Limiti di ammissibilità di pronunce sostitutive a contenuto positivo di delibere negative
Nelle s.r.l., sebbene l’art. 2479 ter c.c. attribuisca testualmente la legittimazione a impugnare le deliberazioni della società ai soci che non vi hanno consentito, senza distinguere tra i soci che hanno manifestato voto contrario e i soci assenti o astenuti, la legittimazione spetta, come nelle s.p.a., a tutti coloro che non hanno espresso voto adesivo rispetto alla deliberazione adottata e, quindi, non solo ai soci dissenzienti, ma anche agli assenti e agli astenuti. Nel caso delle deliberazioni negative, legittimati sono dunque non solo i soci che hanno espresso voto favorevole alla deliberazione non adottata, e che quindi sono risultati soccombenti rispetto alla decisione della società, ma anche gli assenti e gli astenuti, i quali, non avendo partecipato all’assemblea o comunque non avendo espresso un voto contrario alla sua approvazione, non hanno acconsentito alla delibera.
La pronuncia sostitutiva di una deliberazione assembleare negativa è ammissibile solo in casi eccezionali, ove la deliberazione rappresenta un risultato necessariamente conseguente all’accertamento del vizio della deliberazione negativa, e quindi la deliberazione positiva è effetto della correzione dell’errore, come, ad esempio, nel caso in cui si ravvisa un vizio procedimentale dalla correzione obbligata, quale un errore di calcolo nella proclamazione dei risultati. In generale, invece, il giudice non può sostituire una deliberazione negativa con un’altra delibera, che comporti il conseguimento di un risultato positivo che non ha riscontrato il voto favorevole della maggioranza, quale il compimento di un’operazione societaria non condivisa dalla maggioranza dei soci, non potendo i soci di minoranza ottenere una sentenza che si sostituisca alla volontà dei soci di maggioranza e che produca un risultato diverso dal mero effetto ripristinatorio che consegue all’annullamento della deliberazione impugnata.
La sussistenza di un interesse a impugnare una delibera negativa per evitare il suo consolidamento è ravvisabile solo nel caso in cui sussista una specifica clausola statutaria che vieti di sottoporre all’assemblea la stessa proposta prima del decorso di un certo lasso di tempo dalla decisione negativa.
Esclusione del socio di cooperativa: interesse ad agire per l’accertamento della legittimità della delibera e riflessi sul rapporto contrattuale con la società
In termini generali l’interesse ad agire, costituendo una condizione per far valere il diritto sotteso mediante l’azione, si identifica nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice. In particolare, nell’azione di mero accertamento esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all’interessato un pregiudizio concreto e attuale, che si sostanzia in un’illegittima situazione di fatto continuativa. L’interesse ad agire che connota l’azione di accertamento presuppone, dunque, la violazione del diritto vantato dall’attore mediante la contestazione del convenuto che minando la certezza della sua esistenza arreca concreto pregiudizio al suo titolare [Nel caso di specie, mancando ogni contestazione da parte del socio escluso, rimasto anche contumace nel giudizio, la domanda di accertamento della legittimità dell’esclusione del socio avanzata dalla società è stata dichiarata inammissibile].
Solo la risoluzione di diritto del rapporto contrattuale di locazione dell’alloggio che lega il socio alla cooperativa può giustificare la condanna del convenuto alla restituzione dell’abitazione e al pagamento dell’indennità di occupazione sino alla data dell’effettivo rilascio, e solo una specifica previsione contrattuale o statutaria può stabilire tra il rapporto sociale e il rapporto contrattuale espressione della finalità mutualistica una interdipendenza tale che dallo scioglimento dell’uno derivi anche di diritto lo scioglimento dell’altro.
Principi in tema di rapporti tra coobbligati
Costituisce ius receptum che le domande possono essere sinanco mutate – nei limiti descritti nella ben nota giurisprudenza di legittimità formatasi in materia – fino alla memoria depositata ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., ma anche che, purché non ne muti la sostanza comunicativa (editio actionis: allegazione di petitum e causa petendi), esse possono ben essere lessicalmente riformulate anche in sede di precisazione delle conclusioni, salve limitazioni e riduzioni sempre ammesse in attuazione del principio dispositivo.
Il credito risarcitorio è un diritto soggettivo relativo, che può predicarsi esistente solo verso un debitore determinato (o più debitori determinati). Tradotta tale situazione sul piano processuale, ne deriva che chi si dica terzo rispetto al rapporti di credito / debito che afferma esistenti solo tra altri non può far accertare l’esistenza del credito soltanto nei confronti dell’altro diverso presunto debitore senza la partecipazione dei titolari del diritto di credito, perché gli sarebbe consentito di agire esercitando un diritto altrui o incidendo su di esso senza la partecipazione al processo del suo titolare, in violazione dell’art. 81 c.p.c. In particolare provocherebbe, da terzo e senza la partecipazione del creditore, l’accertamento su chi è l’unico debitore di questi. Rispetto a questo accertamento, che si concreta nell’esercizio processuale di un diritto altrui, l’attore è privo di legittimazione attiva, talché il processo può svolgersi solo con la necessaria partecipazione del creditore. Se poi si ritenesse che quella sentenza non sarebbe opponibile al creditore per la sua mancata partecipazione al giudizio, allora l’attore sarebbe privo di interesse ad ottenerla. Invero quell’attore, quando condannato a pagare il creditore in separato processo, non potrebbe poi rivolgersi al (presunto) “terzo unico responsabile” né in via di regresso contro il condebitore solidale – poiché, in tal caso, i due alternativi debitori non si trovano in rapporto di solidarietà (art. 2055 c.c.) -, né a titolo di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c., poiché la sentenza che lo individua come debitore costituisce giusta causa del suo pagamento al creditore.
La domanda di accertamento del diritto del condebitore di approfittare della transazione stipulata con il creditore da altro condebitore deve essere proposta nei confronti del creditore. Il condebitore è privo di interesse a far accertare, verso il condebitore che ha stipulato la transazione, il suo diritto di approfittarne. Invero questo diritto non incide per nulla nella sfera giuridica del condebitore che ha transatto ed invece solo nella sfera del creditore, determinando la liberazione del debitore che non ha transatto. Ma l’accertamento verso il condebitore sarebbe inopponibile al creditore, dunque inutile.
La quota interna di responsabilità di un terzo chiamato può essere stabilita nel simultaneus processus perché, in quella sede, viene accertata anche la responsabilità (o no) dei convenuti/debitori verso l’attore/creditore, sicché è concesso, anche per motivi di economia processuale, accertare anche se ed in quale misura un soggetto pur non convenuto ma partecipante al processo a seguito di chiamata di terzo risponda ed in che misura del debito di cui si discute, accertandosi in questo modo la solidarietà del terzo chiamato nel debito. Nel processo autonomo, tuttavia, è ovviamente necessario che sussista un titolo in forza del quale il debitore/attore agisce verso il preteso debitore/convenuto. La domanda non può essere limitata al mero accertamento delle rispettive quote di responsabilità, accertamento rispetto al quale il debitore/attore non ha interesse, sia perché deve comunque l’intero al creditore, sia perché non sussiste un suo diritto che sia oggetto di turbativa da parte del debitore/convenuto.
Per agire in regresso contro altro debitore, il condebitore solidale deve avere pagato l’intero dovuto al creditore, o, quanto meno, una somma superiore a quella commisurata alla sua quota interna di responsabilità.
Inammissibilità della domanda di accertamento della legittimità della delibera di esclusione del socio di cooperativa
L’interesse ad agire, costituendo una condizione per far valere il diritto sotteso mediante l’azione, si identifica nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice. In particolare, nell’azione di mero accertamento esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all’interessato un pregiudizio concreto e attuale, che si sostanzia in un’illegittima situazione di fatto continuativa. L’interesse ad agire che connota l’azione di accertamento presuppone, dunque, la violazione del diritto vantato dall’attore mediante la contestazione del convenuto che minando la certezza della sua esistenza arreca concreto pregiudizio al suo titolare.
Effetti della violazione di una clausola di gradimento
L’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire. In particolare, poi, quanto alla legittimazione generale all’azione di nullità, prevista dall’art. 1421 c.c., quest’ultima non esime l’attore dal dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse, a norma dell’art. 100 c.p.c., non potendo tale azione essere esercitata per un fine collettivo di attuazione della legge.
Il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese; altrimenti, sarebbe impossibile, per la controparte, controdedurre e, per lo stesso giudice, valutare le risultanze probatorie e i documenti ai fini della decisione.
Impugnazione della delibera di approvazione del bilancio e cessazione della materia del contendere
Differenza tra sostituzione ex art. 2377, co. 8, c.c. e annullamento in autotutela della delibera da parte dell’assemblea
Il fenomeno dell’annullamento di una delibera da parte dell’assemblea e l’adozione di una nuova deliberazione sullo stesso oggetto esula dalla fattispecie legale della sostituzione della deliberazione impugnata disciplinata dall’art. 2377, co. 8, c.c. Mentre, infatti, la sostituzione della deliberazione impugnata con altra successiva adottata in conformità della legge e dello statuto determina l’inefficacia della delibera sostituita, preclusiva della declaratoria di invalidità nel giudizio di impugnazione pendente sino a che non venga annullata, su espressa impugnazione dell’attore, la deliberazione sostitutiva (o dichiarata nulla, anche incidenter tantum), nel primo caso la declaratoria giudiziale della deliberazione impugnata è definitivamente preclusa dall’intervento demolitorio compiuto in autotutela dalla stessa assemblea.
La fattispecie legale della sostituzione della deliberazione impugnata presuppone che l’assemblea si limiti ad un successivo intervento modificativo che la renda immune dai vizi lamentati dall’impugnante e inefficace nell’ambito endosocietario almeno sino all’eventuale declaratoria di invalidità della deliberazione modificativa a cui conseguirebbe necessariamente la reviviscenza della delibera sostituita e, quindi, la possibilità della pronuncia di invalidità originariamente richiesta dall’attore sino ad allora preclusa dalla previsione normativa richiamata.
Tramite l’annullamento in autotutela della delibera impugnata effettuato dall’assemblea, la delibera viene definitivamente rimossa dal mondo giuridico e non potrà mai più produrre ulteriori effetti in ambito endosocietario, neanche all’esito dell’eventuale annullamento della nuova deliberazione. Quest’ultima costituisce, infatti, un diverso e autonomo atto di volontà negoziale dell’assemblea e la sua eventuale successiva rimozione giudiziale non potrà avere alcuna efficacia rivitalizzante della deliberazione precedente ormai definitivamente rimossa dalla stessa assemblea. Ne consegue la mancanza di qualsiasi interesse alla pronuncia di invalidità della prima deliberazione.
Legittimazione e interesse ad impugnare una delibera invalida da parte di soci persone giuridiche
La legittimazione processuale attiva e passiva consiste nella titolarità in via astratta del potere di promuovere un giudizio in relazione a una posizione giuridica sostanziale dedotta in causa. La legitimatio ad causam deve essere distinta dalla titolarità della posizione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio: la prima, infatti, qualificabile come un presupposto dell’azione, si basa su fatti, dedotti dalla parte attrice, in astratto idonei a fondare il diritto azionato, indipendentemente dall’accertamento della titolarità della posizione giuridica sostanziale sottostante. Pertanto, il difetto di legitimatio ad causam, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un error in procedendo ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo.
La legittimazione ad impugnare la delibera invalida di una s.r.l. ex art. 2479-ter c.c. compete esclusivamente ai soci che non vi hanno consentito, a ciascun amministratore e al collegio sindacale, non anche a terze persone estranee a tali tre categorie, quali il socio unico della società che, a sua volta, è socio unico della s.r.l. che ha adottato la delibera impugnata.
L’interesse ad agire comporta la verifica, da compiersi d’ufficio da parte del giudice, in ordine all’idoneità della pronuncia richiesta a spiegare un effetto utile alla parte che ha proposto la domanda e quindi la sussistenza di un interesse concreto ed attuale. Tale principio vale anche con riguardo all’azione di accertamento della nullità di delibere assembleari, la quale può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse, ma l’interesse in questione, oltre a dovere essere concreto ed attuale, deve riferirsi specificamente all’azione di nullità, e non può identificarsi con l’interesse ad una diversa azione, il cui esercizio soltanto potrebbe soddisfare la pretesa dell’attore.
Carenza sopravvenuta dell’interesse a impugnare una delibera per il fallimento della società intervenuto medio tempore
Il fallimento della società le cui delibere assembleari sono oggetto di impugnazione determina il venir meno dell’interesse ad agire per ottenere una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato. Ciò nel caso in cui non venga dedotto e argomentato il perdurante interesse dell’impugnante con riguardo alle utilità sottese in esito alla chiusura del fallimento dell’ente. La ratio di tale valutazione va ritenuta estesa anche nel caso di impugnazione delle delibere assembleari ai fini della declaratoria (non dell’annullamento, ma) della nullità delle stesse, giacché l’apertura della procedura concorsuale produce gli stessi effetti sull’interesse ad agire del socio, elidendo l’interesse ad ottenere una pronuncia nel merito nei confronti della fallita.
Sopravvenuta carenza di interesse a impugnare il bilancio a seguito del fallimento della società
Nei giudizi di impugnazione delle deliberazioni assembleari di approvazione del bilancio della società, il sopravvenuto fallimento di quest’ultima comporta il venir meno dell’interesse ad agire quando l’istante non deduca argomentazioni idonee a comprovare il suo perdurante interesse, avuto riguardo alle utilità attese dopo la chiusura della procedura fallimentare. Non risulta, quindi, tutelabile il generico interesse del socio alla sola veridicità e correttezza dei dati di bilancio, ove dalla pronuncia resa la parte non possa comunque conseguire alcun utile risultato, come in ipotesi di sopravvenienza del fallimento. Laddove quindi intervenga il fallimento, con conseguente acquisizione del patrimonio sociale alla massa dei creditori, viene meno l’interesse alla correzione delle eventuali erronee appostazioni di bilancio, salvo la diversa allegazione del socio.
Il bilancio sociale se con riferimento alle appostazioni che si riferiscono ai rapporti societari spiega efficacia vincolante, a diversa soluzione deve invece giungersi in relazione ai crediti verso i soci eventualmente vantati dalla società non nella qualità di soci, bensì quali clienti. In relazione a tali rapporti, infatti, il bilancio non spiega alcuna efficacia vincolante, bensì può essere utilizzato eventualmente solo in danno della società ex art. 2709 c.c. in quanto l’imprenditore resta vincolato alle proprie annotazioni contabili, ma non può essere opposto quale valida prova o ancora quale atto negoziale confessorio e vincolante nei confronti dei soci debitori per altro titolo.