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Sottrazione di informazioni asseritamente segrete per la produzione di una maschera da scherma tutelata come marchio di forma registrato

La parte che intenda tutelare una privativa non titolata in giudizio deve dare contezza e prova di tutti i suoi presupposti, così come previsti dall’art. 98 D.Lgs. n. 30/2005, ovvero che dette informazioni siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme e nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; che abbiano valore economico in quanto segrete; siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete, dovendosi intendere per misure ragionevolmente adeguate quelle che impediscano che coloro che detengono le informazioni le portino a conoscenza di terzi o che impediscano ai terzi di accedervi direttamente.

I Tribunali di uno Stato membro, compresi i Tribunali dei marchi UE, possono essere aditi per chiedere, relativamente a un marchio UE o a una domanda di marchio UE anche in difetto di registrazione, le misure cautelari previste dalla legislazione di detto Stato per un marchio nazionale, cosicché la tutela cautelare può essere riconosciuta anche sulla scorta della mera domanda di registrazione, purché ne ricorrano i presupposti secondo disciplina comunitaria, tenuto conto che il difetto di registrazione, esclude soltanto che l’affermata privativa possa considerarsi sorretta da presunzione di validità, secondo il dettato dell’art. 127 comma 1 del citato Reg. UE n. 1001/2017.

Nella valutazione del carattere distintivo che la forma del prodotto deve avere o acquisire al fine di valere in sé come marchio, è bene chiarire la necessità di non incorrere in un equivoco, posto che il carattere distintivo della forma non deve differenziare il prodotto dagli altri, in una sorta di considerazione del carattere individuale proprio dei modelli, ma deve differenziarsi dal prodotto in modo idoneo a mandare un messaggio ulteriore rispetto alle qualità del prodotto medesimo, cosicché l’eventuale successo riscontrato sul mercato dal prodotto, idoneo di per sé ad attribuire alle sue fattezze valore individuale, può essere eventualmente valutato come causa efficiente dell’assunzione del carattere distintivo della forma medesima, forma cioè atta ad assumere il significato di marchio.

20 Gennaio 2023

Il danno non patrimoniale da contraffazione di marchio

La contraffazione di marchio determina inevitabilmente quantomeno la diluizione della capacità distintiva del segno anche per effetto della sua associazione a prodotti non provenienti dalla titolare del marchio e di cui dunque essa non può garantire un livello qualitativo paragonabile ai suoi prodotti, con conseguente effetto pregiudizievole per l’immagine commerciale della stessa titolare del marchio. Tale voce di danno non patrimoniale può essere liquidata tenendo conto in via presuntiva della necessità per la titolare di dover reagire sul mercato per riportare a sé sola il collegamento con il marchio mediante l’ulteriore sopportazione di spese pubblicitarie o, in via alternativa, del risarcimento di una quota parte delle spese pubblicitarie da essa sostenute negli anni che possono ritenersi in via equitativa di fatto inutilmente sostenute in quanto pregiudicate dall’illecito accertato.

19 Gennaio 2023

La tutela del marchio forte e natura della retroversione degli utili

La qualificazione del marchio come forte determina l’estensione della tutela a tutti gli elementi che lo compongono ma, ai fini della contraffazione, rimane necessario valutare se le coincidenze (pur parziali) tra marchio anteriore e successivo siano tali da ingenerare confondibilità tra i due segni. A tal fine, ove il nucleo idologico-espressivo del marchio forte rimanga impregiudicato (e quindi non confondibile con il secondo marchio), la tutela del primo si arresta, non essendo consentito ad un’impresa titolare di un marchio (anche se forte) di vietare ad un’altra l’uso di un marchio similare ma non confondibile, quando resti immutata la capacità distintiva dei suoi prodotti rispetto a quelli dell’altra impresa.

La restituzione degli utili ex art. 125, 3° co. c.p.i. è sanzione di natura diversa dal risarcimento del danno, fondandosi i due rimedi su presupposti e meccanismi diversi: il rimedio risarcitorio compensa la perdita subita dal danneggiato, mentre la misura restitutoria attua uno spostamento patrimoniale, con attribuzione al titolare del diritto violato dei profitti conseguiti attraverso l’uso della risorsa che è stata usurpata.

25 Gennaio 2022

Dichiarazione di nullità per mancanza di novità dovuta all’interferenza con il marchio notorio “Zara”

L’essere oggetto di articoli di stampa e di ricerche costituisce un serio indice di notorietà del marchio. Anche indagini demoscopiche che evidenziano una conoscenza media del marchio tra i consumatori italiani prossima al 50% è una prova più che sufficiente per ritenere il marchio notorio o rinomato. Tali concetti corrispondono ad una precisa categoria normativa (art. 20 comma 1 c.p.i.) la quale ha ricevuto una interpretazione giurisprudenziale non particolarmente restrittiva, essendo state ammesse anche la notorietà locale, di settore (se non altamente specialistica) o non accompagnate da un collegamento a caratteristiche straordinarie del prodotto. In ogni caso, la tutela extra-merceologica che discende dal riconoscimento della notorietà del marchio non è tuttavia un concetto di applicazione generale ed automatica. Perché il marchio rinomato antecedente inibisca l’uso di segni simili in ogni settore commerciale, anche diverso da quello di impego concreto da parte del titolare devono ricorrere alcune condizioni: 1) l’uso del marchio successivo di marchio simile ad altro notorio in diverso settore crea un vantaggio indebito al titolare di quello preventivamente registrato; 2) se a tale vantaggio corrisponde un danno per il titolare del marchio antecedente; 3) se non vi è giustificato motivo per la nuova utilizzazione.

10 Agosto 2021

Prodotti che richiamano prodotti di successo: contraffazione di marchi complessi, look-alike e risarcimento del danno

Il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato debole, tale seconda fattispecie differenziandosi, peraltro, dal marchio di insieme in ragione del fatto che i segni costitutivi di quest’ultimo sono privi di un’autonoma capacità distintiva, essendolo solo la loro combinazione.

Per valutare la similitudine confusoria tra due marchi complessi occorre utilizzare un criterio globale che si giovi della percezione visiva, uditiva e concettuale degli stessi con riferimento al consumatore medio di una determinata categoria di prodotti, considerando anche che costui non ha possibilità di un raffronto diretto, che si basa invece sulla percezione mnemonica dei marchi a confronto.

Costituisce atto di concorrenza sleale l’imitazione pedissequa degli elementi essenziali della confezione dell’altrui prodotto, allorchè il pubblico dei consumatori possa essere indotto ad attribuire, alla confezione dell’imitatore, le qualità di cui è portatore l’altrui prodotto (c.d. “look alike”), ciò in forza del rischio di associazione tra le due confezioni, e senza che occorra errore o confusione quanto alle fonti di produzione.

L’art. 125 c.p.i., comma 2, consente che il giudice liquidi il danno in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. Il criterio del giusto prezzo del consenso o della giusta royalty, vale a dire del compenso che il contraffattore avrebbe pagato al titolare se avesse chiesto ed ottenuto una licenza per utilizzare l’altrui privativa industriale, opera come ulteriore elemento di valutazione equitativa “semplificata” del lucro cessante e come fissazione di un limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento, voluto dal legislatore a garanzia della effettività della compensazione. Il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa e non può essere utilizzato laddove il danneggiato abbia offerto validi e ragionevoli criteri per procedere alla liquidazione del lucro cessante o ad una valutazione comunque equitativa più consistente.

La retroversione degli utili ha una causa petendi diversa, autonoma e alternativa rispetto alle fattispecie risarcitorie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 125. Ci si trova di fronte non ad una mera e tradizionale funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, ma ad una funzione, se non propriamente sanzionatoria, diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui.

Marchio complesso e valutazione di capacità distintiva

Un marchio è qualificabile come “complesso” qualora tutti gli elementi del segno (figurativi o denominativi) godano di autonoma capacità distintiva rispetto agli altri; è, invece, “d’insieme” quello i cui elementi costitutivi, isolatamente considerati, non godano di tale capacità distintiva. In tale caso il carattere “forte” o “debole” del marchio non va predicato solo in ragione dei singoli elementi che ne fanno parte, ma dell’effetto che suscita l’accostamento di questi ultimi.

In particolare, secondo costante insegnamento giurisprudenziale, «il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato debole, tale seconda fattispecie differenziandosi, peraltro, dal marchio di insieme in ragione del fatto che i segni costitutivi di quest’ultimo sono privi di un’autonoma capacità distintiva, essendolo solo la loro combinazione».

Le nozioni di marchio ‘forte’ e ‘debole’ non sono codificate ma sono frutto di elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale giunta a qualificare come “forte” il marchio privo di qualsiasi collegamento concettuale con il prodotto o servizio cui accede, e come “debole” il marchio che, pur non risolvendosi in un’indicazione del genere merceologico pura e semplice (che non è ammessa, ex art. 13 co. 1°, lett. b) c.p.i.), presenta un collegamento concettuale immediato con la stessa

1 Febbraio 2021

Giurisdizione del giudice italiano in caso di vendite online e carenza di capacità distintiva

Deve ritenersi operare sul territorio italiano una società che abbia il sito internet con dominio “.it” e abbia lo stesso integralmente pubblicato in lingua italiana, e permetta al consumatore di ordinare i prodotti direttamente dall’Italia, con consegna sul medesimo territorio, dovendo quindi così concludersi che l’offerta di prodotti tramite tale sito internet sia rivolto, in via principale, agli utenti italiani.

Deve essere escluso dalla registrazione ai sensi dell’art. 7 Reg. UE 1001/2017 un segno denominativo, qualora designi, quantomeno in uno dei suoi significati potenziali, una caratteristica dei prodotti o dei servizi di cui trattasi, restando indifferente che le caratteristiche dei prodotti o dei servizi che possono essere descritte dal segno in questione siano essenziali o accessorie sul piano commerciale, oppure che esistano o meno sinonimi che consentano di designare le stesse caratteristiche. Ne consegue che, perché un segno ricada nel divieto enunciato dalla detta disposizione, occorre che esista una relazione sufficientemente diretta e concreta tra il segno ed i prodotti o servizi in questione, tale da consentire al pubblico interessato di percepire immediatamente e direttamente una descrizione dei prodotti e servizi di cui trattasi o di una delle loro caratteristiche.

Un marchio che sia descrittivo delle caratteristiche di determinati prodotti o servizi è, per tale motivo, necessariamente privo di carattere distintivo in relazione a questi stessi prodotti o servizi, senza pregiudizio di altri eventuali motivi che possano giustificare l’assenza di carattere distintivo: ne consegue che deve essere accolta la domanda di nullità del marchio europeo denominativo “BIOLINDO” per assenza di capacità distintiva del segno, relativamente ai prodotti contenuti nella classe 3 della classificazione di Nizza (Preparati per la sbianca e altre sostanze per il bucato; Preparati per pulire, lucidare, sgrassare e abradere; Saponi; Profumeria, olii essenziali, cosmetici, lozioni per capelli; Dentifrici), in quanto univocamente composto da indicazioni che descrivono specifiche caratteristiche dei prodotti di cui trattasi, ai sensi dell’art. 7 lett. b) e c) del Regolamento UE n. 1001/2017.

29 Dicembre 2020

Tutelabile e registrabile il marchio di posizionamento apposto sulla quinta tasca dei jeans

È tutelabile e validamente registrabile il marchio di posizionamento – ancorché complesso – costituito da una stretta striscia di tessuto di qualsiasi colore apposta sulla quinta tasca di un paio di pantaloni […] che appare inclinata rispetto al dorso superiore della tasca sulla quale è apposta. Un siffatto segno può essere oggetto di un uso e di una registrazione come marchio, posto che tale etichetta costituisce un aspetto “capriccioso” ed inessenziale, essendo tutelata non la striscia che compone un’etichetta tout court, bensì una sua specifica configurazione indicata sostanzialmente nella posizione sull’indumento e nella sua inclinazione.

24 Aprile 2020

Marchi deboli e rischio di confondibilità

La nozione di «luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto» sancita dall’art. 5.3 del Reg. 44/2001/CE, oggi art. 7 n.2 del Reg. 1215/2012, deve essere interpretata come comprensiva sia del luogo in cui si è verificata l’azione (o l’omissione) da cui il danno è derivato, sia di quello in cui il danno in questione si è manifestato, da intendersi come luogo in cui l’evento ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi. Ai fini dell’individuazione di entrambi tali luoghi con riferimento agli illeciti costituiti dalla violazione di diritti di proprietà industriale e, in particolare del luogo del danno, deve essere affermato come la natura territoriale che connota tali diritti comporta la sua necessaria identificazione con il territorio dello Stato membro in cui il diritto di privativa è tutelato ed in cui, dunque, si verifica la sua lesione.

Il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato “debole”.

Marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo; peraltro, la loro “debolezza” non incide sull’attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.

Ai fini della concorrenza sleale, il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero “rilevante”), ossia quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza (nel caso di specie è stata esclusa la sussistenza dei presupposti di un’ipotesi di concorrenza sleale in quanto i vini a cui è stata apposta l’etichetta riportante il segno asseritamente in contraffazione erano destinati alla commercializzazione esclusivamente sui mercati americani e inglesi; mentre i vini del titolare del marchio erano commercializzati esclusivamente in Italia).

Premesso che l’art. 121, comma 1, c.p.i., in linea con i principi generali dell’art. 2697 c.c., dispone che l’onere di provare la decadenza di un marchio per non uso grava su chi impugna la privativa; la stessa norma precisa poi che, quando si voglia far valere la decadenza di un marchio per non uso, questo possa essere provato con qualsiasi mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici e ciò implica che il giudice può considerare provato il mancato uso quinquennale (consecutivo) del marchio in base ad un procedimento deduttivo da lui stesso condotto sulla base di ulteriori fatti dimostrati in causa.

L’inibitoria contemplata dall’art. 7 c.c. non consegue al semplice uso indebito da parte del terzo di un nome che compete ad altri, ma è necessario che da tale uso consegua un pregiudizio sia pure soltanto nel patrimonio morale di colui che chiede tutela.