Finanziamenti infragruppo postergati e responsabilità di amministratori e sindaci
Nella situazione in cui la holding, operando già a patrimonio netto negativo e quindi in modo tale da traslare sui propri creditori il rischio delle sue nuove iniziative imprenditoriali, esegue finanziamenti nei confronti di una società controllata operativa a sua volta sull’orlo dell’insolvenza non sono configurabili i cc.dd. vantaggi compensativi che presuppongono l’operatività secondo criteri di economicità di tutte le società del gruppo in modo tale che l’impiego delle risorse a favore di una controllata sia effettivamente compensato nel patrimonio della controllante dal risalire dei proventi dell’attività della controllata operativa in misura tale da assicurare il soddisfacimento anche del suo ceto creditorio. Non valgono, quindi, a configurare vantaggi compensativi per la massa dei creditori della holding che opera a patrimonio netto negativo né la destinazione del finanziamento alla riduzione del passivo della controllata di cui hanno beneficiato solo i suoi creditori, né la liberazione dalle garanzie prestate tramite un’altra società controllata di cui si è avvantaggiata semmai solo la massa dei creditori della controllata garante.
L’art. 2467 c.c. si applica anche ai finanziamenti eseguiti dai soci amministratori di società per azioni.
Sull’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall.: responsabilità per aggravamento del dissesto
Il rilascio, previo parere positivo del comitato dei creditori, dell’autorizzazione del giudice delegato all’esperimento dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 146, co. 2, l.fall., costituisce una condizione dell’azione, la cui sussistenza (che deve ricorrere necessariamente al momento della pronuncia della sentenza) può e deve essere verificata giudizialmente e la cui carenza, in quanto incidente sulla legittimazione processuale del legale rappresentante della società, può essere rilevata dal giudice anche d’ufficio. La conseguenza processuale dell’eventuale difetto di sufficiente specificità dell’autorizzazione è la rimessione della causa per il compimento delle attività di sanatoria di cui all’art. 182, co. 2, c.p.c. (versione precedente) mediante assegnazione di un termine per la produzione dell’autorizzazione.
Sotto il profilo passivo, l’art. 146 l.fall. deve ritenersi norma di natura processuale e meramente ricognitiva della legittimazione del curatore all’esercizio delle azioni di responsabilità civilistiche, siccome dotata di una formulazione ampia rispetto ai possibili destinatari dell’azione, da leggersi non atomisticamente, bensì alla luce delle disposizioni di natura sostanziale, come estensiva del novero dei soggetti passivi delle iniziative giudiziarie anche ai revisori, nonché a tutti i soggetti che, a vario titolo, abbiano operato per conto della società, o, ancora, abbiano a qualunque titolo concorso nella causazione della deminutio al patrimonio sociale (si pensi alle iniziative giudiziali intraprese da una curatela per ottenere il risarcimento del danno da indebita erogazione di credito); donde la legittimazione del curatore a anche esperire l’azione risarcitoria nei confronti dei professionisti esterni alla compagine, pacifica essendo la configurabilità di un’ipotesi di responsabilità solidale per un unico fatto dannoso in capo a più soggetti che allo stesso abbiano concorso, indipendentemente dal titolo.
La legittimazione attiva del curatore volta alla tutela risarcitoria in favore dei creditori deve riconoscersi circoscritta alle azioni di responsabilità da danno indiretto, che si alleghi subito dai creditori in conseguenza dell’inosservanza, da parte degli amministratori, degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale posto a garanzia dei crediti ex art. 2740 c.c., ossia alle azioni tese all’incremento della massa attiva del patrimonio sociale; la legittimazione alle azioni di responsabilità da danno c.d. diretto causalmente connesso alla condotta dolosa o colposa dell’amministratore, invece, permane in capo al singolo creditore anche a seguito della dichiarazione di fallimento. Le azioni di spettanza del curatore devono individuarsi in tutte e solamente quelle che fanno capo alla stessa società fallita, onde la legittimazione del medesimo curatore a esercitarle si ricollega alla sua stessa funzione di gestore del patrimonio del fallito, o in quelle che sono qualificabili come azioni di massa, in quanto destinate a incrementare la massa dei beni sui quali i creditori ammessi al passivo possono soddisfare le proprie ragioni secondo le regole del concorso.
L’azione di responsabilità contro gli amministratori e i sindaci, esercitata dal curatore del fallimento ex art. 146 l.fall., compendiante in sé le azioni contemplate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. e diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia dei soci e dei creditori sociali, sorge nel momento in cui il patrimonio sociale risulti insufficiente per il soddisfacimento dei creditori della società (il che consente di affermare che il danno da essi subito costituisce la misura del loro interesse ad agire) e si manifesti il decremento patrimoniale costituente il pregiudizio che la società non avrebbe subito in assenza del comportamento illegittimo. Il curatore ha facoltà di scegliere se cumulare le due azioni o formulare separatamente domande risarcitorie, potendo, altresì, scegliere quale delle due azioni esercitare: se l’azione sociale, di natura contrattuale, o quella verso i creditori, di natura extracontrattuale. In ogni caso, tali azioni non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, connotata da regimi differenti in punto di distribuzione dell’onere della prova, di criteri di determinazione dei danni risarcibili e di regime di decorrenza del termine di prescrizione.
Quanto alla decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., in applicazione del principio generale espresso dall’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, l’esperimento dell’azione da parte dei creditori sociali presuppone la conoscibilità delle condizioni per la relativa proposizione e, dunque, l’emersione dell’incapienza patrimoniale che legittima gli stessi all’esercizio dell’azione di responsabilità. Pertanto, occorre avere riguardo, nell’individuazione del dies a quo, non già del momento in cui i creditori abbiano avuto effettiva conoscenza dell’insufficienza patrimoniale, o di quello in cui si verifica tale insufficienza – che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale generica, non corrisponde allo stato di insolvenza di cui all’art. 5 l.fall., né alla perdita integrale del capitale sociale (non implicante necessariamente la perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale), ma va intesa come eccedenza delle passività sulle attività o insufficienza dell’attivo sociale a soddisfare i debiti della società –, ma al momento, che può essere anteriore o posteriore alla dichiarazione del fallimento, in cui essi siano stati in grado di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società, ossia al momento in cui l’insufficienza si manifesta, diventando oggettivamente conoscibile da parte dei creditori. In ragione dell’onerosità della prova a carico del curatore avente ad oggetto l’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i crediti sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando al convenuto che eccepisca la prescrizione fornire la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza e di esteriorizzazione dello stato di incapienza patrimoniale; prova che, sebbene possa desumersi anche dal bilancio di esercizio, deve pur sempre avere ad oggetto fatti sintomatici di assoluta evidenza, dovendosi escludere, come dies a quo antecedente alla dichiarazione di fallimento, la pubblicazione di un bilancio che, all’epoca della relativa redazione, rendeva l’incapienza patrimoniale, pur effettivamente già sussistente, non oggettivamente percepibile da parte dei terzi, siccome artatamente occultata.
In punto di prescrizione, opera nei confronti del revisore contabile la lex specialis di cui al d.lgs. n. 39/2010, il quale all’art. 15, prevede che l’azione di risarcimento si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato, emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento, senza alcuna previsione di cause ad hoc di sospensione del decorso dei termini.
Ai fini dell’individuazione del tempo della prescrizione, rileva l’astratta sussumibilità di un illecito in una fattispecie di reato, a prescindere dall’esito del procedimento penale avviato ai danni del danneggiante, non produttivo dei medesimi effetti di una sentenza di assoluzione con formula piena passata in giudicato. L’applicabilità a un illecito civile del più ampio termine prescrizionale previsto per un corrispondente fatto di reato, ex art. 2947, co. 3, c.c., presuppone la ricorrenza, in concreto, della totale identità e della piena concomitanza tra gli elementi (oggettivo e soggettivo) dell’illecito civile e di quello penale.
Sebbene il dovere di regolare tenuta della contabilità rientri tra i doveri gravanti sugli amministratori, l’erronea redazione di scritture contabili non costituisce, di per sé, una causa potenzialmente efficiente rispetto al danno, giacché la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, ma non li determina, ed è da quegli accadimenti, e non dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità, che deriva la perdita patrimoniale.
A fronte di una diminuzione del capitale di oltre un terzo in conseguenza di perdite, a norma dell’art. 2482 bis c.c., si impone all’organo amministrativo pro tempore in carica la tenuta di una condotta diligente consistente nella convocazione dell’assemblea “senza indugio” – ossia in una data ragionevolmente prossima, tenuto conto delle circostanze del caso concreto –, nella sottoposizione alla stessa di una specifica relazione, nel monitoraggio capillare dell’attività e nella convocazione di un’assemblea, nell’esercizio successivo, per l’approvazione del bilancio e la riduzione del capitale in proporzione alle perdite accertate e medio tempore non riportate sotto la soglia di allarme suindicata. In caso di totale azzeramento del capitale, ricorrono, ai sensi dell’art. 2484, n. 4, c.c., i presupposti per l’insorgenza di un’ulteriore serie di obblighi di condotta, quali, anzitutto, quello negativo di astensione dall’intraprendere nuove operazioni sociali e quello, dal lato attivo, di convocare l’assemblea per deliberare la ricapitalizzazione o lo scioglimento e la messa in liquidazione della società, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2485 c.c.: di talché l’inosservanza di tali obblighi integra un inadempimento dell’amministratore agli obblighi sullo stesso incombenti e rende indebita la successiva attività di impresa non meramente liquidatoria, con conseguente responsabilità risarcitoria dell’organo di gestione per tutte le successive perdite subite dalla società e causalmente connesse alla violazione del dovere di astensione, ex art. 2486 c.c. All’indomani del verificarsi della causa di scioglimento, infatti, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, come in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, sicché gli amministratori non possono più utilizzarlo a tale fine, ma sono abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando agli stessi inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul patrimonio sociale, e, dall’altro, il diritto dei soci a una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione: in particolare, devono essere qualificate come nuove operazioni vietate tutte quelle realizzate dagli amministratori per il conseguimento di un utile sociale e per finalità diverse da quelle di mera liquidazione della società.
Posto che la proposizione di richiesta di una procedura concorsuale o di una procedura alternativa da parte di una società in crisi o insolvente, in luogo della dichiarazione di fallimento, è prevista dall’ordinamento, in astratto, come del tutto legittima e, anzi, può rivelarsi in concreto maggiormente opportuna rispetto all’opzione alternativa, gli amministratori e gli organi sociali possono essere ritenuti responsabili per il pagamento di professionisti incaricati di verificare le condizioni di una richiesta concordataria, nonché di redigere le relative relazioni tecniche, soltanto laddove l’istanza di concordato risulti essere stata proposta abusivamente, ossia appaia, secondo un giudizio ex ante, irrazionale e arbitraria, e dunque del tutto infondata. L’arbitrarietà della domanda di concordato dev’essere, tuttavia, appurata non sulla scorta della semplice declaratoria di inammissibilità, né tantomeno in ragione dell’intervenuto rigetto da parte del tribunale, occorrendo invero un quid pluris, in specie rappresentato dalla conoscenza ex ante dell’insussistenza dei presupposti per adire la procedura – conoscenza che vale a connotare in termini di abuso del diritto o, quantomeno, a qualificare alla stregua di atto di mala gestio e di negligenza dell’organo gestorio una domanda altrimenti qualificabile in termini di attività lecita e, anzi, economicamente conveniente sotto il profilo dell’ottica aziendalistica.
Con riguardo alla disamina della ragionevolezza, con riferimento alla data della proposizione, della scelta di percorrere in prima battuta l’opzione del deposito di una domanda di concordato, quale strumento di risoluzione della crisi dagli stessi appena rilevata, il giudizio che il tribunale è chiamato a compiere, entro il perimetro del sindacato giudiziale consentito in sede concorsuale nel merito della fattibilità della proposta di concordato, non escluso dall’attestazione del professionista, e al contempo necessario ai fini della declaratoria di ammissibilità così come dell’omologazione della proposta, verte, anzitutto, sulla legittimità della stessa, intesa come non incompatibilità con le norme ordinamentali, e si estende, altresì, alla verifica della non manifesta inettitudine del piano sotto il profilo economico, intesa come effettiva realizzabilità della causa concreta del concordato, inserita nel quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur parziale, dei creditori, fermo il controllo della completezza e della correttezza dei dati informativi forniti ai creditori ai fini della consapevole espressione del voto; riservata essendo, per contro, al comitato dei creditori la valutazione della fattibilità del medesimo piano sotto il profilo strettamente economico.
Presunta adozione abusiva di accordi di ristrutturazione dei debiti e sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione
L’affermazione della responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi derivanti dagli artt. 2447, 2485 e 2486 c.c. presuppone che: (i) risulti specificamente cristallizzato l’arco temporale a partire dal quale non avrebbe dovuto essere proseguita la consueta attività imprenditoriale; (ii) emerga che, in epoca successiva alla perdita del capitale sociale, fossero state poste in essere attività estranee ad una logica meramente conservativa; (iii) risulti acclarato che la prosecuzione della gestione, con modalità non meramente manutentive, avesse aggravato le perdite patrimoniali. Inoltre, occorre non soltanto che siano specificamente allegate e provate circostanze utili ai fini degli anzidetti accertamenti, ma anche che siano offerti elementi per la quantificazione del danno eziologicamente connesso a tale addebito.
La domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall. presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi dell’abuso del processo, che ricorre quando con violazione dei canoni di buona fede e correttezza e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per proseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento le ha predisposte.
Gli amministratori sono responsabili nel caso in cui adottino uno strumento inadeguato a gestire la crisi di impresa, sempre che, tuttavia, tale inadeguatezza, rilevata ex post, venga ritenuta tale con la ragionevolezza di un giudizio ex ante.
A cospetto di una domanda di accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis l. fall., in sede di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, il sindacato del tribunale non è limitato ad un controllo formale della documentazione richiesta, ma comporta anche una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza, in termini di plausibilità e ragionevolezza, della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo, nei tempi previsti per legge. L’attestazione del professionista, seppure indispensabile, non ha però un effetto vincolante sul giudice, né questi può limitarsi ad un esame estrinseco della relazione, limitata cioè alla persuasività delle argomentazioni. Infatti, benché al professionista attestatore sia demandato il compito di certificare la veridicità dei dati forniti dall’imprenditore e di esprimere una valutazione in ordine alla fattibilità del piano dallo stesso proposto, occorre precisare che il controllo del giudice su questi aspetti non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto sulla completezza e congruità logica della motivazione offerta dal professionista anche sotto il profilo del collegamento effettivo tra i dati riscontrati ed il giudizio espresso; il giudice può, infatti, discostarsi dal giudizio espresso dal professionista, così come potrebbe fare a fronte di non condivise valutazioni di un suo ausiliario.
La norma di cui all’art. 182 sexies l. fall. è stata introdotta dal legislatore al fine di non pregiudicare la possibilità di successo del piano di ristrutturazione dei debiti. Pertanto, è opportuno derogare alla disciplina civilistica degli obblighi gravanti sugli amministratori in caso di riduzione del capitale sociale, a partire dalla data di deposito delle domande di ammissione al concordato preventivo e di omologazione degli accordi di ristrutturazione, sino alla data dell’omologa o della declaratoria di inammissibilità della stessa. Resta tuttavia inteso che gli amministratori sono comunque tenuti al rispetto dell’art. 2486 c.c. fino al momento della presentazione delle ridette domande e, altresì, a convocare senza indugio l’assemblea al fine di adottare i dovuti provvedimenti qualora dovesse configurarsi una perdita di oltre un terzo del capitale sociale. D’altra parte, durante il suddetto arco temporale tanto non esime gli amministratori dal dovere di improntare la gestione in funzione della tutela del ceto creditorio e, dunque, preservare a tal precipuo scopo l’integrità del patrimonio sociale. In tali casi gli amministratori soggiacciono altresì ad un dovere di gestione in linea con il tipo di procedura concorsuale prescelta, potendo in talune ipotesi la prosecuzione dell’attività esser richiesta proprio al fine di soddisfacimento dei creditori (come nel caso di concordato in continuità, mentre in ordine all’accordo di ristrutturazione dei debiti non vi è una norma che imponga il divieto di gestione ordinaria dell’impresa). In ogni caso, una volta intervenuta l’omologa rivivono in capo agli amministratori tutti gli obblighi solo temporaneamente sospesi ai sensi dell’art. 182 sexies l. fall.; gli stessi, pertanto, una volta avvedutisi del procrastinarsi della situazione di crisi, devono adottare i provvedimenti richiesti dalla legge.
L’attestatore di un piano di risanamento può essere sempre chiamato a rispondere anche per semplice negligenza ex art. 1176, co. 2, c.c. e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c.; e tanto perché lo stesso, in ragione degli specifici obblighi assunti, è tenuto alla prestazione d’opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto dell’art. 1176, co. 2, e dell’art. 2236 c.c., espletando la sua attività professionale in modo funzionale non solo al raggiungimento dello scopo tipico cui essa è preordinata, ma anche al rispetto degli obblighi imposti ed al conseguimento degli effetti vantaggiosi previsti dalla normativa in concreto applicabile, dovendo altresì adottare tutte le misure e le cautele necessarie e idonee per l’esecuzione della prestazione, secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso concreto richiesto, sicché, in difetto, egli risponde dei danni originati dal comportamento non conforme alla diligenza qualificata cui è obbligato anche nella sola ipotesi di colpa lieve.
Presunta ritardata messa in liquidazione della società e abusivo ricorso al concordato preventivo
La tendenza che caratterizza gli ultimi interventi legislativi è caratterizzata da una sempre maggiore attenzione alla continuità aziendale, essendo possibile riconoscervi un chiaro favor alle procedure concorsuali che garantiscono il mantenimento dell’assetto produttivo rispetto a quelle che si basano sulla sua atomizzazione e conseguente liquidazione. Pertanto, in astratto, il ricorso allo strumento del concordato preventivo in luogo di altre procedure concorsuali di natura liquidatoria non è certamente deprecabile. La scelta di ricorrere a procedure concorsuali alternative a quelle liquidatorie non può, di per sé, essere considerata fonte di responsabilità da ritardata dichiarazione di fallimento costituendo, invece, una legittima modalità di soluzione della crisi messa a disposizione dall’ordinamento.
All’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.
Ricade su ciascun consigliere l’obbligo di agire informato, così come espressamente previsto anche per le s.r.l. a seguito della modifica dell’art. 2475 c.c. apportata dalla riforma del codice della crisi, che rimanda espressamente all’art. 2381 c.c., in base al quale gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società.
Responsabilità degli amministratori di una società in concordato preventivo nei confronti dei creditori e meritevolezza del contratto di swap
L’azione ex art 2394 c.c. si fonda sull’inosservanza da parte degli amministratori degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, tale da arrecare danno direttamente al patrimonio della società e solo in via mediata al ceto creditorio (c.d. danno riflesso) e ciò nella misura in cui a causa della inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio la riduzione del patrimonio determinata causalmente da detta mala gestio abbia a sua volta comportato la insufficienza del patrimonio alla soddisfazione delle ragioni creditorie. L’azione è extracontrattuale, sicché il creditore non può limitarsi ad allegare e provare il mancato pagamento del proprio credito, ma deve invece fornire, in primo luogo, puntuale allegazione e prova della specifica mala gestio addebitata all’amministratore e della perdita arrecata al patrimonio sociale che sia causalmente determinata dalla invocata mala gestio; in secondo luogo, puntuale allegazione e prova che detta perdita abbia determinato insufficienza in parte qua del patrimonio sociale a soddisfare le ragioni creditorie; infine, quando agisce il singolo creditore, vanno allegati e provati gli elementi che consentano la verifica del danno (nell’an e nel quantum) da egli in concreto riportato, tenendosi conto del fatto che la quota di patrimonio persa in ragione della condotta di mala gestio dell’amministratore sarebbe stata destinata a soddisfare non solo il creditore che agisce ma anche gli altri creditori secondo par condicio e diritti di precedenza dei creditori aventi cause di prelazione o comunque di poziorietà.
Nell’azione dei creditori sociali esperita ex art. 2394 c.c. le conseguenze risarcitorie non possono andare a vantaggio di un singolo creditore, bensì di tutto il ceto creditorio, al fine di reintegrare il patrimonio attivo della società andato perduto, anche solo in parte, per effetto delle condotte di mala gestio ascrivibili agli organi gestori e/o di controllo. Sicché l’azione ex art. 2394 c.c. può essere proposta dai creditori, o anche solo da un creditore in loro rappresentanza, quando il patrimonio sociale, quale massa patrimoniale attiva, per effetto della/e condotta/e di mala gestio degli amministratori e/o sindaci si dimostra insufficiente al soddisfacimento dei crediti sociali, al fine di reintegrare il patrimonio sociale nella composizione esistente in epoca anteriore al verificarsi dell’evento di danno imputato agli amministratori. Il credito del singolo deve essere determinato quale frazione dell’intero monte crediti tutelato, nel rispetto della par condicio creditorum e delle cause legali di prelazione, secondo un riparto di tipo concorsuale.
Il giudizio di meritevolezza del contratto di swap deve essere dato secondo una valutazione operata ex ante, non ex post, non potendo esso essere ancorato al guadagno o alla perdita subita dall’investitore. In particolare, necessariamente ex ante va compiuta la valutazione circa l’esistenza di una funzione pratica di copertura del derivato, atteso che può predicarsi una corretta e prudente gestione del rischio solo se i derivati siano di copertura. Affinché uno swap esplichi una funzione di copertura, occorre che vi sia una correlazione tra l’operazione ed il rischio da coprire. Gli elementi oggetto di copertura contro il rischio di variazione dei tassi di interesse (o dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato o contro il rischio di credito) sono valutati simmetricamente allo strumento derivato di copertura: si considera sussistente la copertura in presenza, fin dall’inizio, di stretta e documenta correlazione tra le caratteristiche dell’operazione coperta e quelle dello strumento di copertura; sussiste tale correlazione quando gli elementi portanti (ossia: l’importo nominale; la data di regolamento dei flussi finanziari; la scadenza; la variabile sottostante) dello strumento di copertura e dell’elemento coperto corrispondono o sono strettamente allineati.
L’azione ex art. 2394 c.c. nell’esecuzione di un concordato preventivo e la responsabilità per asserita illegittima prosecuzione dell’attività
Il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità dell’amministratore nei confronti dei creditori sociali rimane sospeso tra la data dell’omologazione del concordato preventivo e la data di risoluzione dello stesso in ragione dell’obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori anteriori ai sensi dell’art. 184 l. fall., cosicché risulta agli stessi preclusa l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, tenuto conto dell’estinzione dei crediti per la parte che supera la percentuale prospettata nella proposta concordataria.
L’individuazione del momento in cui si è verificata la perdita del capitale sociale e/o della continuità aziendale è rilevante per accertare la responsabilità degli amministratori per i danni cagionati alla società e ai creditori, per effetto dell’illegittima prosecuzione dell’attività sociale ex art. 2486 c.c., in relazione ad atti non conservativi dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Gli amministratori non possono essere ritenuti responsabili delle perdite maturate dall’impresa, senza la prova che il deficit patrimoniale sia stato conseguenza delle condotte gestorie compiute dopo la riduzione del capitale sociale, e possono essere chiamati a rispondere solo dell’aggravamento del dissesto cagionato dalle ulteriori perdite che siano derivate dalla loro condotta illegittima, in quanto commessa al di fuori dei poteri di conservazione del patrimonio sociale.
Il curatore fallimentare che intenda far valere la responsabilità dell’ex amministratore per illegittima prosecuzione dell’attività dopo il realizzarsi di una causa di scioglimento deve allegare e provare che, successivamente alla perdita del capitale, sono state intraprese iniziative imprenditoriali connotate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa.
Prededucibilità dei crediti ex art. 111 L.F.
Non è sufficiente perché il credito sia ammesso al concorso in prededuzione, che lo stesso abbia a maturare durante la pendenza di una procedura concorsuale, essendo presupposto indefettibile per il riconoscimento del detto rango, che la genesi dell’obbligazione sia temporalmente connessa alla pendenza della procedura medesima – ché in caso contrario tutti i crediti sorti nell’ambito dei rapporti di durata sarebbero prededucibili – e che, comunque, l’assunzione di tale obbligazione risulti dal piano e dalla proposta.
Mancata accettazione della proposta irrevocabile di acquisto del ramo di azienda e responsabilità degli amministratori
La mancata accettazione della proposta di acquisto del ramo di azienda non può essere addebitata a condotta dolosa dell’amministratore, qualora la stessa condotta non sia venuta a concretizzarsi in un radicale ostacolo alla prosecuzione della produzione oggetto del ramo di azienda affittato o in uno “spoglio” di beni aziendali (nella specie, diniego allo spostamento di taluni macchinari produttivi dal sito produttivo del ramo di azienda affittato alla sede dell’affittuario che non ha tuttavia comportato l’interruzione della produzione del ramo di azienda, già affidata ad altra subfornitrice).
In caso di mancata accettazione della proposta irrevocabile di acquisto di ramo di azienda o in caso di caducazione dell’offerta, rimane comunque acquisita dall’affittante la parte di canone di affitto imputata ad acconto sul corrispettivo finale di acquisto, se la proposta di acquisto non prevede alcun meccanismo restitutorio della parte di canone di affitto imputata a prezzo né per l’ipotesi di cessione a terzi dei rami di azienda, né per quella di mancata accettazione della proposta entro il termine di validità della medesima.
Responsabilità degli amministratori per presentazione di una domanda di concordato “abusiva”
È da configurarsi una responsabilità degli amministratori di una società nel caso in cui gli stessi presentino una domanda di ammissione al concordato “abusiva”, vale a dire unicamente finalizzata a posticipare in maniera fraudolenta il fallimento della società.
Applicabilità dell’art. 184 l. fall. e dell’art. 2506-quater c.c. nell’ambito di una scissione eseguita in attuazione di un concordato preventivo
L’art. 184 l. fall. che prevede, da un lato, l’obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori e, dall’altro, la salvezza dei diritti dei creditori (senza alcun limite) nei confronti dei coobligati e fideiussori, non è applicabile in relazione ad una società beneficiaria neo-costituita in sede di scissione eseguita in attuazione di un concordato preventivo. Ciò in quanto “i coobligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso” richiamati dall’art. 184, primo comma, secondo periodo, l. fall. sono soltanto quelli anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo (oggi alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’articolo 161 l. fall.), con la conseguenza che non può rientrare in tale categoria la società beneficiaria neo-costituita in sede di scissione, non essendo essa neppure esistente in epoca anteriore alla procedura concordataria.
Il piano di concordato che preveda, per la sua attuazione, l’esecuzione di una operazione di scissione, può legittimamente determinare quale delle società coinvolte nella scissione sia tenuta – in via esclusiva – a provvedere al soddisfacimento di una data classe di creditori. E va da sè che l’approvazione, da parte dei creditori, del piano concordatario renda quella determinazione “intangibile” con conseguente esclusione dell’applicazione, alla fattispecie, della regola ordinaria della responsabilità solidale di tutte le società coinvolte nell’operazione straordinaria ai sensi dell’art. 2506-quater c.c.
Tuttavia, ove il concordato preventivo venga dichiarato risolto, tornano ad applicarsi le regole societarie ordinarie e, dunque, non potendo predicarsi una qualche forma di invalidazione dell’operazione di scissione e la conseguente “riunificazione” dei patrimoni oramai definitivamente assegnati alle singole beneficiarie (stante il principio di irretrattabilità degli effetti della scissione di cui all’art. 2504-quater c.c. richiamato dall’art. 2506-ter, u.c., c.c.), anche la responsabilità solidale delle società coinvolte nella scissione.