Il marchio come firma di un’opera e lo stato soggettivo per l’inibitoria
Il marchio è un segno distintivo di un prodotto, che rende riconoscibile il suo produttore. Non costituisce contraffazione di marchio l’utilizzo della componente figurativa di un marchio, anche se registrato, ove esso sia utilizzato non in funzione di marchio, ma abbia finalità meramente illustrative (ferma restando l’illecito utilizzo di opere altrui).
Riprodurre l’opera altrui, utilizzandola a fini commerciali senza alcuna autorizzazione dell’autore, costituisce un plagio, ossia un atto illecito; e tanto più integra l’illecito riprodurre la stessa opera dopo aver cancellato la firma dell’autore.
Cancellare il marchio, fosse esso nominativo o figurativo e che in relazione all’opera rappresenta la firma dell’autore, integra violazione non solo del diritto di sfruttamento economico dell’opera ma anche del diritto morale, poiché significa occultarne volontariamente la paternità.
È da presumere che un distributore titolare di un marchio si informi della provenienza dei prodotti da distribuire anche con il proprio segno distintivo.
La tutela del diritto d’autore e dei segni distintivi prescinde dallo stato soggettivo di chi ha partecipato alle contraffazioni, talché è possibile inibire la reiterazione di condotte di concorso anche a chi le abbia poste in essere incolpevolmente ignorando la sussistenza di una contraffazione; ma questo vale in un giudizio di merito, al quale il concorrente inizialmente di buona fede abbia dato causa alimentando in qualche modo la controversia tra le parti (mentre potrebbe non ravvisarsi alcun interesse apprezzabile a ottenere una inibitoria nei confronti di chi abbia subito riconosciuto il diritto altrui e si sia immediatamente e definitivamente astenuto da altre condotte lesive).
Uno stato soggettivo di assoluta buona fede, da parte di chi non aveva alcun motivo per sospettare una contraffazione, o era addirittura nell’impossibilità materiale di riconoscerla, non consente di ravvisare rischi di reiterazione di condotte lesive dei diritti d’autore del ricorrente; e ciò porta a escludere, quanto meno, l’urgenza di un provvedimento cautelare che inibisca la loro commercializzazione.
Non ha ragion d’essere un ordine di pubblicazione del dispositivo sul sito web e sulle pagine social del ricorrente, che può liberamente procedervi nel rispetto della riservatezza delle parti diverse dai diretti concorrenti al plagio.
Segni identici: la tutela conferita dal marchio e dalle norme sulla concorrenza sleale
Una medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di segni distintivi ma solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi dell’art. 2598 c.c.
La protezione riconosciuta ai marchi che godono di notorietà consiste nel consentire ai titolari di vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, di usare nel commercio senza giusto motivo un segno identico o simile – tanto per prodotti o servizi simili, quanto per prodotti o servizi non simili a quelli per i quali tali marchi sono registrati – che tragga indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà di detti marchi o arrechi pregiudizio agli stessi. La tutela accordata al marchio rinomato comporta, dunque, che la stessa si estende anche al caso di prodotti o servizi non affini e prescinde dall’accertamento di un rischio di confusione tra i segni, essendo sufficiente che il pubblico interessato in concreto possa cogliere l’esistenza di un nesso, ossia di un grado di similarità, tra il marchio notorio e quello successivo.
Esistono vari livelli di rinomanza, che vanno dai segni noti alla generalità della popolazione a quelli solo largamente accreditati presso un segmento del pubblico dei consumatori, cui si accompagnano diverse estensioni della tutela. Il diverso livello di rinomanza incide sull’onere della prova, ben potendo, in caso di segni notori, farsi ricorso anche alle nozioni di comune esperienza, mentre risulta necessario, a livelli più bassi di conoscenza del pubblico, fornire una prova più compiuta, attraverso indagini di mercato o dimostrando l’entità della promozione pubblicitaria e la penetrazione della stessa.
In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno. Non può esserci concorrenza tra imprese che operano in contesti territoriali tra loro molto distanti.
Concorrenza sleale: l’illecito non può derivare dal danno commerciale in sè
La concorrenza sleale deve consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull’attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l’illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza.
Il mero segno grafico non è sufficiente a distinguere due marchi operanti nel settore moda
In tema di tutela del marchio, l’apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando non soltanto l’identità o almeno la confondibilità dei due segni, ma anche l’identità e la confondibilità tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinità; tali giudizi non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cd. “confondibilità tra imprese”. [Nel caso concreto il giudice ritiene che l’apposizione di un mero punto tra le due parole che compongono il marchio del convenuto non appare idonea a distinguerla dal marchio dell’attore, tanto più ove si consideri che entrambi vengono utilizzati per la pubblicizzazione e commercializzazione di abbigliamento]
Tutela del marchio: somiglianza, confondibilità e rischio di confusione dei prodotti
In tema di contraffazione di marchio registrato, ai fini dell’applicabilità da parte del legittimato della tutela offerta dell’art. 20 c.p.i. è necessario che la contraffazione abbia avuto riguardo ad un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, laddove a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. [Nel caso di specie, il Tribunale di Napoli rigetta la domanda di parte attrice giudicando non confondibili i prodotti contrassegnati dai marchi oggetto di causa, trattandosi nel caso di specie di un prodotto farmaceutico mutuabile venduto dietro ricetta medica e un integratore alimentare, a nulla rilevando che i marchi siano registrati per la medesima classe atteso che la ripartizione dei prodotti in classi merceologiche ha mera valenza di carattere amministrativo e non può spiegare effetti nella valutazione di affinità dei prodotti stessi.]
Contraffazione del marchio “Richmond” e atti integranti concorrenza sleale
Sebbene siano astrattamente compatibili e cumulabili la tutela dei segni distintivi prevista dal codice della proprietà industriale e quella prevista dal codice civile in tema di concorrenza sleale, la medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di segni distintivi solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi dell’art. 2598 c.c.
Va esclusa la concorrenza sleale se il titolare della privativa industriale si sia limitato a dedurre la sua contraffazione, se le due condotte consistano nel medesimo addebito integrante la violazione del segno. In buona sostanza, dall’illecito contraffattorio non discende automaticamente la concorrenza sleale, che – dunque – deve constare di un quid pluris rispetto alla pura violazione del segno, cioè di una modalità ulteriore afferente il fatto illecito.
È contrario alle regole della correttezza professionale assumere un impegno formale di non utilizzo di marchi nella propria attività commerciale al fine di chiudere un contenzioso e poi adottare, poco dopo, una condotta affatto contraria all’impegno assunto; l’idoneità a danneggiare l’altrui azienda ben può essere solo potenziale.
Rete di distribuzione selettiva, esaurimento del marchio e contraffazione
L’esistenza di una rete di distribuzione selettiva può essere ricompresa tra i “motivi legittimi” ostativi all’esaurimento del marchio, a condizione che il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che legittimi la scelta di adottare un sistema di distribuzione selettiva e che sussista un pregiudizio effettivo all’immagine di lusso o di prestigio del marchio per effetto della commercializzazione effettuata da terzi estranei alla rete di distribuzione selettiva. Ne consegue che, in presenza delle suddette condizioni, il titolare di un marchio può opporsi, con l’azione di contraffazione, alla rivendita dei propri prodotti da parte di soggetti esterni alla propria rete di distribuzione selettiva, anche qualora costoro abbiano acquistato da licenziatari o da rivenditori autorizzati (Corte Giustizia UE, sentenza 23.4.2009, causa C-59/08). Tale principio – affermato in relazione a vendite di terzi estranei alla rete di distribuzione selettiva che tuttavia hanno acquisito i prodotti da appartenenti alla rete – appare del tutto applicabile anche nel caso di soggetti legati da rapporti contrattuali, attesa l’identità dei suoi presupposti e tenuto conto che la circolazione dei prodotti al di fuori della rete di distribuzione selettiva comporta danni all’immagine in relazione all’immissione in commercio del prodotto (ancorché originale) al di fuori della sfera di controllo della titolare del marchio (o nel caso di specie della società che agisce per essa sulla base delle attribuzioni ad essa affidate dalla titolare del marchio)
La potenziale concorrenzialità tra imprenditori operanti nel settore automobilistico è idonea ad integrare l’illecito della concorrenza sleale
In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.
Contraffazione del marchio di una catena di supermercati e concorrenza sleale
La concorrenza sleale per appropriazione di pregi, che richiede un comportamento attivo e specifico, ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente. [nel caso di specie viene riconosciuta solo un’ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile del segno, ai sensi dell’art.2598 n. 1 c.c., considerata la sussistenza del rapporto concorrenziale tra le due imprese]
Risoluzione dell’accordo di coesistenza ed azione di contraffazione di un marchio utilizzato per prodotti di bellezza
La buona fede nella esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo tale da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico. Si ritiene, pertanto, che un compromesso negoziale fondato anche su particolari piccoli impone alle parti di uniformare i propri comportamenti a un livello molto elevato di correttezza, tale da evitare che anche in via indiretta si possano generare o anche solo avallare fraintendimenti ed equivoci. La violazione continuata e duratura delle disposizioni contrattuali, nonché del canone di lealtà costituisce inadempimento contrattuale di indubbia rilevanza e oggettiva gravità, tale, quindi, da giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione. Nei contratti a esecuzione continuata, in conformità della previsione di cui all’art. 1458 c.c., l’efficacia della pronuncia retroagisce al momento della litispendenza, con conseguente cessazione degli effetti contrattuali alla data della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio.