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Il conferimento di licenza d’uso e di esclusiva di vendita non comporta l’automatico divieto per il licenziante di vendere i prodotti in proprio

Il fatto che le parti non abbiano ritenuto di regolare espressamente, e con puntualità di disciplina, un obbligo [ndr per la licenziante] di cessare l’attività di vendita diretta con propri marchi in favore di una licenziataria che ancora doveva organizzare le sue strategie, depone significativamente per l’insussistenza di un obbligo di esclusiva rivolto verso la stessa [ndr licenziante] nei termini prospettati.

Se nessuna specifica clausola contrattuale prevede espressamente un divieto per [ndr la licenziante] di vendere i propri prodotti, si deve rilevare che detta conclusione nemmeno può raggiungersi all’esito della ricerca della comune intenzione delle parti, attuata interpretando le clausole le une per mezzo delle altre come previsto dall’art. 1363 c.c.

L’interpretazione del contratto impone di portare l’attenzione sul comportamento delle parti, precedente e posteriore alla stipulazione, come previsto dall’art. 1362 II comma c.c.

26 Gennaio 2021

Revoca dell’amministratore senza giusta causa e diritto al risarcimento danni: interruzione della prescrizione e dies a quo per far valere il diritto al risarcimento

Il diritto al compenso dell’amministratore, giacché derivante dal rapporto societario, in quanto istituito fra i soggetti dell’organizzazione sociale in dipendenza diretta del contratto di società o delle situazioni determinate dallo svolgimento della vita sociale, è soggetto al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949 c.c.

Il ricorso giuslavoristico proposto dall’ex amministratore ex art. 414 c.p.c. per ottenere il riconoscimento di un trattamento retributivo unitario e globale, comprensivo, cioè, oltre che dell’importo dovuto a titolo di dirigente con contratto di lavoro subordinato, anche dell’importo, pure preteso nel separato e successivo giudizio, a titolo di compensi per l’incarico gestorio svolto quale consigliere di amministrazione (di fatto erogato allo stesso soggetto quale emolumento relativo alla carica di amministratore delegato, a suo dire, apparentemente conferitagli ed assunta), è idoneo ad interrompere la prescrizione ai sensi degli artt. 2934 e 2944 c.c. Ne consegue che il diritto al risarcimento dei danni per la revoca senza giusta causa dalla carica di amministratore non può essere esercitato in giudizio prima del passaggio in giudicato della sentenza resa a conclusione del giudizio giuslavoristico che, escludendo l’asserita simulazione, affermi definitivamente, l’esistenza del rapporto gestorio in contestazione; diversamente opinando, infatti, all’attore verrebbe preclusa, per effetto dell’eccepita prescrizione, la facoltà di far valere il proprio diritto prima ancora del definitivo accertamento della natura reale e non fittizia del rapporto (di amministrazione) da cui detto diritto discende.

Con la possibilità dell’assemblea di revocare gli amministratori “in qualunque tempo” a norma dell’articolo 2383, comma III, c.c., la società è investita di una forma di autotutela privata in forza della quale lo scioglimento del rapporto gestorio si verifica mediante la delibera assembleare e il controllo di questa spetta al giudice soltanto in seconda battuta ed esclusivamente ai fini della liquidazione dell’eventuale risarcimento, ove la revoca non sia sorretta da una giusta causa. La nozione di “giusta causa” è distinta sia dal mero “inadempimento”, sia dalle “gravi irregolarità” di cui all’art. 2409 c.c., concernendo essa, infatti, circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento e non necessariamente cagionate dall’amministratore stesso, che, tuttavia, pregiudichino l’affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità, cioè compromettano il rapporto fiduciario tra le parti. L’assenza della giusta causa incide solamente in punto di risarcimento dei danni non inficiando la validità o l’efficacia della revoca, rappresentando quest’ultima atto lecito e manifestazione del diritto dei soci ai sensi dell’art. 2364 c.c., con il solo limite che i motivi di giusta causa di revoca, quantomeno nei loro elementi essenziali, devono però essere esplicitati nella delibera di revoca (sul punto, v., ex multis, Trib. Milano, 20 dicembre 2005); infatti, come ormai pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, l’accertamento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di revoca può avere a oggetto solo le ragioni poste alla base della decisione dei soci (così, tra le altre, Cass., 2037/18).

Come ritenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, l’onere probatorio in ordine al venir meno del diritto al risarcimento del danno dell’amministratore per la revoca anticipata dalla carica grava sulla società a norma dell’art. 2697 c.c. (nel caso di specie, la società convenuta non ha addotto fatti idonei oggettivamente a minare la valutazione circa la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore revocato e, quindi, tali da incidere negativamente sul rapporto fiduciario intercorrente tra le parti, con la conseguenza che la domanda attorea è stata accolta e la società, per l’effetto, condannata, a titolo di risarcimento del danno sofferto dall’amministratore per la revoca senza giusta causa dalla carica, al pagamento dell’importo pari agli emolumenti non percepiti nel periodo di anticipata cessazione del rapporto gestorio).

2 Gennaio 2021

Clausola risolutiva espressa e nullità per indeterminatezza dell’oggetto

La clausola risolutiva espressa presuppone che le parti abbiano previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, sicché la clausola che attribuisca ad uno dei contraenti la facoltà di dichiarare risolto il contratto per gravi e reiterate violazioni dell’altro contraente a tutti gli obblighi da esso discendenti va ritenuta nulla per indeterminatezza dell’oggetto, in quanto detta locuzione nulla aggiunge in termini di determinazione delle obbligazioni il cui inadempimento può dar luogo alla risoluzione del contratto e rimette in via esclusiva ad una delle parti la valutazione dell’importanza dell’inadempimento dell’altra.

Ne consegue, dunque, che se è assolutamente inefficace la clausola risolutiva espressa, non può dirsi neppure operante la gravosa penale ad essa connessa.

 

29 Dicembre 2020

Efficacia ed operatività delle sanzioni del regolamento di un consorzio

Il socio aderente al Contratto di consorzio è vincolato all’osservanza delle previsioni del contratto e del Regolamento consortile.

Il regolamento consortile può prevedere (ai sensi dell’art. 2603, co. 2, n. 7, c.c.) le sanzioni per l’inadempimento agli obblighi dei consorziati. Tali sanzioni rivestono ed hanno natura sostanziale di clausola penale ai sensi dell’art. 1382, co. 2, c.c. ed ove irrogate possono costituire oggetto di tutela monitoria (purché sia sufficientemente e chiaramente individuata sia la condotta dovuta, sia l’entità, l’ammontare o la modalità di calcolo della sanzione).

Ai fini della determinazione della competenza territoriale per le persone giuridiche (nella caso di specie un Consorzio), l’art. 19 c.p.c. prevede, quale criterio alternativo e/o facoltativo rispetto alla sede legale, quello della sede effettiva od operativa (stabilimento o unità locale) o della presenza di un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per la domanda. In tal senso l’eccezione di incompetenza sollevata da una parte deve (per poter essere accolta) contestare e dimostrare l’insussistenza anche del foro facoltativo alternativo; in caso contrario, l’eccezione deve ritenersi infondata con radicamento del giudizio nel foro scelto ove la società ha una sede secondaria o una unità locale.

10 Novembre 2020

Sulla validità della clausola penale contenuta in uno statuto sociale

Deve ritenersi valida la clausola statutaria che preveda una penale per il socio in caso di suo inadempimento a specifici obblighi sociali, laddove la stessa sia sufficientemente determinata e ancori l’entità della penale a dati specifici e oggettivi. Non costituisce invece elemento essenziale, ai fini della validità di tale clausola, la previa comunicazione al socio della quantificazione precisa della penale che gli sarà addebitata in caso di suo inadempimento.

Il Tribunale può ridurre d’ufficio la penale che ritenga manifestamente eccessiva, sempre che la parte interessata assolva agli oneri di allegazione e di prova sulla medesima incombenti in ordine alle circostanze rilevanti, al fine di formulare un giudizio di manifesta eccessività della penale.

8 Ottobre 2020

Natura, validità ed efficacia dei patti parasociali

I patti parasociali sono contratti atipici aventi carattere complementare e collaterale al contratto di società e sono diretti alla stabilizzazione degli assetti proprietari ovvero alla governance della società, quest’ultima intesa come “complesso delle attività svolte dagli organi societari”. Tali strumenti consentono, infatti, di neutralizzare ovvero temperare il conflitto che spesso sorge tra l’interesse personale del singolo socio, ovvero di gruppi di soci, e quello della società e possono essere stipulati in qualunque forma, tra soci ovvero anche tra soci e terzi estranei alla società.

L’introduzione degli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c. ad opera del legislatore della riforma del 2003 ha avuto un duplice effetto: da un lato, quello di conferire dignità giuridica a tali accordi (della cui validità in passato si dubitava), e, dall’altro, di tipizzare taluni patti in funzione della loro idoneità a fornire alla società stabilità negli assetti proprietari o nel governo della società. L’art. 2341 bis c.c. disciplina espressamente i patti aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di voto (cc.dd. sindacati di voto), quelli volti a limitare il trasferimento delle partecipazioni sociali (cc.dd. sindacati di blocco) e quelli aventi ad oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza anche dominante sulla società (cc.dd. sindacati di concertazione). Tale previsione normativa, lungi dal fornire una definizione di questa espressione dell’autonomia negoziale, è finalizzata a operare una selezione di tali patti (non sono previsti ad esempio i patti di consultazione, né quelli sull’acquisto di azioni) rispetto ai quali vi sia un interesse protetto al contenimento della durata e all’informazione di terzi. Infatti, per le convenzioni parasociali espressamente menzionate nella norma è prevista una durata massima di 5 anni e una particolare forma di pubblicità, ex art 2341 ter c.c. Come sancito dalla legge delega, però, le norme codicistiche che disciplinano i patti parasociali si applicano limitatamente alle s.p.a. e alle società che le controllano.

L’affermarsi di pratiche di affari sempre piu’ evolute, che richiedono versatilità e duttilità, hanno contribuito al ricorso frequente anche a forme atipiche di patti parasociali, cui, pertanto, trova applicazione la disciplina generale in materia di contratti. I patti parasociali (e, in particolare, i cc.dd. sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi, su vari oggetti, il loro diritto di voto in assemblea. Il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell’organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere parasociale e, conseguentemente, l’esclusione della relativa invalidità ipso facto), sicchè non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio del voto in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare (operando il vincolo obbligatorio così assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare in un certo modo), poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto.

Talvolta, tali patti sono confezionati anche secondo lo schema della promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. e ciò accade, allorquando, ad esempio, uno o più soci si impegnano nei confronti di altri soci o di terzi a ottenere una condotta di uno o più amministratori, spesso determinata per relationem, mediante rinvio alle decisioni assunte in sede parasociale dalla maggioranza dei soci sindacati o dall’organo direttivo del patto.

Ai fini, poi, della configurazione di tali accordi, non è essenziale che tutti i partecipanti rivestano la qualità di socio e che il patto parasociale, in forza del quale taluni soci si impegnano a eseguire prestazioni a beneficio della società, integri la fattispecie del contratto a favore di terzo ai sensi dell’art. 1411 c.c., del quale sono legittimati a pretendere l’adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.

Non sussiste alcuna preclusione a che la convenzione parasociale venga sottoscritta oltre che dai soci anche da terzi, purché l’oggetto del patto sia l’assunzione di obbligazioni in relazione all’esercizio dei diritti sociali all’interno della società. Nessuna norma preclude a un terzo di prendere parte al patto parasociale, non essendo previste limitazioni soggettive, atteso che l’intesa deve vertere sostanzialmente sull’esplicazione dei diritti sociali all’interno della compagine societaria interessata.

Nessun precetto obbliga al fatto che la volontà assembleare si formi soltanto nel consesso assembleare (a tal proposito, emblematici sono gli istituti del voto per rappresentanza e per corrispondenza). Sono inderogabili le regole formali del procedimento assembleare (convocazione, votazione, verbalizzazione, ecc.), ma non quelle relative alle modalità di formazione della volontà dei soci. Pertanto, se i criteri di nomina degli amministratori o la formazione della volontà dell’organo consiliare sono prestabiliti all’esterno, rispettivamente, dell’assemblea sociale o del CdA, ciò non assume conseguenze particolari sulla compagine societaria o sull’ordinamento societario, semprechè non si configuri un conflitto con l’interesse sociale.

Il patto parasociale vincola il parasocio ad assumere un certo comportamento all’interno della vita societaria, ma lo stesso non assume un obbligo coercitivo in tal senso. Il socio conserva comunque il diritto alla libera partecipazione alla formazione della volontà assembleare e, quindi, può liberamente decidere di non rispettare il sindacato di voto, né tantomeno l’adempimento può essere suscettibile di esecuzione in forma specifica. Il mancato rispetto del patto parasociale lo esporrà inevitabilmente alle conseguenze dell’inadempimento, ma non condiziona sempre e comunque l’esercizio dei propri diritti sociali. D’altra perte, il patto con cui alcuni soci si accordino per votare in una certa maniera non costituisce di per sé una violazione del principio della libertà di voto poiché i soci sono comunque liberi di disporre del proprio voto, né il patto di per sé pone in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare sotto il profilo di una alterazione della corretta formazione della maggioranza poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto.

[Nella specie, il Tribunale ha dichiarato la nullità parziale di una clausola del patto che stabiliva un quorum di approvazione del 70% in relazione a qualsiasi delibera assembleare per contrarietà al disposto dell’art. 2369, co. 4, c.c. – ai sensi del quale lo statuto non può imporre maggioranze più elevate per l’approvazione del bilancio e per la nomina e revoca delle cariche sociali – senza che ciò determinasse l’estensione di tale nullità parziale alle altre disposizioni del patto parasociale, le quali non erano contrarie a norme imperative o elusive di norme o principi dell’ordinamento].

Perché un soggetto sia considerato amministratore di fatto della società, le attività gestorie dallo stesso poste in essere devono presentare carattere sistematico e non si devono esaurire soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale; sempre che detto esercizio non sia giustificabile in base ad un rapporto lavorativo subordinato e/o autonomo con la società, per cui l’interessato verta in una posizione di subordinazione o soggiaccia a poteri di direttiva dell’amministratore di diritto. Non è richiesta la riferibilità degli atti compiuti all’intero spettro delle attività amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale, che, in quanto idoneo a influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da improntare di sé l’operato complessivo della società. In quest’ottica, pur dovendosi riconoscere che un siffatto condizionamento non può non trasparire nei rapporti con i terzi, deve altresì escludersi la necessità che esso si traduca nel diretto compimento di atti a rilevanza esterna, risultando invece sufficiente che le determinazioni riguardanti la gestione sociale siano riconducibili alla volontà dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto, il quale non deve necessariamente rivestire il ruolo di mero prestanome.

Ai fini della riduzione ad equità della clausola penale ex art. 1384 c.c., l’apprezzamento dell’eventuale eccessività della penale per inadempimento suppone – si tratti di richiesta di parte o di iniziativa d’ufficio – che le circostanze rilevanti per il giudizio di sproporzione comunque emergano dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, quale risultante ex actis, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio. L’intervento di riduzione ad equità presuppone che la manifesta eccessività della penale sia valutata tenendo conto dell’interesse che il creditore aveva all’adempimento.

17 Settembre 2020

Accertamento della contraffazione e conseguenze della cessazione delle condotte contraffattorie in corso di causa

La spontanea cessazione, in corso di giudizio, della condotta contestata non fa venire meno, di per sé, l’interesse all’accoglimento delle domanda di colui che agisce, ben potendo la parte all’esito del giudizio riprendere la condotta censurata, senza alcuna sanzione. Dovrà quindi procedersi, di volta in volta, ad una valutazione prognostica in merito alla probabilità di ripresa delle condotte contestate, che tenga conto delle peculiarità e delle specificità del caso sottoposto al vaglio del giudice (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto insussistente il rischio di reiterazione, da parte delle convenute, delle condotte contestate, tenuto conto, in particolare, dello stato di apparente inattività di queste ultime, nonché della sopravvenuta installazione di un’insegna del tutto diversa, in cui è spesa una denominazione differente dai segni distintivi azionati in giudizio dalle attrici).

Non sussistono elementi che consentano di ravvisare un danno da contraffazione allorché non sia provato che il presunto contraffattore ha concretamente fatto uso, in violazione dell’art. 20 c.p.i. e nell’ambito della propria attività economica, dei marchi e dei segni distintivi di altrui titolarità, con conseguente non configurabilità, neppure sul piano del pericolo, di un danno da sviamento di clientela ai sensi di cui all’art. 2598 c.c. (nel caso di specie, pur nella contumacia delle convenute, da elementi prodotti agli atti – quali le visure camerali delle convenute o la prova dell’omessa consegna di diffide – il Tribunale ha desunto lo stato di “inattività” delle convenute, per l’effetto rigettando le domande delle attrici volte ad accertare la contraffazione e/o la concorrenza sleale, con ogni conseguenza anche di tipo risarcitorio).

Deve procedersi d’ufficio alla riduzione ad equità della penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., la cui “eccessività” risulta, ex actis, dai documenti legittimamente acquisiti al processo (in applicazione del suddetto principio il Tribunale ha ritenuto che, ove un contratto di licenza permetta al licenziatario di fare legittimo uso di segni distintivi ed allestimenti del licenziante a fronte di un corrispettivo annuo di euro 2.800,00 oltre oneri, risulta manifestamente eccessiva una penale che, alla cessazione del contratto di licenza, preveda l’obbligo per il licenziatario di pagare una somma di euro 100,00 giornalieri per ogni giorno di ritardo nella rimozione di detti segni distintivi ed allestimenti; in sostituzione è stata ritenuta congrua una penale pari al doppio del corrispettivo annuo previsto nel contratto di licenza).

Giusta causa di dimissioni dell’amministratore delegato

Con l’art. 2381 c.c. il legislatore lascia all’autonomia statutaria o, in alternativa, all’assemblea dei soci il potere di articolare variamente l’organizzazione del consiglio di amministrazione al fine di renderlo aderente alle esigenze delle singole realtà imprenditoriali ed all’adeguata valorizzazione delle specifiche competenze dei singoli. L’istituto della delega risponde proprio a tali esigenze, e in particolare, ad istanze di efficienza nell’adempimento della prestazione gestoria in quanto consente all’organo collegiale di attribuire alcune funzioni ad un comitato esecutivo o ad uno o più consiglieri operativi, senza peraltro, che ciò importi il venire meno del ruolo apicale del consiglio essendo comunque salvaguardate le prerogative dell’organo collegiale. E’, però, da rilevare che la summenzionata disposizione normativa (art. 2381 c.c.) prevede altresì che il Consiglio di amministrazione possa impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Il che implica che il conferimento della delega non elimina il ruolo di preminenza del plenum: il consiglio, infatti, può in ogni momento modificare il contenuto, i limiti e le modalità di esercizio della delega e può arrivare a revocarla, fermo restando la sussistenza di una valida ragione.

La sussistenza di un significativo contrasto in punto di scelte gestorie tra l’amministratore delegato ed altri componenti del Consiglio di amministrazione consente di ritenere integrata la giusta causa di dimissioni da parte del primo qualora tale contrasto sfoci in episodi in grado di minare notevolmente, se complessivamente valutati, la fiducia della struttura societaria nei confronti dell’amministratore delegato, di modo che l’effettivo perseguimento degli obiettivi sottesi alla delega conferita ne risulti gravemente compromesso. Sotto un profilo più generale, va, poi, rilevato che nessuna specifica disposizione normativa, né alcun orientamento consolidato, richiede espressamente una stretta aderenza tra le dimissioni e le sue cause: la valutazione della sostenibilità del “nesso eziologico” va, al più, valutata in concreto assumendo quali parametri di riferimento il principio di ragionevolezza, il criterio della buona fede e quello della proporzionalità.