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12 Dicembre 2022

Presupposti dell’azione revocatoria

Nel caso di atto dispositivo eseguito a titolo oneroso, in ottica di tutela del terzo avente causa – il quale comunque ha versato un controvalore a fronte del negozio stipulato in suo favore – appare necessario che l’attore, oltre a provare la conoscenza in capo al debitore del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie con l’atto dispositivo, dimostri che anche il terzo ne fosse a conoscenza o, perlomeno, ne avesse la conoscibilità.

Qualora la disposizione a titolo oneroso sia stata posta in essere prima dell’esistenza del credito, il creditore sarà chiamato a provare anche la c.d. partecipatio fraudis, ossia che il terzo, avente causa, fosse a conoscenza della dolosa preordinazione dell’alienazione, da parte del debitore, con riguardo al credito. La prova della participatio fraudis del terzo può essere ricavata anche da presunzioni semplici.

12 Dicembre 2022

Azione revocatoria dell’atto di rinunzia all’esercizio del diritto di opzione

Con riguardo all’atto di rinunzia all’esercizio del diritto di opzione, è esperibile l’azione revocatoria soltanto qualora il diritto di opzione costituisca un bene in sé, dotato di autonomo valore di mercato. Ed invero, la revoca della rinuncia o del mancato esercizio del diritto di opzione relativo all’aumento di capitale di una società giammai può consentire al creditore  di aggredire le quote oggetto del mancato esercizio dell’opzione stessa, ciò in quanto effetto della revoca è unicamente la declaratoria di inefficacia dell’atto revocato e il conseguente assoggettamento del bene oggetto della rinuncia (id est, del diritto d’opzione) all’azione esecutiva, ossia all’espropriazione forzata, sì che dalla vendita forzata dei diritti d’opzione il creditore possa ricavare quanto necessario alla realizzazione del suo credito.

Il valore della rinuncia al diritto di opzione non può equivalere al valore delle quote rinunciate, né tanto meno del capitale sociale, bensì esso dipende unicamente dal mercato in cui si incontrano l’offerta e la domanda di tale diritto. Ebbene, nelle s.r.l., diversamente dalle s.p.a. – dove, alla luce delle previsioni dell’art. 2441 cc., il diritto di opzione presenta un indubbio valore economico in sé –, il diritto di opzione non ha automaticamente un valore patrimoniale autonomo. Ciò rende ammissibile l’azione revocatoria della rinuncia al diritto di opzione nelle forme di cui all’art. 2901 c.c. soltanto qualora a seguito dell’istruttoria venga accertato che tale diritto abbia un effettivo valore. Se, invece, tale valore dovesse risultare nullo alla data della delibera di aumento del capitale sociale e della rinuncia all’esercizio del diritto di opzione, è da escludere qualsiasi pregiudizio alle ragioni dei creditori arrecato dalla condotta abdicativa del socio, con conseguente insussistenza del presupposto oggettivo della revocatoria esercitata. L’onere di provare tale valore economico ricade sul creditore che agisce in revocatoria, il quale deve dimostrare la rilevanza quantitativa e qualitativa dell’atto di disposizione (eventus damni), che giustifichi l’iniziativa processuale assunta; mentre è onere del debitore, per sottrarsi agli effetti dell’azione revocatoria, provare che il proprio patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore.

Il socio soltanto anteriormente alla scadenza del termine previsto per l’esercizio del diritto di opzione può, nei limiti in cui sia consentito dalle norme statutarie, cedere il diritto stesso a terzi non soci.

14 Ottobre 2022

Sequestro conservativo di quote a seguito del fallimento della società

Nel caso in cui, a seguito della perdita integrale del capitale sociale, l’assemblea non adotti gli opportuni provvedimenti (ossia non deliberi la riduzione con contestuale aumento, lo scioglimento o la trasformazione), è esclusiva responsabilità dell’amministratore procedere ad accertare tempestivamente la sussistenza della causa di scioglimento e provvedere all’iscrizione dello scioglimento al registro. Non può invece configurarsi una responsabilità dei soci che, anziché provvedere agli adempimenti imposti dalla legge, abbiano riportato a nuovo la perdita di esercizio che erodeva completamente il capitale sociale.

Rientra pacificamente tra gli atti conservativi che possono essere compiuti dal creditore particolare del socio anche il sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c. sulla quota di liquidazione spettante al socio.

Le sezioni specializzate non sono competenti a conoscere della domanda di revocatoria degli atti di donazione di quote, in quanto l’art. 3, comma 3 del D.lgs. n. 168/2003 (nel prevedere la competenza delle sezioni specializzate anche per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2) deve esser interpretato in maniera restrittiva e riguarda quindi le sole ipotesi di connessione forte, rimanendo sottratta all’ambito della norma citata tanto la connessione propria debole per titolo od oggetto ex art. 33 c.p.c., quanto la connessione c.d. “impropria” o per mero cumulo oggettivo di domande diverse proposte nei confronti della stessa parte.

 

22 Luglio 2022

Cessazione della materia del contendere e ripartizione delle spese processuali

La cessazione della materia del contendere è una forma di definizione del processo conseguente al sopravvenuto mutamento della situazione dedotta in giudizio, di cui le parti si danno reciproco atto, che fa venir meno la ragion d’essere della lite. Si tratta di un istituto giuridico, non regolamentato dal codice di procedura civile, di elaborazione giurisprudenziale, che porta ad una definizione del giudizio ontologicamente diversa rispetto alla rinuncia agli atti o all’azione, perché vengono meno le ragioni per le quali si è in giudizio a causa di eventi sopravvenuti, ma che conduce alle medesime conseguenze relativamente all’impossibilità di proseguire il processo. Con riguardo alle spese di lite, venuta meno la materia del contendere quanto al diritto sostanziale originariamente dedotto in giudizio, ove persista tra le parti contrasto sulla ripartizione delle spese processuali, esso deve essere risolto mediante il ricorso al principio della cosiddetta soccombenza virtuale.

5 Aprile 2022

Sottrazione fraudolenta per cessione di partecipazioni sociali in presenza di debito

La cessione di partecipazioni sociali preordinata a frustrare il soddisfacimento di un credito del cedente è soggetta a revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c. L’accertamento dell’illegittimità della cessione richiede la prova dell’esistenza dell’atto dispositivo e la valutazione dei presupposti oggettivo e soggettivo, ossia del prodursi dell’evento dannoso e dell’intenzionalità del danno.

L’accertamento del presupposto oggettivo richiede la prova della preesistenza di una posizione debitoria dei convenuti rispetto all’atto dispositivo e il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto. Quanto alla “scientia fraudis”, essa può essere ritenuta provata quale conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, da indizi gravi, precisi e concordati ove il primo acquirente, legato da vincolo familiare al venditore-debitore, a breve distanza abbia rivenduto tutte le quote acquistate.

Azione di responsabilità esercitata dal curatore e criterio della differenza dei netti patrimoniali per la quantificazione del danno

L’azione ex art. 146 l. fall., proponibile nei confronti degli amministratori e dei liquidatori della società fallita, presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Così che una volta esercitata, il curatore soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili. Non si tratta di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore: la norma si limita ad attribuire al curatore la legittimazione (esclusiva) ad esercitare, in forma cumulativa, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali. In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori verso la società ha natura contrattuale, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.

L’amministratore di s.r.l. risponde in presenza (i) della violazione dei suddetti obblighi, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno.

Sebbene il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di s.r.l., quali il grado di diligenza richiesta secondo la natura dell’affare e le loro specifiche competenze e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di s.r.l. venga adottato lo stesso approccio valutativo utilizzato per gli amministratori di s.p.a. (ex artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.).

Il curatore che esercita l’azione di cui all’art. 146, co. 2, l. fall. ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’amministratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo, oppure a quello generale di diligenza, nonché ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso. Deve inoltre dimostrare che la società abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento degli amministratori, spettando, invece, all’amministratore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.

Il curatore che agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali deve provare l’inosservanza, da parte dell’amministratore, degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e che hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.

In forza del principio per cui gli amministratori devono amministrare la società secondo i doveri di diligenza e correttezza, in sede di verifica di tale adempimento, non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell’impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall’assunzione di un rischio. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali di gestione tuttavia non è assoluta. Sotto il profilo della relativa legittimità rileva, infatti, il modo con cui le scelte sono state assunte ed attuate, ossia il percorso decisionale che ha portato a preferire una determinata scelta, rispetto ad un’altra. Se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente — se necessario, con adeguata istruttoria — i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili. Spetta al giudice ripercorrere il procedimento decisionale, onde verificare che la decisione degli amministratori sia stata coerente e congrua rispetto alle informazioni da questi raccolte e valutare l’eventuale violazione del dovere di diligenza in relazione ai normali criteri di liceità, razionalità, congruità e attenzione che dovrebbero ispirare l’operatore economico.

Sotto il profilo della ragionevolezza della scelta e della prevedibilità dei risultati, gli amministratori devono poi ritenersi responsabili nei confronti della società quando le decisioni assunte non siano in alcun modo idonee a realizzare l’interesse della società, in quanto avventate o irrazionali, tali da permettere agli amministratori di prevedere l’erroneità dell’operazione compiuta.

Gli amministratori andranno esenti da responsabilità nel caso in cui provino di aver in buona fede raggiunto una decisione adeguatamente informata, ragionevole e in assenza di un interesse in conflitto con quello della società e di aver seguito le cautele e svolto le verifiche che si imponevano nel singolo caso. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgment rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito delle scelte effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante.

In tema di individuazione e quantificazione del danno, compete a chi agisce dare la prova della sua esistenza, del suo ammontare, degli specifici inadempimenti imputabili all’amministratore e del loro rapporto causalità, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili, rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

L’art. 2486, co. 3, c.c., come modificato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha positivizzato il criterio per la quantificazione del danno c.d. “della differenza dei netti patrimoniali”. Tale criterio è stato utilizzato dalla giurisprudenza di merito soprattutto nelle ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, ed il raffronto viene fatto, in questi casi, tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, ovvero della sentenza dichiarativa di fallimento (se non preceduta dalla fase di liquidazione). Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, anche se anch’esso sconta alcuni automatismi presuntivi che sono propri dell’altro criterio differenziale (differenza tra attivo e passivo fallimentare), in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

Legittimati ad agire con l’azione di simulazione sono i terzi che siano attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla simulazione (artt. 1415, co. 2, e 1416, co. 2, c.c.), non essendo necessario che il pregiudizio sia attuale e che l’inadempimento si sia già verificato, essendo sufficiente la dimostrazione del pericolo di lesione o di insoddisfacimento del credito e della maggiore difficoltà od onerosità dell’adempimento. Infatti, a differenza dell’actio pauliana, che presuppone l’eventus damni, e per gli atti a titolo oneroso il consilium fraudis, per la proponibilità dell’azione di simulazione da parte del creditore è sufficiente che questi abbia un legittimo interesse a vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo del creditore stesso ed indipendentemente dall’epoca in cui è sorto il credito di chi agisce. È terzo creditore legittimato ad agire anche il titolare di un credito illiquido e non esigibile, giacché anche questi ha interesse a prevenire il danno che potrebbe derivargli dall’atto simulato, al momento in cui il credito si rendesse esigibile.

La prova della partecipatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

27 Gennaio 2022

Criteri di liquidazione del danno nell’azione di responsabilità dell’amministratore. La prova della simulazione da parte del curatore

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.

La sola mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili è circostanza in sé non dirimente, ma, in un quadro più complesso di gravi inadempienze, colora ulteriormente la condotta dell’amministratore (an) in termini di ampiezza, avvalorando la sussistenza di una condotta generalizzata idonea a porsi come causa del danno lamentato, suscettibile di essere liquidato per via equitativa ove la detta mancata o irregolare tenuta delle scritture sociali impedisca l’accertamento degli specifici effetti dannosi. In coerenza a ciò, il giudice, quando si avvalga del criterio equitativo per la quantificazione del danno, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime ed il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali.

Il criterio del c.d. differenziale dei netti patrimoniali trova utilizzo nei casi in cui sia possibile ricostruire la movimentazione degli affari dell’impresa e concludere che, nel caso in cui la gestione caratteristica non fosse proseguita sino al momento dell’apertura del concorso dei creditori, ma fosse cessata prima, la perdita di patrimonio sociale sarebbe stata inferiore. In tali ipotesi l’antigiuridicità della condotta degli amministratori discende dai principi dettati dall’art. 2447 c.c., che impone, unitamente a quelli di cui agli artt. 2485 e 2486 c.c., la convocazione dell’assemblea dei soci per l’adozione di una delibera “salvifica” (trasformazione o ricapitalizzazione), o, in difetto, la messa in liquidazione della società, in tutti i casi in cui la perdita di esercizio abbia l’effetto di ridurre il capitale sociale al di sotto dei limiti fissati dalla legge.

Il risarcimento del danno cui è tenuto l’amministratore ai sensi dell’art 2393 c.c. – sia che derivi da responsabilità per illecito contrattuale, sia che si ricolleghi a responsabilità extracontrattuale, sia, infine, che si configuri più genericamente come effetto di responsabilità ex lege, e tanto se si tratti di danno emergente come di lucro cessante – riveste natura di debito di valore e non di debito di valuta, il quale è, pertanto, sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione, ancorché il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo, in siffatta particolare ipotesi, solo un elemento per la commisurazione dell’ammontare dello stesso, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo.

Nel giudizio in cui eserciti l’azione di simulazione spettante al contraente fallito, il curatore stesso cumula la legittimazione già spettante al fallito con quella già spettante ai creditori, agendo pertanto, come terzo quoad probationis. Pertanto, la prova della simulazione da parte del curatore è pienamente ammessa senza limiti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1416, co. 2, e 1417 c.c. e, dunque, sia a mezzo testimoni che per presunzioni.

19 Novembre 2021

Sull’oggetto della domanda revocatoria

L’oggetto della domanda revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene trasferito in sé, bensì la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori, mediante il suo assoggettamento ad esecuzione forzata. Il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi degli artt. 2901 e 2902 c.c., non comporta in alcun modo l’invalidità dell’atto di disposizione dei beni ceduti e il rientro di questi nel patrimonio del debitore alienante, bensì unicamente l’inefficacia dell’atto nei soli confronti del creditore che agisce per ottenerla.

28 Giugno 2021

Legittimazione processuale del fallito

La legittimazione processuale in capo al fallito sussiste solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, se l’intervento è previsto dalla legge, nonché nei giudizi di natura tributaria qualora possano derivare, da questi, fatti oggetto di imputazione penale, ovvero in caso di inerzia assoluta del curatore fallimentare (nel caso di specie, è stata esclusa la legittimazione processuale del fallito all’azione revocatoria volta ad assicurare gli esiti di un giudizio relativo a fattispecie di responsabilità civile, i cui diritti ai sensi dell’art. 42 l.f. erano stati già esercitati dal curatore, che con autorizzazione del giudice delegato ha inteso non coltivare il giudizio connesso, ritenendolo non utile per la massa ed assumendosi la responsabilità dell’atto).