assenza di conflitto di interessi in vista del perseguimento dell’oggetto sociale. In particolare, l’accettazione del mandato gestorio comporta per l’amministratore l’obbligo di attivarsi affinché i beni e le risorse di pertinenza della società vengano destinati al perseguimento dei fini sociali e non siano in altro modo distratti o distolti. Pertanto, non esclude la responsabilità per mala gestio l’ aver assunto solo “formalmente” la carica di amministratore e di non aver, di fatto, gestito la società; ché, anzi, l’inerzia dell’amministratore di diritto e la circostanza che lo stesso, pur avendo accettato la carica di amministratore unico, abbia omesso le attività – anche di controllo – dovute in ragione della assunzione del mandato gestorio vale di per sé a fondare la responsabilità anche per eventuali sottrazioni o distrazioni di risorse sociali poste in essere da terzi senza l’opposizione del soggetto che, per legge, è gravato dal dovere di preservare l’integrità del patrimonio sociale e la destinazione dello stesso all’attività di impresa.
Il cosiddetto amministratore di comodo (o “testa di legno”) non può mai invocare tale sua posizione (di non concreta attività di gestione) per essere ritenuto indenne da responsabilità conseguente ad atti di mala gestio compiuti o, comunque, non impediti dal medesimo.
È amministratore di fatto chi, senza valido titolo – ad esempio, per nomina irregolare, per usurpazione dei poteri o per assenza di una formale investitura – gestisce, da solo o anche con l’amministratore formale, la società, esercitando con sistematicità e completezza un potere di fatto corrispondente a quello degli amministratori di diritto.
Annullabilità del contratto concluso dall’amministratore unico di s.r.l. in conflitto di interessi
Gli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 2475 ter c.c. debbono essere interpretati nel senso che, affinché ricorra la situazione di conflitto di interessi, è necessario un rapporto di incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante (o di un terzo che egli a sua volta rappresenti) e tale rapporto – da riscontrare non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento specifico al singolo atto, e che costituisce causa di annullabilità per vizio della volontà negoziale (sempre che detta situazione sia conosciuta o conoscibile dall’altro contraente) – è ravvisabile rispetto al contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano l’utile di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro.
L’art. 2475 ter c.c. presuppone che l’amministratore, portatore di un interesse in conflitto con la società, abbia avuto la possibilità di influire sul contenuto negoziale dell’atto. Al contrario, ove egli si sia per ipotesi limitato a recepire all’interno del contenuto negoziale la volontà dei soci cristallizzatasi in una decisione della società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della norma: tale soluzione appare coerente con la norma di ordine generale di cui all’art. 1395 c.c., che esclude l’annullabilità del contratto con sé stesso in caso di predeterminazione del contenuto del contratto da parte dello stesso rappresentato.
L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società parte del contratto che si assume viziato e il suo amministratore non può farsi discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società – che sostiene di aver stipulato il contratto contro la propria volontà – e il suo amministratore e della riconoscibilità della stessa da parte dell’altro contraente.
L’azione individuale del socio e del terzo richiede un danno diretto e non meramente riflesso
L’inadempimento contrattuale di una società di capitali non implica automaticamente la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente ai sensi dell’art. 2395 c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente.
L’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisce solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato direttamente dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società; la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale, la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.
L’inattività dell’assemblea, la perdita del capitale sociale e l’inadempimento contrattuale posto in essere dall’amministratore non integrano, di per sé, i presupposti della disposizione, in quanto la prima inerisce al mero funzionamento degli organi sociali e non comporta necessariamente un danno alla società o al socio, mentre il capitale è un bene della società e non dei soci, i quali dalle perdite subiscono soltanto un danno riflesso a causa della diminuzione di valore della propria partecipazione e, infine, il mancato rimborso della somma presa a mutuo dalla società può comportare la responsabilità dell’amministratore soltanto quando derivi da un illecito colposo o doloso dell’organo dell’inadempimento del mutuo.
Per potersi fondatamente esperire l’azione individuale ex art. 2395 c.c. è necessario che il danno patito non sia conseguente a un generale depauperamento del patrimonio sociale ma sia singolarmente apprezzato con riferimento al pregiudizio del singolo creditore.
Successivamente alla dichiarazione di fallimento della società, l’azione dei creditori sociali di cui all’art. 2476, co. 6, c.c. diviene azione di massa; essa, fino a che la procedura è in corso, è esercitabile esclusivamente dal curatore fallimentare e non dai singoli creditori (art. 2394 bis c.c.; 146 l.fall., 255, lett. b), c.c.i.i.).
I soci di s.r.l. titolari di un terzo del capitale sono legittimati a convocare l’assemblea
Con riferimento alla tempestività della convocazione dell’assemblea di s.r.l., salvo che l’atto costitutivo non contenga una disciplina diversa, deve presumersi che l’assemblea sia validamente costituita ogni qual volta i relativi avvisi di convocazione siano stati spediti agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell’adunanza (o nel diverso termine eventualmente in proposito indicato dall’atto costitutivo), ma tale presunzione può essere vinta nel caso in cui il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, egli non abbia affatto ricevuto l’avviso di convocazione o lo abbia ricevuto così tardi da non consentirgli di prendere parte all’adunanza, in base a circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione in concreto sono riservati alla cognizione del giudice di merito.
Nelle società a responsabilità limitata, il potere di convocare l’assemblea, in caso di inerzia dell’organo di gestione, deve riconoscersi, nel silenzio della legge e dell’atto costitutivo, ai soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale, stante, da un lato, il mancato richiamo, nella disciplina di tali società, dell’art. 2367 c.c., dettato per le società per azioni e non applicabile in via analogica, attesa la forte differenza tra i due tipi societari, e, dall’altro, l’inutilizzabilità dell’art. 2487 c.c., in quanto relativo alla nomina e revoca non degli amministratori ma dei liquidatori. Tale legittimazione dei soci non può, tuttavia, dirsi esente da limiti: il potere del socio (o dei soci) è, infatti, condizionato, trovando il proprio presupposto legittimante nella inerzia degli amministratori.
L’inapplicabilità alle s.r.l. dell’art. 2367 c.c. si spiega non per il fatto che per tali società non sia necessario il requisito dell’inerzia dell’organo gestorio, ma per il fatto che non è prevista, in caso di inerzia dell’organo gestorio, la facoltà dei soci di ricorrere al presidente del tribunale. Resta, dunque, imprescindibile, anche per le s.r.l., l’inerzia dell’organo gestorio quale presupposto per la legittimazione alla convocazione assembleare da parte dei soci che rappresentano il terzo del capitale sociale, a nulla rilevando che, in tema di delibera di revoca dell’amministratore, tale inerzia sia presumibile.
Nel giudizio di impugnazione di una deliberazione assembleare si verifica la cessazione della materia del contendere e non si può procedere alla dichiarazione di nullità o all’annullamento della deliberazione impugnata, quando risulti che l’assemblea dei soci, regolarmente riconvocata, abbia validamente deliberato sugli stessi argomenti della deliberazione impugnata. La nuova deliberazione, emessa dall’assemblea nuovamente convocata e regolarmente costituita, deve avere lo stesso oggetto della prima e dalla stessa deve risultare, quanto meno implicitamente, la volontà dell’assemblea di sostituire la deliberazione invalida, ponendo in tal modo in essere un atto sostitutivo ovvero ratificante di quello invalido ed una rinnovazione sanante con effetti retroattivi.
Adeguatezza degli assetti organizzativi a prevenire la commissione di reati
L’organo amministrativo è specificamente tenuto ad adottare un assetto organizzativo adeguato anche alla prevenzione dei reati onde evitare che siano perpetrati illeciti penali nell’esecuzione dell’attività di impresa e deve, quindi, in mancanza di prova delle misure assunte a tale scopo, rispondere del danno derivato al patrimonio sociale dall’applicazione della sanzione amministrativa conseguente alla commissione del reato. [Nel caso di specie, il Tribunale ha condannato l’intero consiglio di amministrazione di una società a responsabilità limitata per avere, due soli di essi, commesso reato di corruzione di un funzionario della P.A. accertato in sede penale].
In materia di responsabilità da reato degli enti, il fallimento della società non determina l’estinzione dell’illecito amministrativo previsto dal d. lgs. 231/2001 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento, mentre il credito dell’amministrazione finanziaria, sorto per effetto dell’accertamento di un fatto anteriore all’apertura della procedura concorsuale, è soggetto alle regole del concorso e deve essere fatto valere mediante insinuazione al passivo come credito munito del privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato ai sensi dell’art. 27, co. 2, d. lgs. 231/2001. La sanzione irrogata nel corso del fallimento potrà legittimare la pretesa creditoria dello Stato al recupero dell’importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo. Si tratta, peraltro, di credito assistito da privilegio, la cui funzione pratica sarebbe assai limitata se tale causa di prelazione non potesse essere azionata in caso di fallimento della società.
Ove la transazione stipulata tra il creditore e uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.
Responsabilità degli amministratori di s.r.l. nei confronti della società
L’art. 2392 c.c. contiene una regola applicabile anche agli amministratori della società a responsabilità limitata. L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti.
Responsabilità dell’intero CdA per condotte distrattive poste in essere da un singolo consigliere
Ove la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideate di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.
Ambito applicativo della clausola compromissoria statutaria
La clausola compromissoria contenuto nello statuto sociale di una società a responsabilità limitata, a norma della quale: “qualsiasi controversia che dovesse insorgere tra i soci , o tra i soci e la società, avente ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, oppure nei confronti di amministratori, sindaci e liquidatori o tra questi, o da essi promossa”, è applicabile anche al caso in cui il soggetto che abbia tenuto la condotta oggetto di censura, pur non rivestendo più la qualifica di amministratore al tempo in cui la causa sia stata radicata, abbia compiuto gli atti censurati nella qualità di amministratore, ciò comportando un’estensione della vigenza temporale della disposizione statutaria, che appare idonea a radicare la competenza anche per vicende pregresse, nonostante la cessazione della carica di amministratore.
La compromettibilità in arbitri del diritto al compenso dell’amministratore di s.r.l.
Deve ritenersi opponibile l’eccezione di patto compromissorio avverso la domanda di pagamento del compenso spettante per la carica di amministratore unico di società a responsabilità limitata, in quanto rispettosa dei dettami statuiti dagli artt. 806 ss. c.p.c. e tenuto conto che la domanda di compenso può senz’altro essere devoluta alla decisione arbitrale, non trattandosi di diritto indisponibile, né di fattispecie rientrante tra le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. Infatti, il rapporto che lega l’amministratore alla società è un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato né quale rapporto di lavoro subordinato, non essendovi un assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, né di collaborazione continuata e coordinata.