L’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità
L’azione ex art. 146 l.f. presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Dunque, una volta effettuata la scelta nell’ambito di ogni singola questione, egli soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili.
La responsabilità dell’amministratore sussiste solo in presenza (i) della violazione degli obblighi posti a suo carico dalla legge o dallo statuto, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) della presenza di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno, come da sempre rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza per ogni forma di responsabilità civile.
L’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento del danno nelle obbligazioni cosiddette “di comportamento” non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno sicché l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
Azione di responsabilità ed efficacia probatoria della sentenza ex art. 444 c.p.p.
Il mero richiamo ai capi di imputazione elaborati nell’ambito del processo penale per bancarotta fraudolenta conclusosi con la condanna dei convenuti in applicazione della pena su richiesta della parte ai sensi dell’art. 444 c.p.p. non è sufficiente ai fini dell’espletamento dell’onere probatorio posto in capo alla curatela attrice nel giudizio di responsabilità dell’amministratore di fatto e del socio “gestore” di s.r.l. per i danni cagionati alla società e ai creditori. Infatti, poiché la sentenza penale emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e divenuta irrevocabile è solo equiparata ad una pronuncia di condanna e, ai sensi dell’art. 445, co. 1-bis, c.p.p., non ha efficacia in sede civile o amministrativa, le risultanze del procedimento penale non sono vincolanti, ma possono essere liberamente apprezzate dal giudice civile ai fini degli accertamenti di sua competenza.
Esercizio dell’azione di responsabilità ex art. 146 l.f.: il parametro di riferimento è l’effettiva consistenza patrimoniale della società
Il curatore del fallimento di una società di capitali che esercita azione di responsabilità ex art. 146 l.f. nei confronti dell’amministratore unico e liquidatore della stessa deve dare prova degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e a quella del liquidatore differenziando tra gli obblighi specifici che gravano sull’amministratore di una società in bonis e i compiti del liquidatore dovendo consistere il parametro di riferimento per l’esercizio dell’azione nell’effettiva consistenza patrimoniale della società a prescindere dalla rappresentazione che della stessa viene data in bilancio non essendo, peraltro, il curatore fallimentare legittimato a proporre azione in vece di quei creditori che potrebbero aver subito un danno diretto per aver fatto affidamento su una consistenza patrimoniale insussistente che, se del caso, potranno tutelarsi con l’azione ex artt. 2395 e 2476, c. 7, c.c.
Nessun danno subiscono creditori (e società) da bilanci non veritieri.
Finanziamenti soci e rimborso preferenziale a danno dei creditori sociali
Allorché risulti provato che il ricorso da parte della società ad un finanziamento da parte di soci sia stato dovuto alla necessità di porre rimedio ad una situazione di perdurante crisi finanziaria, il danno di cui il curatore fallimentare, esercitando azione ai sensi dell’art. 146 L.F., chiede che la società sia reintegrata è direttamente ascrivibile al comportamento dell’amministratore che, avendo operato un rimborso (anche parziale) del finanziamento-soci, in spregio del divieto di cui all’art. 2467 c.c. e nella piena consapevolezza della crisi finanziaria in cui la società versava, sia contravvenuto ai doveri impostigli dagli artt. 2392 e 2394 c.c.
Onere della prova nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare
In una azione sociale di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti degli amministratori ex art. 146 l. fall., l’attore è tenuto alla specifica allegazione dell’inadempimento da parte degli amministratori. Per converso – a fronte di tale allegazione – gli amministratori convenuti sono onerati della prova del fatto estintivo del diritto fatto valere e, pertanto, del proprio adempimento.
Responsabilità degli amministratori e insindacabilità nel merito delle scelte gestorie
Dal carattere unitario dell’azione esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.f., che compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c., discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie delle azioni contrattuali, ha esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
In forza del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, il giudice investito di un’azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione. Se fosse possibile compiere una valutazione sull’opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un’indebita ingerenza dell’autorità negli affari sociali, in pregiudizio all’autonomia ed indipendenza dell’organo amministrativo e con probabile paralisi del normale svolgimento dell’attività d’impresa. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. Alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è dunque idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto.
Operatività della postergazione dei finanziamenti soci durante societate e prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c.
La ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall’art. 2467 c.c. per le società a responsabilità limitata consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società chiuse, determinati dalla convenienza per i soci di ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, ponendo i capitali a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento anziché in quella del conferimento.
Il credito del socio, in presenza di un finanziamento concesso nelle condizioni di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o laddove sarebbe stato ragionevole un conferimento, subisce una postergazione legale, la quale non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento con esclusione del diritto al rimborso, ma incide sull’ordine di soddisfazione dei crediti.
La postergazione opera come una condizione legale integrativa del regolamento negoziale circa il rimborso, la quale statuisce l’inesigibilità del credito in presenza di una delle situazioni previste dal secondo comma dell’art. 2467 c.c., con un impedimento (temporaneo) alla restituzione della somma mutuata sino a quando non sia superata la situazione descritta dalla norma.
La postergazione disposta dall’artt. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento, sino a quando non sia superata la situazione prevista dalla norma.
La società e, per essa, l’organo amministrativo può, ed anzi deve, rifiutare il rimborso del prestito sino a quando non siano venute meno le condizioni di cui all’art. 2467 c.c. Pertanto, il rimborso dei crediti in violazione dell’obbligo di postergazione integra la responsabilità degli amministratori che lo abbiano posto in essere.
Per verificare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2467, co. 2, c.c., si può far riferimento ai parametri previsti dall’art. 2412 c.c. in tema di limiti all’emissione di obbligazioni (ove si prevede il divieto di emissione di obbligazioni per importo superiore al doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato), considerato che, ai fini della verifica da compiere, assume rilievo anche il tipo di indebitamento, che è un indebitamento a breve termine, dunque destinato non già a finanziare investimenti, ma a pagare spese correnti.
L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c., con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione (artt. 2393, co. 4; 2941, n. 7; 2949; 2394, co. 2, c.c.) e dei limiti al risarcimento (art. 1225 c.c.) ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali. In tema di prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., se è vero che il momento in cui si esteriorizza l’insufficienza del patrimonio non coincide (necessariamente) con il determinarsi dello stato d’insolvenza – rispetto al quale può essere anteriore, perché, ad esempio, emergente da un bilancio depositato, ovvero posteriore, perché, ad esempio, accertato dagli organi fallimentari nel corso delle operazioni di valutazione dell’eventuale attivo o all’esito delle rettifiche delle voci bilancio risultate false –, vi è però una presunzione iuris tantum di coincidenza tra i due momenti e sarà onere dell’amministratore convenuto provare l’anteriorità del primo rispetto al secondo.
La circostanza che la documentazione conservata agli atti di una società non sia conforme alle prescrizioni di legge, per un verso, può costituire essa stessa un motivo di responsabilità per gli amministratori a carico dei quali sono posti gli obblighi legali di tenuta di dette scritture (sempre che ne sia derivato un danno per la società medesima, per i creditori sociali o per i terzi); per altro verso, non implica certo che i dati ivi riportati siano, necessariamente e a priori, da considerare inutilizzabili al fine di ricostruire, nei limiti del possibile, l’andamento degli affari sociali: specie quando ciò occorra proprio per valutare i concreti effetti dell’operato di quei medesimi amministratori cui sia imputata non solo la scorretta tenuta della contabilità e dei libri sociali, ma anche di aver compiuto operazioni illegittime in danno della società.
La determinazione del danno cagionato dalle condotte degli amministratori: il possibile ricorso al criterio della differenza tra attivo e passivo
In caso di esercizio da parte del curatore fallimentare delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori ex artt. 2393 e 2394, si applicano i principi comuni in materia di responsabilità contrattuale e pertanto parte attrice, una volta individuata la fonte del proprio diritto, può limitarsi ad allegare l’inadempimento del convenuto, il quale dovrà per contro provare il proprio adempimento. Occorre che l’inadempimento sia specificamente allegato, specie ai fini della determinazione del danno che si asserisce esserne conseguenza.
La determinazione del danno cagionato dalle condotte contestate, può automaticamente ricondursi alla condotta dell’amministratore l’intero deficit patrimoniale solo laddove siano intercorse delle violazioni del dovere di diligenza tanto generalizzate da far ritenere che siano state proprio dette condotte a comportare l’erosione del patrimonio sociale. A riguardo, la mancata tenuta delle scritture contabili, sebbene precluda la possibilità per il curatore di ricostruire le vicende societarie genetiche della perdita, non consente di imputare l’intero deficit patrimoniale all’amministratore. In tale caso, ovverosia ogniqualvolta la mancanza delle scritture contabili non renda possibile accertare il danno derivante dagli inadempimenti contestati agli amministratori, si ammette il ricorso al criterio della differenza tra attivo e passivo al fine di quantificare il danno in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c..
Responsabilità di amministratori e sindaci: alcuni criteri di quantificazione del danno
Nell’azione di responsabilità intentata dal curatore fallimentare contro amministratori e sindaci, il danno da illegittima prosecuzione dell’attività non concorre con quello derivante dagli ingiustificati prelievi a favore di uno degli amministratori, poiché il risultato negativo degli stessi è già ricompreso nella perdita netta che si ricava confrontando il patrimonio della società al tempo in cui essa avrebbe dovuto essere posta in liquidazione e il patrimonio netto della società immediatamente prima della dichiarazione di fallimento. In caso contrario si finirebbe per duplicare la medesima voce di danno.
Responsabilità degli amministratori e dei sindaci di s.r.l. nel fallimento e criterio di determinazione del danno
Il danno che gli amministratori ed i sindaci sono tenuti a risarcire, in sede fallimentare, quando, al verificarsi di una causa di scioglimento della società, abbiano, rispettivamente, violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni, non s’identifica automaticamente nella differenza tra passivo ed attivo accertati in sede di fallimento, ma può essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società.
Anche qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa; ma, in tal caso, è compito del giudice del merito indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonchè la plausibilità logica del ricorso a detto criterio.
Non può ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare – nella sua interezza – sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni che giustificano la continuità aziendale: non sarebbe logicamente corretto nè imputare all’amministratore le perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi, nè far gravare su di lui la responsabilità per le ulteriori passività che quasi sempre un’impresa in crisi comunque accumula nella fase di liquidazione. [fattispecie relativa a fatti verificatisi anteriormente all’introduzione del terzo comma dell’art. 2486 c.c., disposta dall’art. 378, comma 2, D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14]
Nelle cause ex art. 146 l.fall., l’attore, pur non dovendo provare l’inadempimento del convenuto, lo deve quantomeno allegare; e l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento quale che sia, ma ad un inadempimento astrattamente efficiente alla produzione del danno. Grava poi sull’attore l’onere di provare danno e nesso di causalità.
Amministratori e sindaci, in sede fallimentare, non sono tenuti a risarcire il danno derivato alla società dall’omesso versamento degli oneri tributari, previdenziali ed assicurativi, ove non sia stata quantomeno allegata la presenza, nel patrimonio della società, dei fondi necessari ad adempiervi.