Il caso Mediaset-Vivendi: condotta volta ad impedire l’avveramento di una condizione sospensiva, cui è subordinata l’esecuzione di un contratto, e conseguenze risarcitorie
In presenza di un contratto di trasferimento di partecipazioni societarie, la cui esecuzione sia subordinata alla condizione sospensiva del rilascio da parte delle Autorità preposte delle autorizzazioni necessarie all’attuazione dell’operazione secondo le disposizioni normative nazionali e sovranazionali, specialmente di carattere antitrust, costituisce inadempimento contrattuale la condotta della parte che consapevolmente non attui le obbligazioni assunte per favorire il rilascio, da parte della Commissione Europea, della dichiarazione di compatibilità dell’accordo col mercato comune. Il mancato avveramento di tale condizione sospensiva per effetto di siffatte condotte obbliga la parte inadempiente al risarcimento del danno. [ LEGGI TUTTO ]
Applicabilità della fictio iuris in pendenza di condizione potestativa mista per cessione di partecipazioni sociali
In presenza di contratto sottoposto a condizione potestativa mista, la fattispecie della fictio iuris di avveramento della condizione apposta, prevista all’articolo 1359 c.c., è applicabile in caso di inosservanza del dovere delle parti di comportarsi in buona fede in pendenza della condizione, esclusivamente con riferimento al segmento non causale della condizione stessa, essendo il contraente tenuto ex articolo 1358 c.c. all’esecuzione delle attività dipendenti dalla propria volontà per favorirne il perfezionamento. [ LEGGI TUTTO ]
Utilizzazione illecita e contraffazione di opere dell’arte del disegno
A seguito della creazione dell’opera, e come diretta conseguenza dell’atto creativo, sorge il diritto di autore, nella sua duplice componente, di natura rispettivamente personale (diritto morale ad essere riconosciuto come autore) e patrimoniale (diritto di utilizzare economicamente l’opera, mediante le varie forme che si declinano in relazione alla natura dell’opera creativa). Il diritto morale consente all’autore, ex art. 20 L.d.A., di rivendicare la paternità dell’opera, ed opporsi a qualsiasi deformazione o modificazione della stessa, anche quando ha ceduto i diritti alla utilizzazione economica. Dunque, anche la semplice “riproduzione”, intesa come ostensione dell’immagine dell’opera da parte di soggetti diversi dall’autore, non è legittima, a meno che ciò non avvenga con il consenso dell’autore.
Il diritto d’autore non tutela l’idea in sé, come risultato dell’attività intellettuale, bensì la forma espressiva di tale idea, attraverso la quale si estrinseca il contenuto del prodotto intellettuale, meritevole di protezione allorché rivesta il carattere dell’originalità e della personalità. Dunque, la stessa idea può essere legittimamente all’origine di opere diverse, che si distinguono per la creatività soggettiva che ciascuno degli autori vi spende, e che rende quell’opera meritevole di protezione. Ciò che conta è la forma che veicola all’esterno l’idea, esprimendola e rendendola percepibile agli altri, tramite la specifica e riconoscibile impronta e l’apporto creativo dell’artista.
Il plagio si ravvisa, secondo la terminologia utilizzata dalla giurisprudenza più recente, laddove l’opera derivata sia priva, in sintesi, di un cosiddetto “scarto semantico”, idoneo a conferirle, rispetto all’altra, un proprio e diverso significato artistico, in quanto abbia mutuato dall’opera plagiata il c.d. nucleo individualizzante o creativo; in sostanza, è necessario che l’autore del plagio si sia appropriato degli elementi creativi dell’opera altrui, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso. L’indagine sulla esistenza o meno della contraffazione deve svolgersi raffrontando essenzialmente le forme, per verificare se vi sia una riproduzione, integrale o parziale, delle medesime forme, senza una elaborazione originale, ovvero se, pur in presenza di una ripresa di elementi compositivi preesistenti, l’opera successiva costituisca una unità espressiva autonoma, in cui tali elementi siano rielaborati ed inclusi così da perdere la loro originaria connotazione, e divenire qualcosa di diverso.
Estensione dell’onere probatorio dell’attore in merito ai presunti atti di concorrenza sleale del socio di s.r.l. che eserciti il proprio diritto/potere di controllo ai sensi dell’art. 2476 c.c.
Le azioni di un socio di s.r.l. consistenti nel richiedere copie della documentazione sociale, tra cui il bilancio, le scritture contabili e i contratti commerciali, o domandare delega operativa sui conti correnti della società, non permettono di configurare il medesimo come amministratore di fatto, rientrando tali richieste nei diritti/poteri attribuitigli ex art. 2476, comma 2 c.c., ai sensi del quale i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione. Secondo l’orientamento della giurisprudenza prevalente, meritevole di essere condiviso, infatti, la corretta individuazione della figura dell’amministratore di fatto richiede l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, che si verifica quando le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, non si siano esaurite nel compimento di atti di natura eterogenea e occasionale, essendo la sistematicità sintomatica dell’assunzione di quelle funzioni. Gli elementi di cui tenere conto, in sintesi, sono i seguenti: 1) assenza di una efficace investitura assembleare; 2) attività esercitata (non occasionalmente ma) continuativamente; 3) funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto; 4) autonomia decisionale (non necessariamente surrogatoria, ma almeno cooperativa non subordinata) rispetto agli amministratori di diritto.
Per provare che il socio che esercita i compiti connessi a tali diritti in realtà acquisisce informazioni strategiche sull’impresa al fine di compiere attività concorrenziale sleale a danno della propria società, l’attore deve assolvere al proprio onere probatorio ai sensi dell’art. 2697 c.c. Tale onere non può considerarsi soddisfatto qualora le circostanze su cui è stata richiesta l’ammissione di prova testimoniale siano valutative, generiche, irrilevanti o da provarsi documentalmente; le prove a fondamento dei fatti costitutivi della propria pretesa siano incomplete o i fatti stessi irrilevanti; non vi sia specifica e tempestiva contestazione di quanto affermato dal convenuto.
Il rimedio riparatorio della c.d. retroversione degli utili è di natura non risarcitoria, ma riconducibile all’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.
In materia di diritti di proprietà industriale vige la regola della presunzione di colpa ex art 2600 c.c., superabile solo con stringenti prove di segno contrario a carico del contraffattore, al fine di dimostrare la buona fede. La presunzione di colpa non può essere superata con la sola prova della circostanza di avere interrotto immediatamente le vendite delle res litigiose a seguito della diffida delle attrici.
Con riguardo alla posta riparatoria della retroversione degli utili la questione del profilo soggettivo della condotta si affievolisce. Invero, tale rimedio va inteso come autonomo strumento non risarcitorio ma riconducibile all’alveo dell’arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. e svincolato dunque da profili soggettivi della condotta. E ciò in ossequio all’art. 45 Trips e all’art. 13, comma 2, della direttiva Enforcement.
Eccezione di inadempimento, buona fede oggettiva e compenso dell’amministratore
L’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., che consente a chi sia tenuto ad una prestazione di rifiutare l’adempimento deducendo l’inadempimento altrui, è soggetta al presupposto che il rifiuto di adempiere dell’eccipiente non sia contrario a buona fede “avuto riguardo alle circostanze”. La buona fede di cui all’art. 1460 comma 2 c.c. è intesa in senso oggettivo, cioè una condotta qualificabile come corretta alla stregua dell’idem sentire comune; la reazione della parte eccipiente all’inadempimento altrui deve essere proporzionata e la sua prestazione di cui si vuole liberare con l’eccezione deve porsi in rapporto di sinallagmaticità con la prestazione dedotta come inadempiuta dalla controparte contrattuale (nella specie viene rigettata l’opposizione della società che si rifiutava di saldare il compenso dell’amministratore sollevando eccezioni di inadempimento per fatti di pretesa responsabilità risalenti nel tempo).
Non costituisce una condotta emulativa il tentativo del socio uscente di lucrare un prezzo maggiore nella vendita della sua quota
Non si ravvisa alcuna condotta emulativa nel tentativo, da parte del socio uscente, di lucrare un prezzo maggiore – rispetto a quello poi effettivamente percepito – per la compravendita della propria partecipazione societaria ai soci superstiti. La simulazione dell’esistenza di potenziali acquirenti interessati a subentrare nella posizione sociale (c.d. dolus bonus) non costituisce una condotta dannosa per la società, bensì espressione del legittimo esercizio del diritto a conseguire il maggiore profitto possibile.
Non può ritenersi fondata l’eccezione di compromesso arbitrale, prevista da una clausola statutaria, quando le contestazioni svolte nei confronti del socio non attengano a vicende di natura endosocietaria, ma ad atti di natura concorrenziale, rilevanti ex art. 2598 c.c.
Responsabilità precontrattuale, obblighi di correttezza e buona fede in pendenza di trattative finalizzate alla stipulazione di un contratto di cessione di un ramo d’azienda
La pacifica applicazione dell’art. 1223 c.c. anche all’ipotesi di responsabilità da contatto qualificato determina il diritto del danneggiato al ristoro del pregiudizio subito sia nella forma del danno emergente che del lucro cessante. Tuttavia, la peculiarità dell’illecito e le caratteristiche della responsabilità precontrattuale, la quale, nel caso di ingiustificato recesso dalla trattativa, postula il coordinamento tra il principio secondo cui il vincolo negoziale sorge solo con la stipulazione del contratto e il principio secondo cui le negoziazioni devono svolgersi correttamente, comportano alcune particolarità in tema di determinazione del danno. Infatti, non essendo stato stipulato il contratto e non essendovi stata lesione dei diritti che dallo stesso sarebbero nati, non può essere dovuto un risarcimento equivalente a quello conseguente all’inadempimento contrattuale, mentre essendosi verificata la lesione dell’interesse al corretto svolgimento delle trattative, il danno risarcibile è unicamente quello consistente nelle perdite che sono derivate dall’affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute (c.d. ‘interesse negativo’). L’ammontare del danno va parametrato non già alla conclusione del contratto bensì al c.d. interesse contrattuale negativo che copre sia il danno emergente, ovvero le spese sostenute, che il lucro cessante, da intendersi, però, non come mancato guadagno rispetto al contratto non eseguito ma in riferimento ad altre occasioni di contratto che la parte allega di avere perso.
Contratto di cessione di azienda e valutazione della clausola risolutiva espressa
La clausola risolutiva espressa di cui all’art. 1456 cod. civ., contenuta in un contratto di compravendita di azienda presuppone, per il suo esercizio, la valutazione dell’agire dei contraenti secondo il criterio generale della buona fede, sia quanto alla ricorrenza dell’inadempimento sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risoluzione. Ai fini della risoluzione di diritto del contratto, dunque, non basta la sola verificazione dell’inadempimento previsto nella clausola risolutiva espressa, in quanto anch’essa deve essere interpretata (art. 1366 cod. civ.) ed eseguita (art. 1375 cod. civ.) secondo buona fede. Il principio di buona fede diventa pertanto, in quest’ottica, canone di valutazione dell’effettiva esistenza di un inadempimento di uno dei contraenti e del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, dovendosi negare efficacia all’atto di esercizio del potere ex art. 1456 cod. civ. quando il mancato adempimento o ritardo nell’adempimento, pur previsto, sia oggettivamente di scarsa importanza.