Sulla legittimazione a impugnare il bilancio per violazione dei principi di verità e chiarezza
Rientrano nel novero delle delibere nulle, in quanto aventi un oggetto illecito ex art. 2379 c.c., le delibere con cui risulta approvato un bilancio non conforme ai principi di cui all’art. 2423 c.c., ovvero in violazione di tutte le altre norme dettate in materia di bilancio. Trattasi, infatti, di norme imperative inderogabili, poste a tutela di interessi generali che trascendono i limiti della compagine sociale e riguardano anche i terzi, destinatari delle informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società. Non è, tuttavia, sufficiente per l’impugnante far valere un generico interesse al rispetto della legalità, laddove impugni per nullità una delibera assembleare, ma è necessaria l’allegazione di un’incidenza negativa nella sfera giuridica del soggetto agente delle irregolarità denunciate riguardo al risultato economico della gestione sociale. Pertanto, la qualità di socio non è requisito necessario, essendo legittimato qualsiasi soggetto, purché titolare di un interesse concreto ed attuale all’impugnativa, interesse che deve sussistere non solo al momento della proposizione della domanda, ma anche al momento della decisione.
I singoli soci di s.r.l. possono volontariamente costituirsi nel giudizio di impugnazione di delibera assembleare, a mezzo di intervento che, dal lato attivo, va qualificato come adesivo autonomo (con la facoltà di coltivare il procedimento nei vari gradi di lite, anche in presenza di rinunzia o acquiescenza alla sentenza da parte dell’originario attore), ove essi siano dotati di autonoma legittimazione ad impugnare la delibera, per non essersi verificata nei loro confronti alcuna decadenza.
Nell’ipotesi di inerzia degli amministratori nell’accertamento di scioglimento della società, l’art. 2485, co. 2, c.c. prevede che i singoli soci possano agire avanti al tribunale chiedendo l’emissione di un decreto in sede di volontaria giurisdizione o di una sentenza resa all’esito di cognizione piena, che accerti il verificarsi della causa di scioglimento, con obbligo di iscrizione al registro imprese. La legittimazione dei soci trova la sua giustificazione nell’interesse qualificato del socio all’avvio della procedura di liquidazione, anche per evitare le conseguenze dannose in capo alla società potenzialmente derivanti dalle omissioni dell’organo amministrativo.
In tema di valutazione dei crediti, il criterio legale non attribuisce agli amministratori una discrezionalità assoluta, ma implica una valutazione fondata sulla situazione concreta, secondo principi di razionalità, con prudente apprezzamento della situazione economica e patrimoniale del debitore e della sua solvibilità: pertanto, anche i crediti liquidi ed esigibili, qualora siano di dubbia o difficile esazione non devono essere iscritti nel loro intero ammontare, bensì nella minore misura che – secondo un prudente apprezzamento – si presume di poter realizzare.
Le irregolarità contabili non necessariamente creano un pregiudizio alla società
Sono privi di fondamento gli addebiti di responsabilità formulati nei confronti dell’amministratore convenuto nell’azione sociale di responsabilità, sotto il profilo della prospettazione del danno sofferto, in ragione delle presunte irregolarità contabili in misura pari alla somma di debiti intenzionalmente dissimulata e costituente un deterioramento effettivo e materiale della situazione patrimoniale della società, in quanto il deterioramento della situazione patrimoniale non deriva dalle irregolarità contabili in sé ma dallo squilibrio finanziario eventualmente connesso all’ammontare del debito sommerso e la falsità della rappresentazione contabile, sicuramente pericolosa per i terzi creditori e fornitori dell’impresa o per i terzi acquirenti delle partecipazioni dei soci, posto che le irregolarità contabili non necessariamente creano un pregiudizio alla società.
Impugnativa di bilancio: la valutazione delle partecipazioni immobilizzate
In tema di redazione del bilancio di esercizio, l’art. 2426, co. 1, n. 1, c.c. impone che le immobilizzazioni siano iscritte al costo di acquisto e l’art. 2423 bis, co. 1, n. 6, c.c. prescrive che i criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all’altro (c.d. principio di continuità dei bilanci). Pertanto, l’appostazione di una partecipazione detenuta in altra società al costo di acquisto e per un valore coerente con quanto rappresentato nel bilancio precedente risulta ossequiosa di detti principi, rispetto ai quali la mera diversa valorizzazione in un atto di donazione tra privati non riveste alcuna efficacia euristica.
Liquidazione della partecipazione detenuta da amministrazione pubblica e domanda di condanna
Non può essere accolta la domanda di condanna al pagamento del valore della partecipazione per cui sia stato esercitato il recesso ai sensi dell’art. 24 TUSP, se l’ente pubblico partecipante non si rende espressamente disponibile al trasferimento in favore della società delle azioni di cui è titolare o non chiede l’emissione di una pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c.
Il testo di una delibera assembleare la quale preveda – in senso univoco – la mera approvazione da parte dell’organo assembleare, che si è espresso a maggioranza, di un piano economico-finanziario, non comporta la diretta assunzione implicita da parte dei soci in sede assembleare di uno specifico impegno a versare la quota fissa relativa ad un precedente contratto stipulato correntemente giunto a scadenza. Per l’assunzione di un siffatto impegno è richiesta una ulteriore manifestazione di volontà negoziale da parte di ciascun socio uti singulus.
Sulla revoca in assenza di giusta causa dell’amministratore
Il rapporto intercorrente tra la società di capitali e il suo amministratore è di immedesimazione organica e a esso non si applicano né l’art. 36 cost., né l’art. 409, co. 1, n. 3, c.p.c. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni. La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto. Le norme di cui agli artt. 2383, co. 3, e 1725, co. 2, c.c., riferite al rapporto societario di amministrazione, sono derogabili, sia perché hanno ad oggetto rapporti puramente patrimoniali, sia perché non hanno riflessi né su diritti di terzi né su aspetti concernenti la struttura corporativa dell’ente. Non sussistono, dunque, motivi per ritenere non disponibile per via statutaria la disciplina delle conseguenze della cessazione del rapporto amministrativo per effetto di revoca.
Il diritto al risarcimento dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa sorge a seguito di un atto giusto della società amministrata – configurandosi la revoca dell’amministratore quale diritto potestativo, salvo il caso estremo dell’abuso – talché esso è più propriamente qualificabile in termini di diritto a un indennizzo, avendo l’art. 2383, co. 3, c.c. utilizzato il sintagma “risarcimento del danno” per assicurare all’amministratore avente diritto il pieno ristoro del pregiudizio subito piuttosto che per affermarne la derivazione da fatto ingiusto. Sul piano più propriamente organizzativo / corporativo si può riconoscere meritevole di tutela l’interesse della società a estendere al massimo, per via statutaria, il proprio diritto potestativo di revoca, negando accesso, a fronte della decisione di revoca, a valutazioni o pretese di sorta circa il fondamento di quella decisione, nonché alle correlative controversie.
Il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, ecc.) subito dall’amministratore revocato in assenza di giusta causa è distinto da quello derivante dalla lesione del diritto alla prosecuzione della carica sino a naturale scadenza. Il danno ulteriore ai diritti della persona si può verificare allorché, ad esempio, eventuali dichiarazioni contenute rese in occasione della revoca costituiscano un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore; oppure quando le concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius. Tuttavia, di tali ulteriori e diversi danni l’amministratore deve offrire puntuale allegazione. Tale puntuale allegazione dovrebbe estrinsecarsi, da un lato, nell’individuazione del diritto leso e, dall’altro, nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti lesivi di quei diritti.
I requisiti per la configurabilità dell’abuso di maggioranza ai fini dell’annullabilità della delibera
Gli elementi dell’abuso, che possono caratterizzare una decisione assembleare presa a maggioranza, sono da ritenere sussistenti laddove la delibera (i) comporti un pregiudizio ai soci di minoranza, (ii) senza alcun beneficio per la società, per la quale sarebbe stata indifferente l’adozione di una delibera alternativa, e (iii) senza che quella adottata trovi giustificazione in altro legittimo ed apprezzabile interesse della maggioranza: la ricorrenza di queste tre condizioni lascia fondatamente presumere che quella decisione sia stata adottata con l’unico scopo di arrecare danno ai soci di minoranza.
Sulla legittimazione del singolo componente del CdA a impugnare la delibera assembleare di s.p.a.
Il potere, riconosciuto agli amministratori di s.p.a. dall’art. 2377, co. 2, c.c., di impugnare le deliberazioni dell’assemblea della società che non siano state prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo, spetta al CdA e non agli amministratori individualmente considerati, atteso che tale potere è attribuito per la tutela degli interessi sociali, e dunque richiede una deliberazione dell’organo incaricato di detta tutela, il quale, nella società retta da un consiglio di amministrazione, si identifica, appunto, nel consiglio, e non nei singoli componenti di esso. Una legittimazione del consigliere di amministrazione all’impugnazione della delibera assembleare può sussistere qualora questi venga immediatamente leso in un suo diritto dalla delibera stessa: il singolo componente del CdA è legittimato a impugnare per l’annullamento esclusivamente la decisione dell’assemblea che abbia leso la sua posizione individuale.
L’elenco delle materie da trattare all’ordine del giorno dell’assemblea deve essere redatto in modo sintetico e comprende, quindi, anche argomenti impliciti, presupposti, conseguenziali o accessori rispetto a quelli specificamente previsti [nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che nel punto dell’o.d.g. relativo a “Revoca deleghe e poteri attribuiti all’amministratore delegato. Determinazioni” fosse implicita la discussione sulla decadenza dell’amministratori, poiché l’argomento non sarebbe di competenza dell’assemblea ove la revoca delle deleghe non dipendesse a monte da una causa di cessazione dell’amministratore delegato dalla carica gestoria].
Deliberazione assembleare di s.r.l. in difetto di regolare convocazione e onere della prova
L’art. 2479 ter, co. 3, c.c. (che annovera tra le ipotesi di nullità della delibera assembleare quella in cui essa venga adottata in assenza assoluta di informazione) tutela il diritto inderogabile di partecipazione di ciascun socio alle decisioni sociali e si rivolge sia ai casi in cui i soci non abbiano ricevuto l’avviso di convocazione, sia ai casi in cui l’abbiano ricevuto in difetto dei presupposti minimi di contenuto fissati dalla norma, come quando l’avviso: non risulti proveniente da un componente degli organi sociali o dai soci (ove a ciò legittimati); non sia stato inviato preventivamente a tutti gli aventi diritto; non sia idoneo a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere preventivamente avvertiti della convocazione e della data dell’assemblea (fermo rimanendo che in virtù del richiamo all’art. 2379 bis c.c., la partecipazione totalitaria del capitale sociale sana il vizio di omessa convocazione).
Nel caso di deliberazione adottata dall’assemblea di una società a responsabilità limitata, in difetto di regolare convocazione, qualora nel relativo verbale sia dato atto della partecipazione di tutti i soci – personalmente, ovvero in quanto rappresentati su delega – incombe su colui il quale impugna la deliberazione l’onere di provare il carattere non totalitario dell’assemblea.
In tema di prova dell’assenza all’assemblea dei soci, occorre rilevare che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà consiste in una dichiarazione di scienza relativa a stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato, destinata a produrre effetti esclusivamente nell’ambito di un procedimento amministrativo per favorirne uno svolgimento più rapido e semplificato così come previsto dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), e quindi ad esaurire la sua efficacia nell’ambito dei rapporti con gli organi della P.A. e dei gestori di pubblici servizi, onde consentire l’adozione di determinati provvedimenti amministrativi in favore dell’interessato stesso. Tale qualificazione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà preclude in radice la possibilità di una sua automatica utilizzazione all’interno del processo civile, caratterizzato da principi incompatibili con la prospettata equiparazione, a fini probatori, di detta dichiarazione sostitutiva nei due diversi ambiti, ovvero quello amministrativo e quello del processo civile.
Ove sia prodotta in giudizio la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, essa non può assumere il valore di prova legale, come invece l’atto notorio, per contrastare il quale sarebbe necessaria la querela di falso, ma il giudice è tenuto soltanto a valutare adeguatamente, anche ai sensi dell’art. 115 c.p.c., in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione o meno del fatto e, nell’ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta.
L’ordine del giorno può assolvere tale funzione soltanto se ha un sufficiente grado di specificità. A tal fine, non è necessaria l’indicazione particolareggiata delle materie da trattare, ma è sufficiente una indicazione sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica.
Impugnazione della delibera di approvazione del bilancio e cessazione della materia del contendere
Nullità della cessione d’azienda che modifica sostanzialmente l’oggetto sociale della s.r.l. decisa dagli amministratori
La cessione d’azienda è un’operazione straordinaria, avente ad oggetto il trasferimento di un complesso aziendale a fronte di un corrispettivo in denaro o in natura. Ai sensi dell’art. 2112, co. 5, c.c., si considera trasferimento d’azienda una qualsiasi operazione, posta in essere in seguito a cessione contrattuale o fusione, che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità. Per la cessione di azienda è necessaria la forma ad probationem e non ad substantiam, salvo che la forma scritta non sia resa necessaria per la natura dei beni trasferiti o per il tipo di contratto attraverso il quale avviene il trasferimento. Inoltre, se le imprese cedute sono soggette a registrazione presso il registro delle imprese, gli atti di cessione devono essere iscritti presso il registro delle imprese e redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata, prevedendo il deposito della stessa iscrizione, da parte del notaio, entro trenta giorni.
La cessione d’azienda che trasformi l’attività dell’impresa cedente da produttiva a finanziaria rientra tra gli atti che modificano l’oggetto sociale stabilito nell’atto costitutivo, nonché i diritti dei soci. Il difetto del potere rappresentativo degli amministratori in relazione a tale operazione rende invalido l’atto di cessione stipulato dagli stessi in assenza di delibera assembleare ed è opponibile ai terzi, indipendentemente da qualsiasi indagine sull’elemento soggettivo. Ai sensi dell’art. 1418 c.c., infatti, il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, tra cui quella dell’art. 2479, co. 2, n. 5, c.c., che riserva ai soci il diritto di decidere se compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci.
La cessione di azienda o del ramo di azienda non integra un mero atto ultra vires realizzato dagli amministratori ed occasionalmente estraneo all’oggetto sociale, ma realizza un vero e proprio mutamento del settore di attività della società e del grado di rischio di investimento dei soci. Inoltre, nella categoria generale degli atti ultra vires, si distinguono quelli che, sebbene estranei all’oggetto sociale, non comportano una sua modifica, da quelli estranei in quanto modificativi dell’oggetto sociale. I primi, da individuarsi negli atti aventi contenuto intrinsecamente esorbitante dal perseguimento dello specifico programma economico della società, sono opponibili solo alle condizioni di cui all’art. 2475 bis, co. 2, c.c., mentre i secondi sono sempre opponibili, in quanto posti in essere in violazione di una limitazione legale. Soltanto in relazione a tale ultima categoria di operazioni, quali, appunto, la cessione dell’azienda con modifica di fatto dell’oggetto sociale, il legislatore stabilisce, da un lato, la competenza decisoria dei soci e, dall’altro, l’opponibilità incondizionata ai terzi della violazione di tale regola di competenza da parte degli amministratori. Muovendo da tali premesse, si può affermare che l’art. 2479, co. 2, n. 5, c.c. pone un limite legale inderogabile ai poteri di rappresentanza degli amministratori, la cui violazione – a differenza del superamento dei limiti convenzionali – è sempre opponibile ai terzi. Si esclude, pertanto, che l’atto possa rientrare nella sfera di competenza degli amministratori in forza del carattere generale del loro potere di rappresentanza, sancito dall’art. 2475 bis c.c.
L’assenza di una decisione dei soci configura, così, la violazione di una norma inderogabile posta a presidio dei limiti non convenzionali, bensì legali del potere di rappresentanza degli amministratori, sicché non può essere invocata l’inopponibilità dell’invalidità dell’atto di cessione. Pertanto, se l’atto di disposizione d’azienda o di un suo ramo eccede i poteri che per legge spettano agli amministratori e implica una violazione del riparto legale delle competenze tra assemblea e amministratori, la sanzione va individuata non già nell’annullabilità del contratto, ma nella sua nullità. Non rileva in contrario che l’art. 2479, co. 2, n. 5, c.c. non prevede il rimedio della nullità quale conseguenza della sua violazione, poiché, in presenza di un negozio contrario a norme imperative, la mancanza di un’espressa sanzione di nullità non è rilevante ai fini della nullità dell’atto negoziale in conflitto con il divieto, essendo applicabile l’art. 1418, co. 1, c.c., che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità.
Il complesso di beni costituito in azienda è una universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c., per la quale non può trovare applicazione il principio dell’acquisto immediato in virtù del possesso, ai sensi dell’art. 1153 c.c., in virtù dell’esplicita esclusione sancita dall’art. 1156 c.c. La cessione di azienda da parte di chi non è divenuto titolare integra un’ipotesi di acquisto a non domino (e, pertanto, deve qualificarsi come vendita di cosa altrui), anche se l’acquirente non fosse a conoscenza dell’inesistenza di un valido titolo di proprietà dell’azienda in capo al venditore. Nei confronti del proprietario del bene, la cessione a non domino è inefficace, potendo, quindi, egli pretenderne la restituzione da colui che l’ha acquistato da soggetto non legittimato alla vendita.
La responsabilità civile del notaio ha natura contrattuale, ex art. 1218 c.c., rispondendo egli quale professionista incaricato dal suo cliente, in forza di un rapporto riconducibile al contratto di mandato. La prestazione alla quale è tenuto il notaio, quale professionista, non è di risultato, ma di mezzi. Tuttavia, ciò non vuol dire che egli possa limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a dirigere la redazione dell’atto notarile. Il notaio deve compiere le attività preliminari e conseguenti all’atto che si rendano necessarie per garantire che lo stesso sia certo e idoneo ad assicurare il raggiungimento dello scopo tipico e del risultato pratico perseguiti dalle parti.