Recesso convenzionale condizionato da società cooperativa ed effetti del recesso da cooperativa edilizia
In tema di società cooperative il recesso convenzionale, disciplinato dagli artt. 2518 e 2526 c.c., costituisce manifestazione della volontà negoziale, in quanto previsto dall’atto costitutivo, che può legittimamente disciplinarlo attraverso clausole che ne determinino il contenuto, ammettendo l’esercizio di tale facoltà in situazioni specifiche, ovvero limitandolo o subordinandolo alla sussistenza di determinati presupposti o condizioni, in particolare all’autorizzazione o all’approvazione del consiglio d’amministrazione o dell’assemblea dei soci. Tali clausole attribuiscono ai predetti organi un potere discrezionale, che non può tuttavia essere esercitato in modo arbitrario, nè tradursi in un rifiuto di provvedere o in un diniego assoluto ed immotivato dell’approvazione; il che, oltre a contrastare con i principi di correttezza e buona fede, che vanno rispettati anche nell’esecuzio del contratto sociale, comporterebbe una sostanziale vanificazione del diritto di recesso, il cui esercizio non può essere escluso o reso eccessivamente gravoso.
La violazione di tale diritto, per inosservanza dei predetti principi, rende applicabile l’art. 1359 c.c., in virtù del quale la condizione si considera avverata, qualora sia mancata per causa ascrivibile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento. La necessità dell’autorizzazione non comporta infatti la trasformazione della fattispecie in un accordo, nell’ambito del quale la determinazione della società venga ad assumere la funzione di accettazione della proposta del socio, configurandosi pur sempre il recesso come un negozio unilaterale, corrispondente al diritto potestativo di uscire dalla società o di rinunciare a conservare lo status derivante dal rapporto giuridico nel quale il socio è inserito (operando quale condizione di efficacia rispetto alla deliberazione del consiglio di amministrazione o dell’assemblea).
Nelle cooperative aventi come scopo la costruzione di alloggi e l’assegnazione degli stessi in godimento e, successivamente, in proprietà individuale ai soci, le anticipazioni e gli esborsi effettuati dal socio non a titolo di conferimento, ma per il conseguimento dei singoli beni o servizi prodotti dalla cooperativa, pongono il socio nella posizione di creditore verso la cooperativa, posizione che una volta avvenuto lo scioglimento del rapporto sociale si manifesta come diritto alla restituzione delle somme anticipate, sempre che la proprietà dell’alloggio non sia stata nel frattempo conseguita e lo scopo sociale non sia stato raggiunto. La cessazione del rapporto sociale, in conseguenza del recesso esercitato dal socio di una società cooperativa, comporta anche la cessazione del rapporto mutualistico, il quale tuttavia può cessare solo qualora la cooperativa abbia realizzato lo scopo mutualistico in favore di tutti i soci, in applicazione del principio di parità di trattamento.
Primo Seminario di Giurisprudenza delle Imprese – Tribunale di Torino 24 marzo 2023
Gentili Lettori,
Il prossimo 24 marzo 2023, al Tribunale di Torino, Giurisprudenza delle Imprese organizza un seminario di studio sul tema del diritto di recesso nelle società di capitali.
Il seminario gode del patrocinio del Ministero della Giustizia ed è organizzato in collaborazione con la Scuola Superiore della Magistratura, nonché con la partecipazione di magistrati delle Sezioni Specializzate dei Tribunali convenzionati. La partecipazione è gratuita, ma data la limitata capienza dell’aula è obbligatoria l’iscrizione.
L’obiettivo dell’iniziativa, che vuole essere la prima di una serie di analoghi incontri da tenersi presso le sedi dei diversi Tribunali, è quello di stimolare il confronto tra gli operatori del diritto sugli orientamenti più recenti raccolti nella banca dati.
Tra i relatori i dott.ri Gabriella Ratti, Amina Simonetti, Enrico Astuni, Niccolò Calvani, Ilaria Grimaldi, nonché i prof. Gustavo Olivieri, Paolo Flavio Mondini, Luca Pisani, Ivan Demuro, Mario STELLA RICHTER, Luca Boggio.
Requisiti per l’esercizio del diritto di recesso da società soggetta a direzione e coordinamento
Il diritto di recesso del socio di società diretta a direzione e coordinamento può essere esercitato, ai sensi dell’art. 2497-quater, comma 1, lett c), c.c., in presenza di tre precisi requisiti: il cambio della situazione di controllo, la mancanza di una offerta per l’acquisto della partecipazione dei soci di minoranza e l’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento. In particolare, la sussistenza del requisito dell’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento deve essere valutata sia sotto il profilo temporale, avendo riguardo al momento in cui si realizza il cambio di controllo sia in chiave prospettica, tenendo conto che occorre che il mutamento abbia determinato (o rischi in concreto di determinare) un impatto negativo sull’equilibrio patrimoniale e finanziario della società e/o sul valore della partecipazione e/o sulle prospettive reddituali della società eterodiretta, e di conseguenza, sulle aspettative reddituali che il socio nutriva prima di questo cambiamento.
Inoltre, in ossequio ai principi generale dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., è colui che agisce giudizialmente per far dichiarare la legittimità del proprio recesso a dover fornire la prova della sussistenza dei presupposti prescritti dalla legge e, in particolare, il sopravvenuto effettivo mutamento delle condizioni di rischio in ragione del cambio del soggetto esercente l’attività di direzione e coordinamento.
Insussistenza del diritto di recesso ad nutum del socio di una s.r.l. costituita a tempo determinato, pur lontano nel tempo
Il socio di s.r.l. ha diritto di recedere ad nutum solo nel caso in cui la società sia contratta a tempo indeterminato e non anche a tempo determinato, sia pure lontano nel tempo, in quanto deve essere valorizzato il dato testuale della disciplina del recesso ex art. 2473 c.c. e poiché prevale, sull’interesse del socio al disinvestimento, l’interesse della società a proseguire la gestione del progetto imprenditoriale e dei terzi alla stabilità dell’organizzazione e all’integrità della garanzia patrimoniale, offerta esclusivamente dal patrimonio sociale.
L’oggetto della delibera, coincidente con il contenuto concreto della manifestazione di volontà espressa dall’assemblea, è illecito o impossibile quando il contenuto risulti contrario a norme di legge poste a tutela di interessi trascendenti quelli del singolo socio, o la cui violazione determini una deviazione dallo scopo economico-pratico del contratto di società.
L’art. 2383, co. 3, c.c., dettato in tema di s.p.a. ma applicabile in via analogica anche alle s.r.l., prevede che gli amministratori siano sempre revocabili dall’assemblea, salvo diritto al risarcimento dei danni nel caso in cui la revoca dovesse avvenire in assenza di giusta causa. Di conseguenza, detta giusta causa non costituisce una condizione di validità e di efficacia della deliberata revoca, ma solo una causa di esclusione del risarcimento del danno sofferto dall’amministratore ingiustamente ed arbitrariamente revocato. Il danno risarcibile/indennizzabile viene generalmente parametrato, in via equitativa, all’emolumento che l’amministratore avrebbe conseguito dallo svolgimento della prestazione gestoria nell’arco di sei mesi, quale lasso di tempo ragionevolmente idoneo a consentire all’amministratore revocato di trovare nuovi incarichi o analoghe prestazioni e compensi.
Le ragioni che integrano la c.d. giusta causa devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori. In tale ambito spetta alla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie.
Recesso anticipato del socio nelle società cooperative edilizie
Nelle cooperative edilizie aventi ad oggetto la costruzione di alloggi e l’assegnazione degli stessi in godimento e in proprietà dei soci, in caso di recesso avvenuto prima dell’assegnazione dell’alloggio prenotato, il socio ha diritto alla restituzione dell’intera somma anticipata in conto costruzione, in virtù della posizione di creditore verso la cooperativa che il socio stesso ha acquisito.
Revoca della delibera di trasformazione e diritto di recesso
Anche a seguito dell’iscrizione della delibera di trasformazione nel Registro delle Imprese deve ritenersi legittima l’adozione di una delibera che disponga, nell’ambito dell’art 2437 bis c.c. o art. 2473 c.c., la trasformazione uguale e contraria a quella che ha suscitato l’esercizio del diritto di recesso del socio. Ciò preclude ex lege l’esercizio del diritto di recesso, ovvero lo rende inefficace se già esercitato, venendo meno il presupposto legittimante ovverosia la modificazione del contratto sociale che consente al socio che non vi ha prestato il consenso di uscire dalla compagine sociale.
L’art. 2437 bis c.c. concede alla società novanta giorni dall’emanazione della delibera che legittima il recesso del socio per revocarla. Non è consentito limitare questo spatium deliberandi invocando l’interferenza di una norma, l’art. 2500 bis c.c., che ha natura affatto differente e meramente processuale, impedendo la caducazione di un atto invalido di trasformazione e prevedendo, a fronte di un atto di trasformazione eventualmente invalido, una tutela non reale, ma solo risarcitoria.
La facoltà per la società di revoca della delibera che ha legittimato il recesso del socio non incontra limiti nelle disposizioni normative se adottata con le forme necessarie e si applica anche alla delibera di trasformazione nel senso che la società può sempre nuovamente trasformarsi nel tipo precedentemente abbandonato e, se ciò avviene nel termine di 90 giorni di cui all’art 2437 bis, co. 3, c.c., determina ex lege l’inefficacia sopravvenuta del recesso, il quale, seppur legittimamente esercitato, diviene inefficace.
Presupposti per la concessione del sequestro conservativo; estensione della clausola compromissoria alle controversie relative al recesso
Ai sensi dell’art. 671 c.p.c., il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento. Per la concessione dell’invocato provvedimento cautelare è richiesta la coesistenza dei due requisiti del fumus boni juris e del periculum in mora, intesi, il primo, come dimostrazione della verosimile esistenza del credito per cui si agisce, essendo infatti sufficiente, in base ad un giudizio necessariamente sommario e prognostico, la probabile fondatezza della pretesa creditoria e, il secondo, come timore di perdere la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. L’onere della prova della sussistenza di entrambi i requisiti del sequestro conservativo spetta al ricorrente. Nel vaglio della domanda di concessione della misura del sequestro conservativo non risultano, pertanto, ammissibili presunzioni iuris tantum, ma solo analisi strettamente ancorate alla condotta dei possibili destinatari della misura.
Il requisito del periculum in mora è desumibile sia da elementi oggettivi, riguardanti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore che lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, possa porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio. Ai fini dell’accoglimento di una domanda di sequestro preventivo, è necessaria la rigorosa prova da parte del ricorrente della sussistenza di entrambi i presupposti soggettivi ed oggettivi di insufficienza o possibile depauperamento del patrimonio del debitore. Al giudice non è consentito desumere l’esistenza del periculum dalla mera sproporzione tra l’entità del credito e il valore attuale del patrimonio di cui dispone il debitore; neppure è sufficiente il mero sospetto circa l’intenzione del debitore di sottrarre alla garanzia del credito tutti o alcuni dei suoi beni. Il periculum in mora deve essere oggetto di una valutazione complessiva tanto degli elementi oggettivi quanto soggettivi, ossia cumulativamente e non isolatamente, attraverso un’analisi da compiere caso per caso; invero, l’eventuale insufficienza del patrimonio del debitore in relazione all’entità della pretesa fatta valere dal creditore non è da sola sufficiente a far sorgere il fondato timore di perdere la garanzia del credito vantato. Solo la valutazione cumulativa dei requisiti oggettivo e soggettivo sottesi al periculum in mora consente di contemperare in maniera adeguata le opposte esigenze, ossia, da un lato, le ragioni di chi agisce per tutelare con la misura conservativa il proprio diritto e, dall’altro, le rilevanti conseguenze che la misura del sequestro apporta ai patrimoni dei soggetti colpiti e che necessita, ai fini della concessione della misura, di condotte distrattive da allegare e provare. L’inadeguatezza del patrimonio del debitore rispetto all’ammontare complessivo dei debiti non basta, dunque, a integrare gli estremi del “pericolo nel ritardo”, alla cui ricorrenza la legge subordina l’autorizzazione del sequestro conservativo.
La clausola compromissoria contenuta nello statuto societario che prevede la devoluzione ad arbitri delle controversie relative al rapporto sociale deve ritenersi estesa a quelle riguardanti il recesso del socio dalla società. In particolare, dato che l’esercizio del diritto di recesso coinvolge al contempo sia lo status di socio che il diritto (di natura patrimoniale) ad esso conseguente alla liquidazione del valore della propria partecipazione, la clausola compromissoria si estende anche alla controversia – qualificabile come controversia relativa al rapporto sociale – in cui sia contestato il solo valore della quota ai fini della sua liquidazione.
Diritto di recesso del socio di s.p.a., (in)applicabilità transtipica dell’art. 2473 c.c. e modifica dell’oggetto sociale
Ove la fusione inversa determini, per i soci della società incorporata, la conseguenza di essere astretti a un oggetto sociale diverso da quello della società cui partecipavano anteriormente alla fusione, si realizza una modifica della clausola dell’oggetto sociale; tale modifica va, dunque, valutata, ai fini del recesso, ai sensi dell’art. 2437, lett. a), c.c. Perché sia integrata la fattispecie ivi prevista, occorre che il mutamento della clausola relativa all’oggetto sociale comporti una modificazione “significativa” dello stesso. Tale deve intendersi una modificazione che incida in modo rilevante sul profilo di rischio dell’investitore, che – e questo è lo scopo della norma che ammette il recesso solo in caso di mutamento “significativo” – non può rimanere astretto a un nuovo oggetto sociale, il quale stravolga i presupposti sui quali egli ha operato le sue valutazioni di investimento. Al riguardo, non occorre che il nuovo oggetto sociale esponga la società e il socio ad un “depauperamento”, essendo sufficiente che alteri significativamente – ampliandolo, riducendolo o modificandolo – il rischio dell’investimento. Rileva, ai fini della norma, la modificazione dell’oggetto come tale, mentre non rileva la circostanza che alla modifica non sia (finora) seguito anche il mutamento in concreto dell’attività, dal momento che la modificazione apre comunque alla possibilità che la società svolga le nuove attività previste.
L’art. 2437, lett. d), c.c. si riferisce unicamente alla revoca da parte dell’assemblea dello stato di liquidazione inteso in senso tecnico giuridico ex art. 2484 c.c., quale accertato dagli amministratori, deliberato dall’assemblea o accertato giudizialmente, e non al mutamento dell’orientamento della maggioranza circa le scelte di proseguire o meno nell’attività sociale; tale orientamento, infatti, non assume rilevanza fino a che non si traduca in una delibera assembleare di scioglimento (2484, n. 6, c.c.) o in altre circostanze previste dallo statuto (art. 2484, n. 7, c.c.).
Le ipotesi di recesso previste dall’art. 2497 quater c.c. sono dettate a tutela del socio della società assoggettata alla direzione e coordinamento e non si prestano a essere applicate al socio della società che esercita direzione e coordinamento.
In via generale, sia per le s.p.a. che per le s.r.l., la delibera di scissione non produce i suoi effetti in termini di modificazioni sociali fino a che non sia eseguita, tanto è che l’art. 2503 c.c., richiamato per le scissioni dall’art. 2506 ter, ultimo comma, c.c., regola i casi in cui la delibera può essere immediatamente – o meno – “attuata” mediante l’atto (notarile). Ove la delibera di scissione dia diritto al recesso – come è per le s.r.l. –, esso comunque diviene inefficace se la delibera viene successivamente revocata. La revoca, dunque, opera non già come fattore di “modificazione” del regolamento sociale, ma come fattore di annullamento di una modificazione ancora tutta “da attuare”. Non può farsi equivalere, agli effetti del recesso, una delibera di revoca di una scissione non attuata a una delibera di scissione. È bensì evidente dall’ultimo comma dell’art. 2473 c.c. (e anche dell’art. 2437 bis, ultimo comma, c.c.) che il legislatore correla il diritto di recesso alla delibera di fusione o scissione e non alla sua esecuzione; ma è anche vero che la revoca della delibera può rendere addirittura inefficace il recesso già operato. Né, una volta che la delibera sia revocata oltre il termine nel quale essa renderebbe inefficace il recesso, essa diviene per ciò solo operativa: lo spazio fra delibera ed esecuzione della scissione (e lo stesso per la fusione) è proprio quello nel quale si esercitano i diritti di opposizione, con effetti anche preclusivi della esecuzione.
Quanto alla casistica determinante il diritto di recesso, il legislatore ha dettato due distinte e ben chiare discipline rispettivamente per le s.p.a. e le s.r.l. La ragione della distinzione delle due discipline risiede in una precisa scelta del legislatore, che con riferimento alle s.r.l. ha voluto, da un lato, semplificare la gestione e l’esercizio dell’impresa e, dall’altro, tutelare i soci di minoranza favorendo l’accessibilità al recesso come contropartita delle ampie facoltà attribuite al controllo da parte dei soci di maggioranza. In relazione, dunque, alla difformità delle fattispecie di recesso previste dagli artt. 2473 e 2437 c.c., non si tratta di riempire un vuoto normativo, né di valutare se una disciplina prevista per un tipo sociale possa applicarsi anche all’altro in ragione del fatto che esprime principi generali. Pertanto, nelle s.p.a. non compete il diritto di recesso ai soci che non hanno consentito alla fusione o scissione della società.
Il recesso del socio da una società è un negozio unilaterale recettizio, destinato a perfezionarsi e a produrre i propri effetti sin dal momento in cui la dichiarazione che lo esprime sia pervenuta nella sfera di conoscenza della società destinataria; ciò, naturalmente, quando ne sussistano i presupposti. Il recesso, essendo immediatamente efficace, non dà alcun diritto al socio a continuare a partecipare alla vita sociale. Con il legittimo recesso, infatti, il socio non è più abilitato all’esercizio dei diritti sociali e conserva il diritto ad ottenere la liquidazione della sua quota o azione.
La determinazione dell’importo della liquidazione della quota cui ha diritto il socio che ha esercitato il diritto di recesso è riservata, per disposizione di legge, al regolamento negoziale: in tal senso è chiaro il disposto dell’art. 2437 ter c.c. nelle sue varie disposizioni, culminanti nella previsione – in caso di disaccordo fra socio e società sul valore della quota azionaria – di uno strumento giudiziale, non contenzioso, volto alla nomina di un esperto, il cui parere è aggredibile con causa contenziosa solo nei limiti dell’art. 1349 c.c. È da ritenere che questo regolamento normativo della materia, da un lato, risenta della oggettiva difficoltà di determinare il “valore di mercato” delle partecipazioni (si nota che lo stesso regime vale per le s.r.l., tipicamente società chiuse) e, dall’altro, miri a ridurre al massimo il contenzioso e i tempi di attesa del socio rispetto alla liquidazione della quota e insieme (e correlativamente) a deformalizzare le operazioni, rendendo accessibile all’esperto la documentazione occorrente senza limitazioni. Rispetto a un tale sistema è pertanto aliena la pretesa di ottenere la liquidazione secondo le regole del processo ordinario, caratterizzato da preclusioni e oneri probatori.
Recesso del socio sovventore di società cooperativa e rimborso delle spese degli amministratori
La perdita conseguente a perdite del diritto al rimborso di quanto versato dal socio a titolo di finanziamento postergato e disponibile per la copertura delle perdite di esercizio è inscindibilmente legata al depauperamento del patrimonio della società e, pertanto, seppur dipendente da mala gestio degli amministratori, non può qualificarsi come un danno direttamente arrecato al socio. Al contrario, trattandosi di un danno indirettamente subito dal socio, come riflesso del danno arrecato alla società, l’integrale rimborso del finanziamento dipende dal fruttuoso esercizio dell’azione sociale di responsabilità diretta alla reintegrazione del patrimonio sociale.
Il socio che ometta il pagamento della quota nel termine prescritto non può esercitare il diritto di voto malgrado non sia stato destinatario di uno specifico atto di costituzione in mora o di una diffida ad eseguire quel pagamento entro trenta giorni, dovendogli quest’ultima essere indirizzata al solo scopo di dare inizio alla vendita in danno dell’intera quota sottoscritta. Non è, cioè, necessaria la diffida ad adempiere al fine di costituire il socio in mora, ma il socio deve ritenersi in mora per il solo fatto obiettivo del ritardo nell’adempimento rispetto al termine assegnato per la liberazione della quota, o dallo statuto o dagli amministratori all’atto dell’ammissione. Tuttavia, fino a che gli amministratori non provvedono a richiedere ai soci il versamento, e come s’è detto essi si sono astenuti dal farlo, anche quando si sono espressamente impegnati a farlo per sanare una constatata irregolarità di gestione, il socio non può ritenersi inadempiente e ha dunque titolo all’esercizio dei diritti di socio volontario.
Poiché il recesso parziale è espressamente non consentito dall’art. 2532 c.c., il socio sovventore, finanziatore o titolare di altri titoli di debito (art. 2526 c.c.) vede regolato il proprio diritto di recesso sulla base degli artt. 2437 ss. c.c., in tema di recesso nelle società per azioni, che espressamente ammettono il recesso parziale. Segue che il socio sovventore può esercitare il recesso per tale sola posizione e mantenere nondimeno il rapporto associativo.
La qualità di amministratore non è di per sé incompatibile con lo svolgimento, da parte dell’amministratore, di prestazioni professionali a favore della società, che siano estranee all’amministrazione; in tal caso, l’amministratore ha diritto a ricevere un autonomo compenso per l’attività prestata, ulteriore a quello eventualmente previsto per la carica. Con riguardo alla fissazione di una linea di confine tra attività inerenti all’amministrazione della società e prestazioni professionali estranee (incluse le prime nel compenso eventualmente riconosciuto per la carica, escluse e soggette ad autonoma remunerazione le seconde), il limite oltre il quale possono sussistere prestazioni professionali fatte nell’interesse della società, ma estranee all’amministrazione, deve individuarsi nell’oggetto sociale, talché rientrano tra le prestazioni tipiche dell’amministratore tutte quelle che siano inerenti all’esercizio dell’impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria e ordinaria.
Per il rimborso delle spese richieste da un amministratore di società di capitali, non regolato dall’art. 2389 c.c., deve applicarsi in via analogica la disciplina del mandato, che all’art. 1720 c.c. prevede che il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni e deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico. La formula dei danni è da intendersi in senso ampio, comprensivo non soltanto del danno in senso giuridico, ma anche della pura e semplice perdita economica collegata all’esecuzione del mandato. Nondimeno, va interpretata restrittivamente la perdita economica indennizzabile, come quella sola sostenuta a causa, e non semplicemente in occasione, del proprio incarico e perciò in stretta dipendenza dall’adempimento dei propri obblighi, pervenendo a escludere il nesso di stretta dipendenza per le spese legali sostenute dall’amministratore per la difesa in un giudizio penale.
Le scelte operative dell’amministratore sono insindacabili nel merito, secondo la c.d. business judgment rule, salvo il limite della valutazione di ragionevolezza, da compiersi ex ante, e tenendo conto – sempre nell’ordine del limite – della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.
Il rapporto tra la valutazione delle partecipazioni ai fini della determinazione del valore di liquidazione nel recesso e del rapporto di cambio nella fusione
L’esperto nominato ai sensi degli artt. 2437 ter e 2473 c.c. deve determinare il valore delle partecipazioni, ai fini del recesso, secondo equo apprezzamento. Tale determinazione è sottoposta al regime dell’art. 1349, co. 1, c.c. e può quindi essere impugnata soltanto per manifesta iniquità o erroneità. L’erroneità della perizia consiste in un ragionamento caratterizzato da contraddittorietà tra premesse e conclusioni, fondato su dati di fatto manifestamente errati o inficiato da errori di calcolo evidenti. La manifesta iniquità, invece, consiste in un’obiettiva sproporzione tra prestazioni, tale da ingenerare una lesione ultra dimidium, secondo il canone ricavabile dall’art. 1448 c.c. Per essere manifeste, iniquità ed erroneità devono essere desumibili direttamente dall’esame della determinazione del terzo e non da elementi estrinseci e devono tradursi in una rilevante sperequazione tra le prestazioni contrattuali contrapposte, come determinate attraverso l’attività dell’arbitratore o, in termini equivalenti, in un risultato concretamente ben distante, a livello sia quantitativo che qualitativo, da quello reputato corretto. Benché la stima dell’esperto debba farsi avuto riguardo ai criteri previsti dalla disciplina di settore, anziché in base alla semplice equità mercantile e a nozioni di comune esperienza, la discrezionalità resta comunque elevata, poiché esistono diverse metodologie di valutazione delle imprese, le quali di norma restituiscono valori anche apprezzabilmente differenti. Ne consegue che la motivata scelta, da parte dell’esperto, di un metodo di valutazione a preferenza di un altro integra un semplice dissenso tecnico, che non può ritenersi indice di manifesta iniquità o erroneità della determinazione e non è quindi sufficiente ad attivare il potere del giudice di determinare il valore della partecipazione in sostituzione dell’esperto.
Nella fusione la fissazione del concambio richiede una valutazione patrimoniale e reddituale delle entità che partecipano all’operazione, secondo uno o più metodi di valutazione adeguati ad esprimere il peso economico relativo delle medesime. Dal momento che nessun metodo può avere il privilegio della piena attendibilità, la legge non richiede l’assoluta esattezza matematica del concambio, così come non pretende di fissare criteri inderogabili cui attenersi nella stima, ma soltanto l’adeguatezza dei criteri adoperati, limitandosi a prescrivere la congruità del concambio, cioè che sia fissato all’interno di una ragionevole banda di oscillazione. Pertanto, la nozione di congruità finisce per ammettere una pluralità di concambi, i quali, entro il menzionato accettabile arco di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista del legislatore. Se più concambi sono egualmente legittimi, perché compresi in un ragionevole intervallo di valori, la scelta del concambio effettivo cessa di essere questione esclusivamente tecnico-valutativa e diventa materia di possibile negoziato tra gli amministratori delle società, sul quale incidono le prospettive strategiche dell’integrazione tra le imprese e altre considerazioni di mercato nonché la forza contrattuale delle società e la presenza di vincoli giuridici o di fatto, che riducano l’autonomia negoziale di una di esse e siano in grado di spostare gli equilibri economico-patrimoniali rispetto a una media teorica dei valori.
Il valore determinato ai fini del concambio di fusione può in generale ritenersi un indice affidabile del valore delle azioni anche ai fini della liquidazione in caso di recesso. In primo luogo, perché tale dato presenta un’elevata attendibilità. Inoltre, perché l’art. 2437 ter c.c. richiede di considerare, oltre alla consistenza patrimoniale e alle prospettive reddituali della società, anche l’eventuale valore di mercato delle azioni. La fusione non è un contratto di scambio né l’assegnazione di partecipazioni in concambio può in alcun modo essere definita un prezzo del consenso alla fusione, ma non si può dubitare che anche il concambio possa essere oggetto di negoziato e riflettere il valore di mercato delle azioni. Di contro, il valore considerato ai fini del concambio potrebbe risultare non attendibile o comunque inutilizzabile ai fini della determinazione del valore della partecipazione in caso di recesso se incompatibile con i criteri normativi o statutari previsti per la liquidazione del socio e, più ancora, se il valore del capitale economico delle società partecipanti alla fusione venga elaborato in prospettiva sinergica, considerando i benefici attesi dalla fusione e dal processo di integrazione tra le imprese o, in altri termini, valutando la società risultante dalla fusione e non quelle che vi partecipano: valutazione, quest’ultima, evidentemente incompatibile con l’art. 2437 ter c.c., il quale richiede di considerare valore e prospettive reddituali esclusivamente della società ante-fusione, coerentemente con la scelta di disinvestimento compiuta dal socio e il rifiuto di prendere parte all’entità risultante dalla fusione.
[Nel caso di specie, il valore delle azioni ai fini del concambio era stato determinato in ottica stand alone, cioè sulla base del valore della società in assoluto e quindi è stata esclusa l’esistenza di una diversità metodologica o di contenuto che ostacolasse l’utilizzo di tale valore anche ai fini della determinazione del valore di liquidazione spettante ai soci receduti].