Quantificazione del danno per indebita prosecuzione dell’attività in presenza di una causa di scioglimento
Il danno arrecato alla società ed ai creditori sociali per l’indebita prosecuzione dell’attività malgrado la sussistenza di una causa di scioglimento, nell’impossibilità di un più preciso conteggio, può quantificarsi, secondo i criteri consolidati nella più recente giurisprudenza di legittimità, nella differenza tra il patrimonio netto stimato alla data del fallimento, e quello stimato alla data del verificarsi della causa di scioglimento, dedotti quei costi che sarebbero stati sostenuti anche nella fase di liquidazione, e previa riclassificazione dei dati patrimoniali in prospettiva liquidatoria.
L’azione del terzo creditore ex art. 2476, comma 7 c.c.: onere della prova
La riconducibilità della responsabilità ex art. 2476, co. 7, c.c. allo schema della responsabilità aquiliana comporta che è sul creditore che agisce che grava l’onere di allegare in maniera specifica e di provare a) la addebitabilità agli amministratori, di omissioni e condotte in violazione degli obblighi specifici e dei doveri connessi alla carica rivestita; b) i pregiudizi patrimoniali diretti asseritamente subiti e, non ultimo, c) il nesso eziologico tra gli addebiti formulati ed i danni prospettati.
Azione sociale di responsabilità nella s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1 n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti.
L’azione sociale di responsabilità si configura, per consolidata giurisprudenza, come un’azione risarcitoria di natura contrattuale, derivante dal rapporto che lega gli amministratori alla società e volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del depauperamento cagionato dalla cattiva gestione degli amministratori e dalle condotte da questi posti in essere in violazione degli obblighi gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’obbligo di intervento preventivo e successivo. E’ onere della parte attrice allegare l’inadempimento sussistente in capo all’amministratore degli obblighi a lui imposti dalla legge e/o dall’atto costitutivo, nonché discendenti dal generale obbligo di vigilanza al fine di evitare il determinarsi di eventi dannosi.
La condotta dell’amministratore di s.r.l., equiparata per tale aspetto ai doveri che devono connotare il contegno degli amministratori di s.p.a., deve informarsi alla diligenza richiesta per la natura dell’incarico ed alle specifiche competenze del settore; trattasi, dunque, della speciale diligenza richiesta, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, al professionista e non, come previsto nei tempi precedenti alla riforma del diritto societario entrata in vigore il’1.1.2004, alla generica diligenza del mandatario.
Giova precisare che, ai fini della risarcibilità del danno, il soggetto agente, oltre ad allegare l’inadempimento dell’amministratore nei termini summenzionati, deve anche allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, che si estrinsechi nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro, nonché nella possibilità di ricondurre detta lesione alla condotta dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico.
La ripartizione dell’onere probatorio attribuisce alla parte attrice l’obbligo non solo di allegare l’inadempimento – nel caso di specie l’acquisto della società identificato come operazione antieconomica per la società e, dunque, lesiva del dovere di diligenza che impegna l’amministratore nei confronti della società stessa – ma anche l’onere di allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, causalmente connesso alla condotta dell’amministratore.
Il limite alla sindacabilità delle scelte gestorie dell’amministratore di s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci, ai sensi dell’art. 2487 c.c. in relazione all’art. 2393, co. 1, c.c. nel testo antecedente l’entrata in vigore del d. lgs., 17 gennaio 2003, n.3; la mancanza di tale presupposto, incidente sulla legittimazione processuale del rappresentante della società, può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1, n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti. Si ritiene che l’autorizzazione assembleare sia necessaria anche nelle società a responsabilità limitata in forza dell’applicabilità analogica dell’art. 2393 c.c. anche a questo tipo sociale.
La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c. Per quanto riguarda il nesso di causalità, deve ritenersi che un evento sia da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), nonché (in virtù del criterio della c.d. causalità adeguata) dando rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili.
All’amministratore di una società di capitali non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che valutazioni di tal sorta ineriscono alla discrezionalità imprenditoriale e ricadono nell’ambito di applicazione della c.d. business judgment rule, potendo essere al più fatte valere come giusta causa della revoca dell’amministratore e non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.
Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, pur presentando queste profili di rilevante alea economica.
È necessario che il giudizio dell’organo giudicante si limiti alla sola diligenza mostrata nell’apprezzamento preventivo e prudenziale dei margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere. Ne deriva che rileveranno, ai fini del riconoscimento dell’inadempimento all’obbligo di diligenza ex art. 1176, co. 2, c.c. da cui discende responsabilità contrattuale, unicamente le condotte omissive delle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Nella delimitazione del perimetro applicativo della c.d. business judgment rule occorre riferirsi ad alcune regole fondamentali riguardanti le facoltà decisionali degli stessi amministratori nella gestione della società. L’amministratore, difatti, è tenuto ad agire in modo informato e a operare con la cautela e la diligenza da lui esigibile ex art. 2392 c.c., deve decidere nei limiti di legge e operando non in conflitto di interessi.
Non può, tuttavia, affermarsi l’assoluta insindacabilità delle scelte di gestione dell’organo amministrativo, in quanto sussistono due ordini di limiti all’operatività della business judgment rule. Innanzitutto, la scelta di gestione è insindacabile ove legittimamente compiuta e, inoltre, essa non deve essere irrazionale. Per quanto concerne il primo limite all’applicazione del principio, è necessario operare un controllo sul processo decisionale che ha portato l’amministratore a compiere una determinata scelta. Relativamente al secondo limite, è necessario che la scelta sia definita come razionale e non irragionevole; ciò implica non solo che l’amministratore abbia posto in essere la diligenza esigibile in relazione al tipo di scelta e con le cautele, verifiche e informazioni necessarie, ma che sia ulteriormente necessario che queste abbiano condotto l’amministratore ad una scelta razionale e meditata.
Modalità di accertamento della responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori
L’accertamento giudiziale della responsabilità degli amministratori di una società di capitali è soggetto ad alcuni limiti, usualmente indicati con l’espressione business judgment rule (cfr., da ultimo, Cass., 15 luglio 2021, n. 20252).
In particolare, qualora l’operato degli amministratori non contrasti con specifiche norme di legge o di statuto, risultando invece solo genericamente pregiudizievole per la società, si richiede, ai fini dell’accertamento di una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori, che le decisioni assunte siano, già in una prospettiva ex ante, riconoscibili come errate da una persona dotata del grado di diligenza parametrato alla natura dell’incarico e alle competenze specifiche di ciascun amministratore.
Il che si traduce nella possibilità di configurare una responsabilità a carico degli amministratori esclusivamente rispetto a quelle condotte che, nel momento in cui sono state poste in essere, possano apparire avventate o imprudenti, vuoi perché contrarie a canoni di ragionevolezza, vuoi perché assunte in difetto delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive normalmente richieste in relazione alla scelta da compiersi (nella specie la Corte di Appello, in riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto foriero di responsabilità il comportamento dell’amministratore che, versando un sostanzioso acconto per un contratto, non aveva preteso l’inserimento di clausole specifiche a tutela della società)
La giurisdizione ordinaria per le azioni civili di responsabilità degli organi di amministrazione e controllo di società in house – providing
Coerentemente alla previsioni del T.U.S.P., la giurisdizione contabile avoca a sè le ipotesi di responsabilità dell’amministratore di società partecipata da ente pubblico in cui l’ente pubblico sia stato danneggiato direttamente dall’illecito, permanendo, invece, la giurisdizione ordinaria nelle ipotesi il cui il danno sia conseguenza indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio della società partecipata.
È, pertanto, la qualificazione del danno allegato, mediante l’identificazione del petitum mediato e immediato nella prospettazione della domanda, a qualificare l’evento di danno allegato e, conseguentemente, a determinare il riparto tra la giurisdizione civile alternativamente a quella contabile, atteso che il rapporto tra le due azioni, civile e contabile, si pone in tema di alternatività e non di esclusività, fatto comunque sempre salvo il divieto di duplicazione del risarcimento.
Illegittimi prelevamenti dal conto corrente della società compiuti dall’amministratore e azione di ripetizione ex artt. 2033 c.c.
La ripetizione di indebito ex art. 2033 c.c. presuppone l’avvenuta esecuzione di un pagamento non dovuto per inesistenza di un rapporto obbligatorio, il che si verifica o quando il solvens erroneamente ritiene l’esistenza di un’obbligazione cui è vincolato od in ipotesi di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione del negozio (qualunque esso sia) che fu elemento genetico del rapporto obbligatorio. La ripetizione di indebito ex art. 2036 c.c. presuppone l’avvenuta esecuzione di un pagamento non dovuto dal solvens, essendo altro il soggetto passivo del rapporto obbligatorio in realtà esistente.
Se il pagamento effettuato va direttamente collegato sotto il profilo eziologico ad un atto illecito dell’accipiens (come deduce parte attrice che chiede accertarsi la illegittimità dei prelevamenti dal conto corrente della società operati dall’ex amministratore), è l’atto illecito in sé che si pone quale unica genesi dell’esborso sostenuto dal solvens, esborso che, quale ingiusta diminuzione patrimoniale è da qualificare come danno risarcibile a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale a seconda della configurazione che la parte danneggiata voglia dare della responsabilità in base alla fonte delle obbligazioni (contratto di amministrazione o neminem laedere). Invero, se un diritto può eventualmente vantare la società è solo a titolo di risarcimento danni per responsabilità sociale da azionare verso il suo ex amministratore, che “in occasione” della sua carica ha prelevato somme destinate a sue personali.
L’azione di arricchimento ex art. 2041 c.c. ha natura residuale e non è esperibile quando sussiste nel sistema un rimedio tipico, nel caso di specie l’azione di responsabilità sociale ex art. 2476, comma 3, c.c.. L’eventuale intervenuta prescrizione della azione tipica ex art. 2476, comma, 3 c.c. non consente di considerare ammissibile la domanda ex art. 2041 c.c. posto che “l’azione generale di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato avrebbe potuto esercitare un’azione tipica e questa si è prescritta” (Cass. 30614/2018).
Dies a quo del termine di prescrizione dell’azione di responsabilità dei creditori sociali
L’azione dei creditori sociali si prescrive, ex art. 2949 c.c., nel termine di cinque anni, che decorre non dal momento del compimento degli atti gestori lesivi commessi dall’amministratore, bensì da quello (diverso e successivo) dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori sociali, dell’insufficienza del patrimonio della società ai fini del soddisfacimento delle loro ragioni di credito. Tale dies a quo non coincide necessariamente con la messa in liquidazione della società il cui amministratore è stato convenuto, in quanto la liquidazione può essere determinata alternativamente da una delle diverse cause di cui all’art. 2484 c.c. e rappresenta una fase in cui la società destina l’attivo proprio all’estinzione dei debiti sociali, in vista della chiusura dell’impresa. Il dies a quo non coincide necessariamente neppure con la data della notifica, da parte dei creditori-attori, di una diffida ad adempiere alla società, in quanto l’inadempimento di un’obbligazione da parte della società potrebbe dipendere dalle più svariate ragioni e non preludere necessariamente una situazione di incapienza patrimoniale. Il dies a quo può invece correttamente essere individuato nel giorno dell’infruttuoso esperimento di una procedura di espropriazione, promossa dai creditori, in quanto da tale momento può parlarsi con certezza di insufficienza del patrimonio sociale ai fini del soddisfacimento del credito.
Può essere considerato responsabile di atti di mala gestio, ai sensi dell’art. 2394 c.c., l’amministratore che ha compiuto un’operazione che si presentava ex ante come imprudente e incauta, in quanto conclusa con una società appena costituita e priva di patrimonio, con la cessione integrale dei propri unici asset immobiliari, in mancanza di garanzie, reali o personali.
Responsabilità dell’amministratore per danno diretto e responsabilità solidale del socio di s.r.l.
La norma di cui all’art. 2476, co. 7, c.c., nel prevedere il diritto al risarcimento dei danni spettante ai singoli soci che si assumano direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, regola, al pari di quella di cui all’art. 2395 c.c., una specie della fattispecie generale di responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2043 c.c. e dell’obbligo ivi fatto al danneggiante di risarcire i danni causati contra ius a terzi con atti e fatti non iure dati. Ciò in quanto mentre il rapporto che si forma tra la società di capitali e l’amministratore ha la sua fonte in un atto di nomina e di accettazione che instaura tra le parti un vero e proprio contratto avente ad oggetto la diligente gestione – secondo statuto e legge – della società, tale per cui il dovere dell’organo amministrativo di conservare e investire al meglio il patrimonio sociale ha natura contrattuale e il suo inadempimento – anche sotto il profilo degli oneri processuali di prova – è regolati dagli artt. 1218 e 1176 c.c., per quanto concerne il rapporto tra il socio e la società il diaframma della persona giuridica è tale da rendere i soci, nei rapporti con l’amministratore, terzi sia pur qualificati privi di un diretto e vincolante rapporto obbligatorio con il gestore del patrimonio sociale. Ne consegue che, ove i soci alleghino che determinati atti gestori abbiano inferto un danno diretto alla propria sfera giuridico-patrimoniale, incombe pienamente loro la prova piena della condotta illecita – anche sotto il suo profilo soggettivo di colpevolezza – nonché del danno e del nesso di causalità, pure diretta, tra i due termini della fattispecie risarcitoria.
L’azione individuale di responsabilità in materia societaria esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio, quanto al di fuori delle incombenze ad esso correlate, abbia determinato un danno che incida direttamente sul patrimonio del socio o del terzo. È, invece, irrilevante che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia ricollegabile ad un inadempimento della società, né, infine, che l’atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell’interesse della società e a suo vantaggio. Infatti, dalla formulazione dell’art. 2395 c.c. emerge chiaramente come l’unico dato significativo ai fini della sua applicazione sia costituito dall’incidenza del danno. La sussistenza di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente si pongono come elementi tanto necessari, quanto sufficienti al riguardo.
La responsabilità solidale del socio di s.r.l. di cui all’art 2476 co 8 c.c. prevede tre presupposti per il riconoscimento della responsabilità: l’alterità soggettiva del socio rispetto agli amministratori, il compimento da parte dell’amministratore di un atto dannoso e la qualità di socio del soggetto che decide od autorizza (intenzionalmente) il compimento dell’atto dannoso.
La responsabilità viene in rilievo non già per una semplice assenza di controllo e neppure, in ipotesi di effettiva esistenza dell’atto dannoso, per la mera riconducibilità di tale atto al socio, ma solo in caso di intenzionale decisione o autorizzazione, da parte del socio, di quegli specifici atti dannosi da intendersi quale piena coscienza di compiere quell’atto decisionale o autorizzatorio potenzialmente dannoso e perciò deve indicare la riferibilità psicologica dell’atto al socio. Per tale ragione, la responsabilità del socio è solidale con quella degli amministratori. Il socio per integrare la fattispecie di cui all’art. 2476, co. 8, c.c. deve aver compiuto atti o comportamenti tali da supportare intenzionalmente l’azione illegittima e dannosa poi posta in essere dagli amministratori: è sufficiente che vi sia la consapevolezza, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, da parte del socio dell’antigiuridicità dell’atto e che, nonostante ciò, costui partecipi alla fase decisionale finalizzata al successivo compimento di quell’atto da parte dell’amministratore. L’intenzionalità, in questa prospettiva, è costituita dalla piena coscienza di compiere quell’atto decisionale o autorizzatorio potenzialmente dannoso e, in definitiva, dalla riferibilità psicologica dell’atto al socio.
L’insanabilità dell’azione di responsabilità per l’errata indicazione dei legittimati passivi
Il giudizio ex art. 2395 c.c. instaurato nei confronti della società verso la quale non sono state formulate domande, e priva della citazione dei soggetti – componenti il Consiglio di Amministrazione – nei cui confronti le domande sono state proposte, è causa di rigetto della domanda.
Non può pertanto essere accolta la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo consigliere, in quanto la domanda, per come proposta, sconta un vizio di fondo costituito dalla citazione in giudizio di un unico soggetto (la società) che non è il legittimato passivo dell’azione; bensì, poteva essere, in caso di domanda formulata ex art. 2476 c.c. (caso diverso dal presente), il litisconsorte necessario dal lato attivo. L’ordine di integrazione del contraddittorio – richiesto ma disatteso dal giudice istruttore – ha infatti la funzione di garantire la regolarità del processo, ma non può sanare l’errata individuazione dei soggetti legittimati passivi della domanda, che attiene al merito del giudizio.