Inidoneità della mancanza delle scritture contabili a giustificare la condanna dell’amministratore
La mancanza di scritture contabili, ovvero la sommarietà di redazione di esse o la loro inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso di causalità rispetto ai fatti causativi del dissesto. Essa presuppone, invece, per essere valorizzata in chiave risarcitoria nel contesto di una liquidazione equitativa, che sia comunque previamente assolto l’onere della prova, e prima ancora dell’allegazione, circa la l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale. Il criterio del deficit fallimentare è applicabile soltanto come criterio equitativo per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno, sussistendo però la prova almeno presuntiva di condotte tali da generare lo sbilancio fra attivo e passivo.
Le scritture contabili hanno la funzione di rappresentare dei fatti di gestione e la loro mancanza o la loro irregolare tenuta sono illeciti meramente formali che certamente sono suscettibili di essere valorizzati ad esempio ai fini della revoca dell’amministratore o della denuncia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c., ma che, ai fini della responsabilità dello stesso amministratore, non hanno di per sé soli una rilevanza tale da consentire di addebitare allo stesso sic et simpliciter la perdita.
Il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione.
È onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale. Soltanto una volta soddisfatti tali oneri, la mancanza delle scritture contabili rileva quale presupposto per l’utilizzo dei criteri equitativi differenziali. Il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che vi sia la prova dell’esistenza del medesimo e del nesso di causalità ma che la quantificazione del danno non sia agevole; il potere, invece, non può essere esercitato né invocato dal danneggiato quale modalità per aggirare l’onere della prova relativamente agli elementi costitutivi dell’illecito.
Con riguardo alla responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la quale sia stata compromessa da prelievi di cassa o pagamenti in favore di terzi in assenza di causa, deve ritenersi dimostrata per presunzioni la distrazione del denaro sociale da parte dell’amministratore ove questi non provi la riferibilità alla società delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali.
La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità
L’azione sociale di responsabilità si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte, dolose o colpose, degli amministratori, poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. Per gli amministratori di una società a responsabilità limitata, al pari di quelli delle società per azioni, è richiesta non la generica diligenza del mandatario, cioè quella tipizzata nella figura dell’uomo medio, ma quella desumibile in relazione alla natura dell’incarico e alle specifiche competenze, cioè quella speciale diligenza prevista dall’art. 1176, co. 2, c.c. per il professionista.
La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che questa ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e i sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Invero, spetta all’attore l’onere dell’allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico.
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, co. 2, l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.
Una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.
I cc.dd. criteri del deficit fallimentare e dei netti patrimoniali di cui all’art. 2486, co. 3, c.c. è applicabile anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore della norma.
Responsabilità degli amministratori e sequestro conservativo
Nell’ambito di un procedimento cautelare per sequestro conservativo, il requisito del periculum e il fondato timore di perdere le garanzie del credito possono essere anzitutto provati per il tramite di elementi obiettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito. Tale elemento costitutivo della cautela invocata deve sussistere sulla base di un elemento oggettivo e di uno soggettivo. Il criterio oggettivo si precisa nel senso che la semplice insufficienza del patrimonio del debitore può non essere decisiva ai fini della concessione del sequestro, poiché la specificità della cautela consiste nell’assicurare la fruttuosità della futura esecuzione forzata contro il rischio di depauperamento del patrimonio nelle more del giudizio. È quindi necessario che esistano circostanze oggettive (come protesti, pignoramenti, azioni esecutive iniziate da altri creditori, atti di dismissione del patrimonio o preparatori alla sottrazione degli stessi) che facciano temere l’impoverimento del debitore nell’intervallo. Inoltre, il periculum in mora può essere altresì dimostrato per il tramite di elementi soggettivi evincibili dal comportamento del debitore, tali da lasciare presumere che egli, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio, sottraendolo all’esecuzione forzata.
Responsabilità solidale degli amministratori di fatto e di diritto e quantificazione del danno in assenza di scritture contabili
L’amministratore di fatto è titolare, nello svolgimento della sua gestione, dei medesimi poteri degli amministratori di diritto, ed è correlativamente assoggettato agli obblighi previsti dalla legge, ivi compreso, ai sensi dell’art. 2392 c.c., quello generale di vigilanza sull’andamento della gestione. Ne consegue che, nel caso in cui la società sia di fatto amministrata da soggetto diverso dall’amministratore formalmente nominato, le condotte di mala gestio sono imputabili anche all’amministratore di fatto.
In una situazione in cui la carenza delle scritture contabili impedisca al curatore di ricostruire l’andamento della gestione e di individuare specificamente le condotte che hanno cagionato il dissesto o comunque causative di eventuali danni ai creditori sociali, l’utilizzo del criterio dello “sbilancio” deve ritenersi possibile quantomeno allo scopo di quantificare in via equitativa il danno.
Illegittima prosecuzione dell’attività di impresa dopo la perdita del capitale sociale: calcolo del danno
I criteri di quantificazione del danno derivante da gestione non conservativa della società ex art. 2486 c.c. sono applicabili “salva la prova di un diverso ammontare”. Infatti, tanto il criterio c.d. “incrementale” quanto quello c.d. “differenziale” sono in sostanza equitativi, poiché non basati sulla prova oggettiva del pregiudizio provocato dalla prosecuzione dell’attività (come sarebbe se, consentendolo le scritture contabili, si procedesse secondo il criterio c.d. “analitico”, fondato sull’esame di ciascuna singola operazione compiuta nel periodo), bensì desunti da dati che non ne sono certa e diretta espressione, con il rischio che nel computo del danno risarcibile finiscano voci di debito non provocate dalla condotta illecita dell’organo di gestione, ma da atti di gestione anteriori. Il principio espresso dalla norma in esame, dunque, continua ad essere quello per cui il risarcimento dev’essere il più possibile aderente al danno provocato: solo se tale aderenza non può essere ottenuta è applicabile un criterio che, anziché far premio agli amministratori per la loro negligenza contabile, semmai la penalizza; ma ogni qual volta i criteri equitativi indicati dalla legge possono essere corretti nei loro effetti distorsivi, attraverso l’utilizzo di dati certi, non vi è motivo di non farvi ricorso, poiché essi valgono, appunto a fornire “la prova di un diverso ammontare”, maggiormente vicino alla realtà.
Sulla prova del danno cagionato dall’inadempimento a doveri negoziali
Al creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, è sufficiente provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, essendo il debitore convenuto gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa; tuttavia, rimane in capo a parte attrice l’onere di indicare la natura del danno sofferto, dando prova del nesso di causalità e dell’ammontare, costituito dall’avvenuto adempimento.
In caso di mancata prova del danno emergente, la prova del lucro cessante può essere raggiunta guardando alla somma predeterminata negozialmente dalle parti quale garanzia a fronte degli impegni assunti, costituendo essa un parametro oggettivo cui poter ricorrere ai fini della quantificazione del danno da mancato guadagno: tale previsione, che certo non svolge la funzione tipica della clausola penale, può costituire un indice significativo e univoco del “valore” finale che le parti hanno attribuito all’affare.
Inadempimento degli obblighi conservativi ex art. 2486 c.c. e quantificazione del danno
Ai sensi dell’art. 2489 c.c., il liquidatore ha il potere/dovere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società e deve adempiere i suoi doveri con la professionalità e diligenza richieste dalla natura dell’incarico, rispondendo per gli eventuali danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri secondo le norme in tema di responsabilità degli amministratori.
L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e dunque, quanto al riparto dell’onere della prova, spetta al fallimento allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri degli amministratori (e dei sindaci) posti dalla legge o dallo statuto e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dei convenuti contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.
La responsabilità concorrente del sindaco nella gestione dell’impresa e criteri di liquidazione del danno in caso di illecita prosecuzione dell’attività di impresa
E’ negligente il collegio sindacale che, a fronte di divergenze tra business plan e progetto di bilancio, non effettua verifiche mirate sul punto e tale condotta concorre, unitamente alla condotta dell’organo gestorio, alla prosecuzione della attività d’impresa in violazione di quanto disposto dagli artt. 2447 e 2486 laddove ne ricorrano gli elementi: se l’organo di controllo avesse operato diligentemente nel controllo contabile avrebbe potuto verificare la non veridicità del bilancio – una non veridicità fondamentale spostando la situazione della società da società capitalizzata a società sottocapitalizzata – segnalarla all’amministratore e successivamente alla assemblea eventualmente avvalendosi dei poteri di cui all’art 2406 c.c. in caso di inerzia dell’amministratore.
In presenza di situazioni di illecita prosecuzione dell’attività di impresa caratterizzata da innumerevoli nuove operazioni e di conseguente difficoltà di ricostruire ex post il risultato netto (costi/ricavi) di singole operazioni non conservative, è possibile procedere alla determinazione del danno mediante criteri presuntivi o equitativi; è possibile in tali casi adottare il criterio c.d. della differenza dei netti patrimoniali, che consiste nella comparazione dei patrimoni netti (determinati secondo criteri di liquidazione previa, se del caso, rettifica delle voci di bilancio scorrette) registrati alla data della (doverosa) percezione del verificarsi della causa di scioglimento da parte degli organi sociali e alla data di messa in liquidazione della società (o di fallimento della stessa); il danno in termini di “perdita incrementale netta”, infatti, consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione subita dal patrimonio della società (dunque il danno per la società e per i creditori) per effetto della ritardata liquidazione.
Criteri di quantificazione del danno e poteri del CTU
Sussiste una situazione di conflitto di interessi giuridicamente rilevante allorquando l’amministratore di una società disponga la vendita nummo uno della domanda di brevetto ad un’altra società a lui riconducibile, in danno della società amministrata.
Il danno derivante dalla condotta in questione si identifica nella perdita patrimoniale e reddituale subita dalla società venditrice per effetto della dismissione del brevetto a prezzo simbolico e, dunque, nel valore e nella reddittività di tale brevetto.
In tema di consulenza tecnica d’ufficio, rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, e che dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice purché ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio. L’acquisizione di dati e documenti da parte del consulente tecnico ha funzione di riscontro e verifica rispetto a quanto affermato e documentato dalle parti; mentre non è consentito al consulente sostituirsi alla parte stessa, andando a ricercare aliunde i dati stessi che devono essere oggetto di riscontro da parte sua, che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova che non gli siano stati forniti, in quanto in questo modo verrebbe impropriamente a supplire al carente espletamento dell’onere proba-torio, in violazione sia dell’articolo 2697 c.c. che del principio del contraddittorio. Il consulente d’ufficio può pertanto acquisire documenti pubblicamente consultabili o provenienti da terzi o dalle parti nei limiti in cui siano necessari sul piano tecnico ad avere riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti stesse o, ancora, quando emerga l’indispensabilità dell’accertamento di una situazione di comune interesse, indicandone la fonte di acquisizione e sottoponendoli al vaglio del contraddittorio, esigenza, quest’ultima, che viene soddisfatta sia mediante la possibilità della partecipazione al contraddittorio tecnico attraverso il consulente di parte, sia, a posteriori, con la possibilità di dimostrazione di elementi rilevanti in senso difforme.
Responsabilità dell’amministratore di srl per l’illecita prosecuzione dell’attività di impresa e quantificazione del danno risarcibile
Gli amministratori – così come disposto dall’art. 2486 co.1 c.c. – conservano un potere gestorio al fine di conservare l’integrità e il valore del patrimonio sociale e, con esso, la garanzia di soddisfazione dei creditori. Nel caso di illecita continuazione dell’attività di impresa dopo la perdita integrale del capitale sociale in violazione dell’art. 2446 c.c., qualora fosse accertata la responsabilità degli amministratori, il danno risarcibile – ai sensi dell’art. 2486 co.2 c.c. – deve identificarsi e quantificarsi tenendo conto delle specifiche violazioni degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.
Riconoscere il risarcimento del danno sia per atti distrattivi sia per il danno dovuto a illegittima prosecuzione dell’impresa consisterebbe in una duplicazione dello stesso danno. Pertanto, il secondo degli illeciti gestori poc’anzi citato, per la sua struttura, è assorbente degli altri.
La mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore, non giustifica che il danno risarcibile sia automaticamente determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare. Il deficit risultante da tale differenza può derivare da molteplici cause anche non riconducibili alla condotta dell’amministratore. Il ricorso alla quantificazione del danno in via equitativa dev’esser eccezionalmente utilizzato solo ove ne sussistano le condizioni e sempre che il ricorso ad esso sia plausibile in ragione delle circostanze del caso concreto. Il curatore fallimentare che eserciti l’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. nei confronti dell’amministratore, al fine di ottenere un risarcimento del danno pari all’intero sbilancio registrato in sede fallimentare, deve dimostrare l’esistenza di un inadempimento almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore.