La revoca dell’amministratore ex art. 2476 c.c. e i rapporti con l’art. 2409 c.c.
Una volta che nello stesso giudizio vi siano domande per le quali è necessario nominare un curatore speciale alla società e domande che invece non lo richiedono, e queste domande cumulate siano legate da un vincolo di connessione tale da rendere necessario – per esigenze di speditezza del giudizio – il simultaneus processus e dunque inopportuna la separazione delle cause, non è possibile che la società stia nel giudizio con una doppia rappresentanza, e l’estensione dei poteri del curatore speciale è un atto dovuto.
La revoca dell’amministratore prevista dall’art. 2476, terzo comma, c.c., deve ritenersi ammissibile non solo se proposta in via cautelare quale tutela strumentale ad una domanda risarcitoria, ma anche in relazione ad un’azione di merito tesa ad ottenere la revoca dell’amministratore. Nel primo caso la domanda cautelare di revoca assume una natura latu sensu conservativa poiché non tutela il vero e proprio diritto al risarcimento del danno – per il quale è esercitabile il sequestro conservativo – ma mira a prevenirne l’aggravamento, nel secondo caso, invece, l’istanza cautelare assume una natura anticipatoria degli effetti di una pronuncia costitutiva di merito di revoca. In effetti, il termine “altresì”, contenuto nell’art. 2476, terzo comma, c.c. deve essere interpretato nel senso che al socio viene attribuito un potere aggiuntivo e svincolato rispetto alla proposizione dell’azione sociale di responsabilità, ossia quello di proporre la domanda non solo cautelare ma anche di merito per la revoca dello stesso amministratore, cosicché non è ravvisabile alcuna violazione del principio di tassatività delle domande e delle sentenze di natura costitutiva previsto dall’art. 2908 c.c. L’art. 2476 c.c., dunque, nel prevedere il potere del socio di chiedere la revoca cautelare dell’amministratore, necessariamente contempla anche il potere di proporre una domanda di revoca di merito, anche perché non è concepibile una misura cautelare non strumentale ad una decisione a cognizione piena. Depone in tal senso anche il fatto che, sul piano del fumus boni juris, la revoca cautelare non presuppone necessariamente la sussistenza di un danno da risarcire, poiché il legislatore indica espressamente quale requisito l’esistenza di gravi irregolarità, indipendentemente dalla sussistenza di un pregiudizio da ristorare. Ai fini della revoca cautelare, dunque, il danno può essere anche meramente potenziale, e ciò conferma che la revoca deve ritenersi ammissibile non solo in via cautelare quale misura di carattere lato sensu conservativo rispetto ad una domanda risarcitoria, ma anche quale anticipatoria degli effetti di un’azione di merito avente il medesimo contenuto.
Le tutele previste agli artt. 2409 c.c. e 2476 c.c. vanno considerate concorrenti, giacché prevedono regimi diversi quanto, ad esempio, alla legittimazione e alla tipologia dei provvedimenti che possono essere assunti dal Tribunale. Sotto il primo profilo, è sufficiente rilevare che la revoca ex art. 2476 c.c. può essere richiesta da ciascun socio a prescindere dall’entità delle partecipazioni, che, invece, è un aspetto che viene in gioco ai fini della proposizione del ricorso ex art. 2409 c.c. Sotto il secondo profilo, invece, va osservato che nel procedimento di cui all’art. 2409 c.c. il Tribunale può adottare provvedimenti anche di natura diversa rispetto alla revoca dell’amministratore e che l’amministratore provvisorio che viene nominato assolve un munus di durata provvisoria; diversamente, nel caso della revoca ex art. 2476 c.c., la nomina del nuovo amministratore è rimessa alla società e potrebbe assumere maggiore stabilità.
L’abuso del voto da parte del socio di maggioranza e revoca dell’amministratore nelle società per azioni con partecipazione pubblica
Sussiste la legittimazione dell’amministratore revocato alla impugnativa della deliberazione che lo lede sia con riguardo a violazioni delle norme procedimentali, sia con riguardo a profili di eccesso di potere o di conflitto di interessi del socio votante.
L’abuso del voto da parte del socio di maggioranza costituisce un caso di violazione dei doveri generali di buona fede nell’esercizio del diritto (1375 c.c.). Tale vizio sussiste quando il socio maggioritario, che sta in società nel proprio interesse e pertanto in assemblea legittimamente vota nel proprio interesse, orienta il proprio voto al solo fine di ledere il socio di minoranza, oppure a proprio vantaggio ma in modo da imporre al socio di minoranza un sacrificio del suo interesse del tutto sproporzionato, sì che il risultato è ottenuto dal socio maggioritario avvantaggiandosi ingiustificatamente a discapito del socio di minoranza. La buona fede che viene in esame delimita il perimetro di esercizio dei diritti del socio nei rapporti con gli altri soci, e non rispetto alla società. I soci infatti non sono investiti di doveri gestori, e, nelle società per azioni, neppure opera una regola paragonabile all’art. 2476 ultimo comma c.c., che delinea il caso del consapevole concorso dei soci nell’attività gestoria illecita degli amministratori. È ben vero che nella fattispecie dell’abuso di voto viene anche in esame l’interesse della società, ma ciò non funge da elemento principale nella fattispecie, bensì piuttosto da elemento di riscontro, in quanto l’assenza di un percepibile vantaggio sociale, derivante dal voto allegatamente abusivo, può dare sostegno alla ricostruzione, che solitamente avviene su base indiziaria, dell’illecito intento del socio di maggioranza.
La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, poiché all’ente pubblico non è consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi, potendo esso avvalersi solo degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società. Sono dunque attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative alla revoca degli amministratori, nominati ai sensi dell’art. 2449 c.c., della società partecipata da ente pubblico, in quanto la predetta revoca costituisce atto dell’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di impiegare lo strumento societario, emanato in base al diritto privato e da questo regolato.
La società è retta solo dallo statuto, e non dai patti diversi pur stipulati fra i soci, e i diritti e doveri dei consiglieri sono regolati dalla legge e dallo statuto, e ciò sia nei doveri di buona, prudente, professionale gestione, da svolgere nell’interesse della società, e tenendo conto delle decisioni dei soci che siano espresse nelle sedi e nelle forme proprie delle società; sia nei diritti derivanti dal regime legale e statutario delle revoche. Pertanto, in primo luogo, l’amministratore è tenuto a mettere in campo tutte le iniziative opportune perché la società operi correttamente e proficuamente, e ciò anche partecipando alle decisioni dell’organo gestorio relative al conferimento, alla revoca, o alla sospensione conferite ai singoli consiglieri.
La sussistenza della giusta causa della revoca è da valutarsi alla luce dei principi generali, come ricostruiti dalla giurisprudenza, e secondo i quali per la sua sussistenza non occorre che l’amministratore revocato abbia commesso violazioni ai suoi doveri gestori, ma è pur sempre necessario che sussistano circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto e tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore. Deve trattarsi di fatti oggettivamente valutabili. Se infatti alla base della revoca sta un venire meno del rapporto fiduciario con l’amministratore, tale venire meno non può riposare su considerazioni soggettive dei soci. Essa può consistere in fatti che minino il “pactum ficuciae”, elidendo l’affidamento riposto al momento della nomina sulle attitudini e capacità dell’amministratore, sempre che essi siano oggettivamente valutabili come capaci di mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore revocato, e non costituiscano, invece, il mero inadempimento ad una inesistente soggezione dell’amministratore stesso alle direttive del socio di maggioranza, pur se pubblico.
Il socio di s.r.l. titolare di un terzo del capitale può convocare l’assemblea
La competenza dei soci di s.r.l. titolari di almeno un terzo del capitale a sottoporre all’assemblea degli argomenti implica anche il potere degli stessi di procedere alla diretta convocazione dell’assemblea, poiché diversamente risulterebbe del tutto superflua la previsione legislativa di cui all’art. 2479, co. 1, c.c. Tale potere dei soci di s.r.l. è configurato come concorrente rispetto a quello eventualmente attribuito all’amministratore dall’autonomia statutaria, anche in considerazione della valorizzazione all’iniziativa e al ruolo del socio all’interno della s.r.l.
La revoca per giusta causa dell’amministratore può discendere dal venir meno del rapporto di fiducia con la compagine societaria. La giusta causa può essere sia soggettiva che oggettiva, purché si tratti di circostanze o fatti sopravvenuti idonei a influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto.
L’amministratore revocato ha legittimazione a impugnare la deliberazione assembleare di revoca ritenuta invalida.
L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o ex amministratori di s.r.l. può essere esercitata direttamente dalla società, fermo restando che, in tal caso, è necessaria la previa deliberazione assembleare di cui all’art. 2393 c.c. quando l’azione sia diretta a far valere la responsabilità degli amministratori per inadempimento degli obblighi imposti dalla legge o dallo statuto.
In caso di CdA con due membri, la legittimazione a impugnare le delibere assembleari spetta all’organo collegiale
All’amministratore revocato è riconosciuta la legittimazione a impugnare la deliberazione di revoca, qualora intenda lamentare che la stessa non è stata correttamente assunta, facendo valere non già un proprio interesse, bensì l’esigenza di tutela dell’interesse generale alla legalità societaria. Tuttavia, nell’ipotesi in cui il potere gestorio sia attribuito a un consiglio di amministrazione composto da due membri, la legittimazione a impugnare le delibere non conformi alla legge o allo statuto spetta all’organo gestorio e non individualmente a ciascun amministratore.
Ai sensi dell’art. 2352 c.c., in caso di pignoramento di partecipazioni sociali, l’esercizio del diritto di voto è assegnato, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio; tale attribuzione del diritto di voto costituisce elemento connaturale al pegno di partecipazioni sociali. La convenzione contraria richiamata dalla disposizione va intesa quale eventuale accordo tra socio datore di pegno e creditore pignoratizio, derogatorio della disciplina ordinaria e da comunicare alla società al fine di consentire in assemblea l’esercizio del diritto di voto al soggetto legittimato, e non già quale patto tra soci versato nello statuto. Si tratta infatti di un diritto disponibile da parte del creditore pignoratizio nei rapporti interni con il proprio debitore.
Revoca dell’amministrazione senza giusta causa
Se potenzialmente qualsiasi situazione sopravvenuta, anche estranea all’operato degli amministratori, è suscettibile di elidere e far venir meno il patto fiduciario tra soci e consiglio di amministrazione, le cause della rottura del pactum devono comunque poter essere chiaramente dedotte dalla delibera assembleare di revoca dell’amministratore. La facoltà di revocare a propria discrezione gli amministratori trova infatti un limite nel presupposto della giusta causa, le cui ragioni devono essere, quindi, esposte nella delibera. L’indicazione delle ragioni nella delibera è imposta dalla circostanza che la revoca è atto dell’assemblea e in seno ad essa le ragioni della revoca trovano la loro ponderazione e valutazione. Occorre l’enunciazione esplicita a verbale in ordine alle ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere ivi riportate in modo adeguatamente specifico; mentre la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.
Nel caso di revoca dell’incarico di amministratore senza giusta causa, il danno consiste nel lucro cessante, cioè nel compenso non percepito per il periodo in cui l’amministratore avrebbe conservato il suo ufficio, se non fosse intervenuta la revoca.
Sostituzione della delibera invalida e contenuto dell’ordine del giorno
L’indicazione dell’elenco delle materie da trattare ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali essi dovranno deliberare, per consentire la loro partecipazione all’assemblea con la necessaria preparazione e informazione, nonché di evitare che sia sorpresa la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell’ordine del giorno. A tal fine, tuttavia, non è necessaria una indicazione particolareggiata delle materie da trattare, ma è sufficiente una indicazione sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica, la quale consenta la discussione e l’adozione da parte dell’assemblea dei soci anche delle eventuali deliberazioni consequenziali e accessorie.
Diritto di intervento e di voto relativamente a quote di s.r.l. sequestrate
Con il sequestro delle quote il diritto di intervento e di voto in assemblea spetta al custode (artt. 2471 bis e 2352 c.c.); pertanto, il custode/amministratore delle quote totalitarie ha piena legittimazione non solo a convocare l’assemblea, ma anche a prendervi parte e ivi esprimere la volontà dell’assemblea in carica in luogo del socio.
La regola dell’incidenza della giusta causa di revoca solo sul piano risarcitorio e della correlata piena libertà dell’assemblea di revocare gli amministratori in ogni momento, prevista dall’art. 2383, co. 3, c.c. in tema di s.p.a., è applicabile in via analogica alla s.r.l.