Denuncia di gravi irregolarità e gestione di operazioni in conflitto di interessi
L’art 2391 c.c. definisce una serie di fasi che devono essere seguite nel caso sussista un interesse proprio o di terzi: in primo luogo, l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori di questa situazione di interesse per una determinata operazione; in secondo luogo, la notizia deve contenere la natura, i termini, l’origine e la portata del potenziale conflitto; in terzo luogo, la deliberazione del CdA deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione.
I presupposti per l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. sono: il compimento da parte degli amministratori, in violazione dei loro doveri, di gravi irregolarità nella gestione; il danno potenziale; l’attualità delle irregolarità. [Nel caso di specie il Tribunale ritiene sussistenti e attuali le gravi irregolarità richieste dalla norma, in ragione: a) dell’inosservanza della procedura prevista dall’art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi con riferimento alla stipulazione di contratti di locazione; b) dell’assenza di valutazione in merito alla convenienza per la società di stipulare nuovamente i contratti con parti in conflitto di interessi, nonché dei forti dubbi sulla congruità dei nuovi canoni di locazione; c) dell’assenza di qualsivoglia concreta iniziativa da parte degli amministratori indipendenti per tutelare il patrimonio della società per gli ingenti danni subiti a causa di decenni di canoni notevolmente al di sotto dei valori di mercato.]
Abuso di maggioranza e conflitto di interessi nell’aumento del capitale mediante compensazione
Il conflitto di interessi implica una vera e propria incompatibilità fra l’interesse concreto della società e quello del socio, messo in gioco nell’esercizio del voto e non può ritenersi sussistente per il solo fatto che la maggioranza abbia dato corso a un aumento di capitale con “minimo sforzo economico” mediante compensazione con i crediti vantati dai soci stessi per i finanziamenti precedentemente effettuati in favore della società.
Rispetto all’abuso di maggioranza, va ricordato che il socio è pienamente libero di votare le delibere secondo la valutazione del suo proprio interesse, con il solo limite di non esercitare il voto secondo mala fede, ciò che avviene quando il voto è esercitato con il solo scopo di danneggiare gli altri soci, senza che vi sia alcun legittimo interesse proprio. In tale contesto, l’interesse della società, spesso di difficile individuazione, rimane sullo sfondo: ma nella materia dell’aumento di capitale plurimi indici normativi favorevoli agli aumenti (anche della disciplina transitoria del periodo Covid) spingono a considerare l’aumento di capitale tendenzialmente come fatto che risponde sempre all’interesse della società.
Se anche l’aumento è ottenuto mediante liberazione da debiti, senza iniezione di capitale, ciò è sempre di vantaggio della società, che vede anche aumentare il patrimonio netto. Quando si tratta di convertire in capitale delle pregresse effettive iniezioni di liquidità dei soci, non si fa che dare risposta a quella esigenza, normativamente tutelata anche mediante la disciplina della postergazione, secondo la quale le necessità della società vanno sovvenute dai soci mediante aumento di capitale.
L’art. 2467 c.c., stabilendo che siano postergati i finanziamenti soci che siano fatti quando sarebbe invece opportuno un conferimento, non stabilisce una regola sterile e meramente punitiva per il socio, ma sottende la regola dell’obbligo del socio di aumentare il capitale, quando ciò è necessario, se vuole che il programma societario proceda.
La business judgment rule opera solo in assenza di un conflitto di interessi
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. ha carattere unitario e inscindibile poiché cumula le azioni disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. in un’unica azione finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, in modo tale che, venendo a mancare i presupposti dell’una, soccorrono i presupposti dell’altra. In caso di fallimento, pertanto, le diverse azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dal codice civile, pur rimanendo tra loro distinte, confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne muta i presupposti.
L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte dolose o colpose degli amministratori poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che quest’ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sui sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Il danno risarcibile è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente e, in difetto di tale allegazione e prova, la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto.
La mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. Una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.
La figura dell’amministratore di fatto ricorre nelle ipotesi in cui un soggetto non formalmente investito della carica di amministratore si ingerisce nell’amministrazione, esercitando i poteri propri inerenti alla gestione della società. Tali funzioni gestorie esercitate in via di fatto debbono avere carattere sistematico e non esaurirsi nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e occasionale.
All’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere e, quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. L’insindacabilità delle scelte di gestione dell’amministratore trova un limite anche nella presenza di una situazione di conflitto di interesse non manifestata.
Sussiste un conflitto di interessi quando gli interessi di cui sono portatori l’amministratore e la società sono in una relazione di incompatibilità, tale per cui il perseguimento dell’uno comporta il necessario sacrificio dell’altro. Ciò significa che al vantaggio conseguibile dall’amministratore in base all’operazione deve corrispondere, anche se non in modo necessariamente proporzionale, uno svantaggio della società, che può anche consistere in un mancato guadagno. Il comportamento dell’amministratore che agisce in conflitto di interessi deve ritenersi sindacabile sotto il profilo della violazione del generale dovere di correttezza cui egli è tenuto nel rapporto con la società.
Ai sensi degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c., gli amministratori, in caso di perdita di oltre un terzo del capitale, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la sola ed eventuale riduzione del capitale e non anche la messa in liquidazione, a meno che la perdita non comporti la riduzione al disotto del capitale minimo. Nel caso in cui il minimo legale non sia stato intaccato, la riduzione non è obbligatoria, potendo la società decidere di portare a nuovo le perdite, ma sussiste comunque l’obbligo, per gli amministratori, di convocare l’assemblea senza indugio per l’adozione degli opportuni provvedimenti e di redigere una relazione sulla situazione patrimoniale della società con le osservazioni del collegio sindacale o del revisore. In tal caso, la riduzione del capitale sociale ha funzione meramente dichiarativa, tendente a far coincidere l’entità del capitale nominale con quello effettivo, riconducendo il primo alla misura del secondo, se e in quanto questo sia realmente divenuto inferiore all’ammontare indicato nell’atto costitutivo.
Limiti al diritto di controllo dei soci sulla gestione
Il diritto del socio che non partecipa all’amministrazione ad esercitare il controllo sulla gestione della S.r.l., anche per il tramite dell’accesso ai documenti, non può pregiudicare il diritto della società a mantenere la riservatezza su dati sensibili, che il socio potrebbe utilizzare contro di lei. Il rischio di una strumentalizzazione del diritto di accesso è più evidente quando il socio è in posizione di potenziale concorrenza, perché opera nel medesimo settore. Il diritto alla consultazione della documentazione sociale ed alla estrazione di copia dei documenti può, infatti, essere limitato – salvo concretizzare il bilanciamento caso per caso – attraverso il “mascheramento preventivo dei dati presenti nella documentazione”, quali, ad esempio, i dati relativi ai nominativi di clienti e fornitori (sostituiti da una simbologia che consenta la riconciliazione dei dati) che, se divulgati, potrebbero dare luogo ad uno svantaggio in termini di concorrenza ai danni della società partecipata dallo stesso socio ricorrente.
Invero, nel contemperamento degli interessi contrapposti, appare necessario tutelare anche quello della società resistente a mantenere riservate, rispetto al socio che opera per società concorrenti quelle informazioni che possono attribuire sul mercato alla società un certo vantaggio competitivo o comunque quelle informative attinenti all’assetto sociale che se rese note alla società concorrenza possono portare detrimento.
Tali cautele si pongono, peraltro, anche in linea con la stessa tutela dei soci onde evitare situazioni negative alla Società partecipata, pur riconoscendo il diritto al socio stesso di accesso alla documentazione societaria.
Occorre dunque sempre bilanciare il diritto “individuale” della gestione sociale, cui è preordinato il diritto del socio ex art. 2476 c.c. secondo comma, con il diritto della società a mantenere riservate alcune informazioni strategiche per lo sviluppo del proprio business, laddove alle esigenze di controllo del socio si contrappongano non pretestuose esigenze di riservatezza fatte valere dalla società.
Impugnazione della delibera assembleare e nomina del curatore speciale
Nei giudizi di impugnazione delle deliberazioni assembleari di società non sussiste una ipotesi di conflitto immanente d’interessi, tale da condurre in ogni caso alla nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., tenuto conto che, in tali giudizi, il legislatore prevede la legittimazione passiva esclusivamente in capo alla società in persona di chi ne ha la rappresentanza legale, né è fondata una valutazione del menzionato conflitto in capo all’amministratore che rappresenti in giudizio detta società solo in ragione del fatto che la deliberazione impugnata ha ad oggetto profili di pertinenza di quest’ultimo (come avviene per l’approvazione del bilancio, redatto dall’organo gestorio, o per la determinazione del compenso spettante ex art. 2389 c.c. o per l’autorizzazione al compimento di un atto gestorio ex art. 2364, comma 1, n. 5, c.c.), poiché ravvisare in tali ipotesi una situazione di conflitto di interessi indurrebbe alla nomina di un curatore speciale in tutte, o quasi, le cause di impugnazione delle deliberazioni assembleari o consiliari, con l’effetto distorsivo, non voluto dal legislatore processuale, per cui il socio impugnante tenterebbe sempre di ottenere, mediante il surrettizio ricorso al procedimento di nomina di un curatore speciale, l’esautoramento dell’organo amministrativo dalla decisione delle strategie di tutela a nome della stessa.
L’impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di esercizio e della conseguente delibera di ricostituzione del capitale sociale non sono comprese tra le controversie societarie tipicamente caratterizzate da un antagonismo di posizioni tra società e amministratori (quale invece si verifica per esempio nell’azione sociale di responsabilità esercitata dal socio) per le quali è necessaria la nomina di un curatore speciale.
Invalidità della delibera assembleare sul compenso degli amministratori per conflitto di interessi
L’inadeguatezza, l’incongruità e l’incompatibilità, valutate sotto plurimi profili, degli emolumenti stabiliti per gli amministratori sono, per natura, entità e conseguenze, di per sé sufficienti ad integrare gli estremi del conflitto di interessi. È perciò invalida ai sensi dell’art. 2479 ter, comma 2, c.c., una delibera assembleare assunta con il voto determinante dei soci di maggioranza, nella contemporanea veste di amministratori, che attribuisca a questi ultimi un compenso del tutto inadeguato rispetto all’attività gestoria demandata agli stessi nonché irragionevole e sproporzionato rispetto alla situazione economico-finanziaria della società e alle sue caratteristiche dimensionali.
Il positivo accertamento dell’irragionevolezza e/o incongruità dei compensi prospetta un conflitto di interessi in ragione dell’identità soggettiva tra i soci il cui voto favorevole ha reso possibile l’assunzione della delibera assembleare e gli amministratori che ne hanno tratto beneficio, e quindi determina l’invalidità della delibera assembleare in merito alle statuizioni relative alla determinazione dei compensi a favore degli amministratori (nella specie il Tribunale, sulla base di una CTU, ha ritenuto incongruo il compenso degli amministratori determinato in una misura di circa il 15% del valore della produzione della società, anche in considerazione della modesta attività effettivamente richiesta).
Sull’invalidità dei contratti conclusi dall’ex amministratore in posizione di conflitto di interessi
Quando il preteso illecito consiste nell’aver tradito l’interesse del rappresentato da parte del rappresentante, avendo quest’ultimo agito infedelmente con la connivenza dell’altro contraente, il motivo dell’illiceità non può dirsi comune a entrambi i paciscendi. In questo caso, il motivo che ha supportato il rappresentante nella stipulazione non può farsi risalire alla parte rappresentata per l’evidente conflitto di interessi; ne consegue che la tutela rispetto a tale vizio è presidiata dall’ipotesi di cui all’art. 1394 c.c. e dal rimedio della annullabilità e non della nullità ex art. 1345 c.c. Anche in materia societaria il conflitto di interesse tra il rappresentante e il rappresentato trova tutela attraverso la categoria dell’annullamento (art. 2475 ter c.c.).
Deve distinguersi il negozio in frode alla legge da quello in frode ai terzi. Il primo è quello che persegue una finalità vietata dall’ordinamento in quanto contraria a norma imperativa o ai principi dell’ordine pubblico e del buon costume o perché diretta a eludere una norma imperativa ed è nullo. Al contrario, non si rinviene nell’ordinamento una norma che stabilisca in via generale l’invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, ai quali ultimi, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale. In tale categoria di contratti, rientra la fattispecie di frode posta in essere dal mandatario, il quale aliena beni del mandante contro l’interesse di quest’ultimo, o comunque per ragioni diverse da tale interesse (infedeltà patrimoniale).
La nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza dell’oggetto o per incertezza nei fatti costitutivi della domanda, ai sensi dell’art. 164, co. 4, c.p.c. sussiste solo ove tali elementi siano del tutto omessi, oppure risultino assolutamente incerti e comunque inadeguati a tratteggiare l’azione, in quanto l’incertezza non sia marginale o superabile, ma investa l’intero contenuto dell’atto, posto che la lettura dell’art. 163 c.p.c. non può essere meramente formalistica. L’esigenza di adeguata determinazione dell’oggetto del giudizio, indispensabile garanzia dell’effettività del contraddittorio e del diritto di difesa, è soddisfatta con l’identificazione dei fatti che concorrono a costituire gli elementi costitutivi della responsabilità al fine di consentire alla controparte di approntare tempestivi e completi mezzi difensivi.
Annullabilità del contratto concluso dall’amministratore unico di s.r.l. in conflitto di interessi
Gli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 2475 ter c.c. debbono essere interpretati nel senso che, affinché ricorra la situazione di conflitto di interessi, è necessario un rapporto di incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante (o di un terzo che egli a sua volta rappresenti) e tale rapporto – da riscontrare non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento specifico al singolo atto, e che costituisce causa di annullabilità per vizio della volontà negoziale (sempre che detta situazione sia conosciuta o conoscibile dall’altro contraente) – è ravvisabile rispetto al contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano l’utile di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro.
L’art. 2475 ter c.c. presuppone che l’amministratore, portatore di un interesse in conflitto con la società, abbia avuto la possibilità di influire sul contenuto negoziale dell’atto. Al contrario, ove egli si sia per ipotesi limitato a recepire all’interno del contenuto negoziale la volontà dei soci cristallizzatasi in una decisione della società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della norma: tale soluzione appare coerente con la norma di ordine generale di cui all’art. 1395 c.c., che esclude l’annullabilità del contratto con sé stesso in caso di predeterminazione del contenuto del contratto da parte dello stesso rappresentato.
L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società parte del contratto che si assume viziato e il suo amministratore non può farsi discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società – che sostiene di aver stipulato il contratto contro la propria volontà – e il suo amministratore e della riconoscibilità della stessa da parte dell’altro contraente.
Fusione e rapporto di cambio; il conflitto di interessi del socio di s.r.l.
Sotto il profilo strutturale, la fusione si presenta come una modificazione degli statuti sociali delle società interessate, mediante le rispettive deliberazioni di approvazione del progetto di fusione (art. 2502 c.c.) che apportano all’originario regolamento di interessi fra i soci di ciascuna società fusa o incorporata, una innovazione decisamente radicale, posto che scompare quella forma di esercizio dell’impresa, a favore di altro involucro formale. Dal momento dell’iscrizione della cancellazione della società incorporata dal registro delle imprese, questa si estingue, quale evento uguale e contrario all’iscrizione della costituzione di cui all’art. 2330 c.c. Non si prospetta una mera vicenda modificativa, ricorrendo invece una vera e propria dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio. La fusione realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. La fusione non è, in sé, operazione che mira a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione), né unicamente a trasferirli ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come, ad esempio, il conferimento in società, la cessione dei crediti o dei debiti, la cessione di azienda), quanto a darvi prosecuzione, mediante il diverso assetto organizzativo: ma ciò non può essere sminuito ed artificiosamente ridotto ad una vicenda modificativa senza successione in senso proprio in quei rapporti. In sostanza, si verificano entrambi gli effetti, l’estinzione e la successione, senza distinzione sul piano cronologico, derivando entrambe dall’ultima delle iscrizioni previste dall’art. 2504 c.c. (salva la possibilità di stabilire una data diversa ex art. 2504 bis, co. 2 e 3, c.c.).
L’art. 2479 ter, co. 2, c.c. prevede che, qualora risultino potenzialmente lesive per la società, possono essere impugnate le decisioni assunte con la partecipazione determinante dei soci che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della medesima società. Sicché si verifica una ipotesi di conflitto di interesse del socio in presenza di due condizioni: (i) che la decisione possa recare danno alla società; (ii) che la partecipazione del socio, che si trovi in una situazione, per conto proprio o di terzi, di conflitto di interessi con la società, sia stata determinante per la sua adozione. Dal tenore letterale della predetta disposizione si ricava che il conflitto di interessi non rappresenta ex se una condizione in grado di inficiare la votazione, posto che l’invalidità della delibera presuppone che il voto del soggetto in conflitto sia stato determinante per il raggiungimento della maggioranza necessaria e che la delibera assunta possa recare alla società un danno, anche in via meramente potenziale. Per quanto attiene alla nozione di conflitto di interessi, esso consiste in una contrapposizione tra l’interesse particolare di uno dei soci e l’interesse della società, di modo che l’uno non possa essere salvaguardato senza l’altro. Il conflitto ricorre quando l’interesse di cui il socio è in concreto portatore si pone in contrasto o appare incompatibile con l’interesse della società e non solo con l’interesse di altri soci o gruppi di soci. Non è, dunque, sufficiente che il socio miri a realizzare, in tutto o in parte, il proprio interesse personale, occorrendo anche che tale interesse si ponga obiettivamente in contrasto con quello della società e che la deliberazione sia idonea a ledere quest’ultimo interesse. Per contro, non rileva ai fini dell’impugnazione il caso in cui la decisione consenta al socio di conseguire un interesse personale ulteriore e diverso rispetto all’interesse della società, senza, tuttavia, implicare un pregiudizio neppure potenziale. Il secondo presupposto è costituito dal carattere determinante della partecipazione del socio in conflitto alla decisione. Infatti, a differenza di quanto previsto in materia di società per azioni (art. 2372, co. 1 c.c., dove si fa riferimento al voto determinante), nell’art. 2479 ter c.c. il legislatore richiede che determinante sia non già il solo voto, ma la partecipazione, intervenendo dunque non solo sul quorum costitutivo ma anche su quello deliberativo. Sicché il legislatore ha voluto prendere in considerazione anche il comportamento del socio che, partecipando all’assemblea, consente il conseguimento del quorum costitutivo e, dunque, l’adozione della deliberazione a prescindere dal comportamento assunto in sede di voto, purché, evidentemente, tale partecipazione abbia un effetto determinante per l’adozione della deliberazione. Atteso, poi, il tenore delle censure svolte dalle parti, appare opportuno rammentare che, per gli effetti di cui all’art. 2479 ter, co. 2, c.c., rileva solo il conflitto e contrasto tra l’interesse della società e quello perseguito dal socio il cui voto sia stato determinante ai fini dell’adozione della delibera, e non, invece, la situazione di conflitto di interessi tra i vari soci.
In tema di fusione societaria, la determinazione rapporto di cambio, rientrante tra i compiti esclusivi dell’organo amministrativo, assolve alla funzione di individuare la proporzione matematica fra la partecipazione del socio nella società incorporata e la partecipazione al medesimo assegnata nella società incorporante o risultante dalla fusione, operandosi il conseguente annullamento della prima, sostituita dalla seconda (la c.d. conversione). Il valore delle azioni della società coinvolta nell’operazione di fusione, quale base per il calcolo del rapporto di cambio, dipende direttamente dalla consistenza del patrimonio sociale: ivi comprese le partecipazioni detenute in altre società, ovvero il corrispettivo ricavato dalla loro vendita a terzi che sia entrato nel patrimonio sociale, in luogo delle partecipazioni, all’atto della cessione. In tema di rapporto di cambio, il legislatore domestico non pretende l’assoluta esattezza matematica; invero, ha omesso di indicare criteri inderogabili cui attenersi nella stima, ritenendo congruo il concambio che si ponga all’interno di una ragionevole banda di oscillazione. Ne deriva che la rilevanza dell’incongruità è in re ipsa solo nelle ipotesi in cui la scelta dell’organo amministrativo cada su un valore esterno alla predetta banda di oscillazione della valutazione, sì da danneggiare i soci. Tuttavia, nella prospettiva cautelativa dei soci delle società partecipanti alla fusione, l’art. 2501 sexies c.c. prevede la relazione degli esperti in ordine alla congruità del rapporto di cambio. Gli esperti sono tenuti a rendere un parere sull’adeguatezza e sul metodo seguito dall’organo amministrativo nel fissare il rapporto medesimo. Nondimeno, detto parere non è vincolante per l’assemblea, né impedisce la prosecuzione dell’operazione anche se contiene parere negativo.
Annullamento di un contratto di locazione per conflitto di interessi
Perché un contratto venga annullato per conflitto di interessi tra il rappresentante e il rappresentato è necessario che il conflitto risulti in concreto e che il contratto sia pregiudizievole per gli interessi del rappresentato.