Sospensione del giudizio civile ex art. 295 c.p.c. e rapporto con il giudizio penale
In base agli artt. 75 e 652 c.p.p. il rapporto tra giudizio penale e giudizio civile è improntato ai principi di autonomia e separazione e la regola generale è che il giudizio civile di danno debba essere sospeso soltanto allorché l’azione civile, ex art. 75 c.p.p., sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado, in quanto esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile di danno, che pertanto non può pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale, in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto. Affinché detta regola possa trovare applicazione è, dunque, necessario che vi sia, non solo, una effettiva coincidenza per petitum e causa petendi tra le due azioni, ma, soprattutto, che vi sia identità di soggetti. Solo in siffatta ipotesi può, infatti, trovare applicazione la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c. Sospensione necessaria che viene, altresì, in rilievo, in base a quanto dispongono gli artt. 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., nell’ipotesi in cui alla commissione del reato oggetto dell’imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile, e sempre a condizione che la sentenza che sia per essere pronunciata nel processo penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile, il che presuppone necessariamente ai sensi dell’art. 2909 c.c. l’identità di soggetti.
Responsabilità degli amministratori non esecutivi
Ai fini della decorrenza della prescrizione dell’azione sociale di responsabilità rileva non già il momento in cui il presupposto dell’azione prevista dall’art. 2394 c.c. è effettivamente conosciuto dai creditori sociali, ma il momento in cui il presupposto di quell’azione diviene da loro oggettivamente percepibile, con due precisazioni: in primo luogo, questo presupposto riguarda l’insufficienza della garanzia patrimoniale generica della società e non corrisponde perciò né allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 l.fall., né alla perdita integrale del capitale sociale; in secondo luogo, il momento in cui questo presupposto diviene oggettivamente conoscibile dai creditori sociali non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, ma può collocarsi tanto anteriormente quanto posteriormente ad essa.
L’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, rilevante ai fini del decorso della prescrizione quinquennale, può risultare dal bilancio sociale che costituisce, per la sua specifica funzione, il documento informativo principale sulla situazione della società non solo nei riguardi dei soci, ma anche dei creditori e dei terzi in genere. Sicché spetta al giudice di merito, con un apprezzamento in fatto insindacabile in cassazione, accertare se la relazione dei sindaci al bilancio che abbia evidenziato l’inadeguatezza della valutazione di alcune voci – a fronte della quale l’assemblea abbia comunque deliberato la distribuzione di utili ai soci, senza rilievi da parte degli organi di controllo -, sia idonea a integrare di per sé l’elemento della oggettiva percepibilità per i creditori circa la falsità dei risultati attestati dal bilancio sociale.
In tema di responsabilità degli amministratori, l’assenza di delega non esonera di per sé da responsabilità, poiché sugli amministratori grava l’obbligo di verificare e controllare il corretto esercizio della delega conferita ad altri. Di fatti, ai sensi dell’art. 2381, co. 3, c.c., i componenti del CdA deleganti sono comunque tenuti a valutare l’operato dei delegati, richiedere informazioni, impartire direttive, avocare a sé il compimento di atti, tutti doveri che si riflettono nella responsabilità solidale degli amministratori, prevista dall’art. 2392, co. 2, c.c. nel caso in cui pur essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno adottato le misure idonee a impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
La responsabilità dell’amministratore non esecutivo si configura come condotta omissiva colposa, laddove la colpa può consistere, in primo luogo, in un difetto di conoscenza, per non avere rilevato colposamente l’altrui illecita gestione: non è decisivo che nulla traspaia da formali relazioni del comitato esecutivo o degli amministratori delegati, né dalla loro presenza in consiglio, perché l’obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni, non essendo esonerato da responsabilità l’amministratore che abbia accolto il deficit informativo passivamente. Pertanto, si può parlare di colpa in capo all’amministratore nel non rilevare i cd. segnali d’allarme, individuabili anche nella soggezione all’altrui gestione personalistica.
L’amministratore non esecutivo non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della mera posizione di garanzia, ma risponde per una propria condotta omissiva consistente nel mancato esercizio dei poteri impeditivi che l’ordinamento gli riconosce, quali, ad esempio, le richieste di convocazione del consiglio di amministrazione, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima o all’impugnazione della deliberazione viziata, l’attivazione ai fini all’avocazione dei poteri, gli inviti ai delegati di desistere dall’attività dannosa, la denunzia alla pubblica autorità, con informazione al p.m. ai fini della richiesta ex art. 2409 c.c., nella formulazione ante riforma.
Nel caso di responsabilità dell’amministratore per omesso versamento di imposte, il danno risarcibile non coincide con le imposte non versate, che, siccome dovute, rappresentano un debito titolato, che non diventa danno solo per il fatto di essere rimasto inadempiuto, ma è pari all’importo delle sanzioni, spese esecutive e aggi, che non sarebbero stati applicati se l’amministratore avesse ottemperato tempestivamente all’obbligo di versamento delle imposte.
In tema di responsabilità dei sindaci, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, co. 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate ovvero denunciandole al tribunale, ai sensi dell’art. 2409 c.c.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore
Il curatore può far valere la responsabilità degli amministratori della società fallita tanto a mezzo dell’azione sociale, in quanto ve ne siano i presupposti, e cioè il danno prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in violazione ai doveri imposti a loro carico dalla legge o dall’atto costitutivo, quanto a mezzo dell’azione dei creditori sociali, in quanto ve ne siano i presupposti, vale a dire il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, nella misura in cui sia stato reso insufficiente alla integrale soddisfazione dei creditori della società, da un atto commesso con dolo o colpa in violazione degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità. Le due azioni, ancorché diverse, vengono ad assumere, nell’ipotesi di fallimento, carattere unitario e inscindibile, nel senso che i diversi presupposti e scopi si fondono tra loro al fine di consentire l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che è stato sottratto dal patrimonio sociale per fatti loro imputabili. Sicché il curatore fallimentare, quando agisce postulando indistintamente la responsabilità degli amministratori, fa valere sia l’azione che spetterebbe alla società, in quanto gestore del patrimonio dell’imprenditore fallito, sia le azioni che spetterebbero ai singoli creditori, considerate però quali azioni di massa.
L’azione di responsabilità sociale ex art. 2393 c.c. ha natura contrattuale e presuppone un danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, mentre l’azione di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c. ha natura extracontrattuale e presuppone l’insufficienza patrimoniale cagionata dall’inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale.
La differenza tra le due tipologie di responsabilità si coglie soprattutto in ciò: solo il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non è tenuto a provare l’imputabilità dell’inadempimento al debitore, sul quale grava l’onere della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che l’inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). E tuttavia, compete pur sempre al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno ed il nesso di causalità. A maggior ragione, tali oneri gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo egli in aggiunta farsi carico (non solo di allegare, ma altresì) di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del neminem laedere.
Grava sugli amministratori il dovere di adempiere alle obbligazioni contratte dalla società con regolarità, al fine di evitare che la società abbia danno dai ritardi o dalle omissioni nei pagamenti, ciò quindi al fine di preservare l’integrità del patrimonio sociale. In caso di inadempimento, l’amministratore ha la possibilità di provare la mancanza di provvista in capo alla società per imputare all’impotenza finanziaria il proprio inadempimento. Tuttavia, anche in questo caso, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver attivato tutti gli strumenti del caso, dalla convocazione dell’assemblea per affrontare la crisi di liquidità con il versamento di nuova finanza, fino a prendere atto dell’impossibilità della società a proseguire la gestione ordinaria per incapacità a fare fronte con regolarità le obbligazioni tributarie attivando la messa in scioglimento.
Dies a quo di decorrenza della prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, co. 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali, implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti. Sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell’impresa al momento dell’apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 168 del 2003, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse.
Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., anche se esercitate cumulativamente ai sensi dell’art. 146 l.fall., debbono considerarsi distinte, perché basate su presupposti differenti e soggette a diverso regime giuridico, con particolare riferimento al calcolo dei termini per la prescrizione. Infatti, le due azioni di responsabilità si prescrivono nel termine di cinque anni ex art. 2949 c.c.; tuttavia, la decorrenza del termine varia a seconda del profilo di responsabilità azionato dal curatore. Se il curatore agisce per far valere la responsabilità dei componenti degli organi sociali nei confronti della società ai sensi dell’art. 2393 c.c., il termine decorre da quando è cessata la carica prima del fallimento o da quando il fallimento è stato dichiarato, se il soggetto passivo dell’azione di responsabilità sia in carica in quel momento, in forza della causa di sospensione di cui all’art. 2941, n. 7, c.c. Se il curatore esercita invece l’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., il termine di prescrizione decorra dalla conoscibilità esteriore dell’incapienza patrimoniale e quindi dell’insufficienza dell’attivo sociale a soddisfare i debiti, in forza del dato normativo letterale secondo cui l’insufficienza patrimoniale deve comunque “risultare”, il che può avvenire prima, dopo o al momento del fallimento.
In considerazione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando pertanto all’amministratore che sollevi la relativa eccezione fornire la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.
La prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio, decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, o dalla cessazione dalla carica, bensì dal momento dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti e, per meglio dire, dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza di tale insufficienza. Tale incapacità, consistente nella eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale (che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo) né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento.
Azione di responsabilità del curatore fallimentare nei confronti degli amministratori di s.r.l.
Quando l’amministratore sia inadempiente degli obblighi fiscali formali e sostanziali che gravano sulla società amministrata e tale inadempimento abbia determinato l’irrogazione di sanzioni a carico della società, egli risponde verso la società stessa del pregiudizio che il suo comportamento le ha causato. Tale pregiudizio è pari all’ammontare di sanzioni, interessi e aggi, non rispondendo l’amministratore per l’omesso pagamento del debito per l’imposta, che è in ogni caso imputabile soltanto alla società.
Il marchio di fatto nel fallimento
La circostanza che il marchio di fatto non fosse stato menzionato nell’elenco dei beni del fallimento non consente di escludere che detto marchio, ancorché non identificato dal curatore al momento dell’inventario, facesse parte dell’attivo fallimentare, trattandosi di un bene immateriale e quindi di difficile individuazione, vieppiù tenendo conto del fatto che il segno era stato concesso in godimento ad un soggetto terzo e quindi non era immediatamente percepibile dagli organi della procedura, estranei all’organizzazione della società, in assenza di documenti contabili regolarmente tenuti.
Il titolo costitutivo dei diritti di marchio è l’uso del segno e non la creazione dello stesso.
Ai sensi dell’art 669-terdecies cpc, in sede di reclamo possono essere introdotte nuove circostanze solo se sopravvenute, e quindi verificatesi successivamente rispetto al provvedimento reclamato. La norma non legittima invece l’ampliamento, in sede di reclamo, del thema decidendum mediante allegazioni nuove e non proposte in prime cure.
L’art. 131 c.p.i. dispone che il titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che sia disposta l’inibitoria, non solo di qualsiasi violazione imminente del suo diritto, ma anche del proseguimento o ripetizione delle violazioni in atto. Il periculum è quindi dato dall’attualità della condotta e dalla conseguente sussistenza di un pericolo imminente, dato dal protrarsi dell’utilizzo indebito del segno e dal conseguente incrementarsi dei danni, anche in termini di perdita di quote di mercato che sarebbe assolutamente difficile ristorare pienamente per equivalenti a mezzo di risarcimento all’esito del giudizio di merito.
Limiti all’acquisto di azioni proprie; inidoneità dell’insolvenza a integrare un’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale
L’art. 2357 c.c., in tema di acquisto di azioni proprie, utilizza il concetto di distribuibilità con riferimento soltanto agli utili e non anche alle riserve. Gli utili distribuibili sono quelli non soggetti a vincoli di destinazione legali o statutari, o non destinati alla reintegrazione di riserve legali e statutarie o alla remunerazione dei promotori, dei soci fondatori e degli amministratori o non vincolati in forza di contratti collettivi o individuali di lavoro ex artt. 2099 e 2101 c.c. Quanto alle riserve, la nozione di disponibilità va distinta da quella di distribuibilità in base al criterio della possibilità di utilizzazione delle medesime. Le possibili utilizzazioni delle riserve disponibili sono, esemplificativamente, l’aumento gratuito del capitale sociale, il rimborso della partecipazione in caso di recesso del socio, la copertura delle perdite, la distribuzione ai soci e la destinazione a scopi specifici. Ne deriva che la distribuibilità della riserva rappresenta solo uno dei possibili utilizzi della riserva disponibile, essendo in un rapporto di species a genus rispetto alla disponibilità; utilizzo, quest’ultimo, che si esplica nella distribuzione ai soci degli utili che la costituiscono. L’indistribuibilità della riserva scaturisce da un divieto, legale o statutario, di distribuzione, che impone di non assegnare ai soci i valori corrispondenti alle riserve iscritte in bilancio, ma destinati invece a rimanere nel patrimonio netto: ciò al fine di rendere tali valori disponibili per altri scopi.
La norma di cui all’art. 2357 c.c. consente di acquistare azioni proprie solo mediante impiego di quella porzione del patrimonio netto che indica le risorse in surplus, senza dunque che si possa attingere a capitale o a riserve indisponibili. La ratio della disposizione risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l’acquisto delle azioni proprie della società mascheri un’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate, per legge o per statuto, a preservare la solidità patrimoniale dell’ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo luogo, che le riserve da utilizzare per l’acquisto delle azioni effettivamente sussistano e, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine. Ne consegue che ben possono essere utilizzate per l’acquisto di azioni proprie riserve disponibili anche se non distribuibili, tra cui la riserva per costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità ex art. 2426, co. 1, n. 5 c.c.
La presenza di irregolarità contabili non implica necessariamente una responsabilità civile a carico degli amministratori né, ancor prima, l’inadempimento degli amministratori all’incarico ricevuto. Non si può escludere, infatti, che, pur in presenza di una iscrizione contabile scorretta, non ricorra tuttavia alcun profilo di colpa, alcuna violazione da parte degli amministratori dei canoni di diligenza professionale richiesti dalla natura dell’incarico; ciò anche qualora dall’iscrizione contabile fosse derivato un danno per la società amministrata o per i terzi. Inoltre, poiché qualsiasi valutazione dell’operato dei componenti dell’organo amministrativo deve essere espressa mediante un giudizio ex ante, debbono essere tenuti in considerazione solo gli elementi in possesso al momento dell’assunzione della decisione, o quelli che avrebbero potuto essere conosciuti, con conseguente irrilevanza, ai fini della espressione del giudizio sulla condotta degli amministratori, sia degli elementi conosciuti ex post sia dei risultati della decisione assunta. Lo stesso principio generale contenuto nell’art. 2423 c.c., secondo cui nel bilancio deve essere esposta con chiarezza e in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio, conferma l’orientamento secondo il quale tutte le volte che l’irregolarità contabile non altera e non maschera la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’ente, la stessa non integra una condotta negligente dell’amministratore.
Laddove l’iscrizione contabile risulti opinabile e non pienamente rappresentativa della situazione patrimoniale della società, ma sia stata comunque compiuta nei limiti della discrezionalità consentita dai criteri dettati dal legislatore, si deve escludere la violazione di un obbligo di condotta che possa determinare una responsabilità dell’amministratore. La prudenza e ragionevolezza della valutazione dei crediti sociali è condizionata dall’individuazione dei dati che alimentano una prognosi sulla solvibilità dei debitori. Per questo, occorre tener conto della particolare qualità del debitore, dell’andamento dei rapporti pregressi nei confronti dello stesso soggetto, della regolarità dei pagamenti e di tutti quelli valutabili per accertare l’insolvenza.
Lo stato di insolvenza, o comunque una crisi economico-finanziaria della società, non rende ineluttabilmente impossibile il raggiungimento dell’oggetto sociale ex art. 2484, n. 2, c.c. Quest’ultimo, infatti, non coincide con lo scopo di lucro: è lo stesso legislatore a definire l’oggetto sociale come l’attività programmata o svolta dalla società. D’altra parte, se non si vuole far venire meno il significato stesso dell’eliminazione del fallimento dal novero delle cause di scioglimento delle società di capitali [nel sistema antecedente all’introduzione del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14], deve ritenersi che l’accertamento giudiziale dell’insolvenza della società, e cioè della più grave tra le crisi dell’impresa, non appare di per sé sufficiente a provocarne lo scioglimento: dunque, non appare di per sé sufficiente a integrare altre ipotesi dissolutive, nemmeno, in particolare, quella consistente nell’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale. Ne deriva che l’oggetto sociale ben può essere conseguito anche da una società che versa in stato di insolvenza. Il che, a sua volta, impedisce di riconoscere alle condizioni economiche della società, tanto più se meno gravi dell’insolvenza, l’idoneità a rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale. L’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale coincide con l’impossibilità, giuridica o materiale e non anche economica, di continuare a svolgere l’attività in cui esso consiste.
Il curatore è legittimato a proporre l’azione risarcitoria nei confronti della banca per l’imprudente concessione del finanziamento, quando la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, che abbia perduto interamente il capitale, dinanzi all’avventata richiesta di credito e a una parimenti avventata concessione di credito da parte della banca. Si deve, invece, escludere la legittimazione del curatore all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del patrimonio di quest’ultimo. Al curatore spetta, infatti, la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., di cui tutti i creditori beneficeranno.
Finanziamenti infragruppo postergati e responsabilità di amministratori e sindaci
Nella situazione in cui la holding, operando già a patrimonio netto negativo e quindi in modo tale da traslare sui propri creditori il rischio delle sue nuove iniziative imprenditoriali, esegue finanziamenti nei confronti di una società controllata operativa a sua volta sull’orlo dell’insolvenza non sono configurabili i cc.dd. vantaggi compensativi che presuppongono l’operatività secondo criteri di economicità di tutte le società del gruppo in modo tale che l’impiego delle risorse a favore di una controllata sia effettivamente compensato nel patrimonio della controllante dal risalire dei proventi dell’attività della controllata operativa in misura tale da assicurare il soddisfacimento anche del suo ceto creditorio. Non valgono, quindi, a configurare vantaggi compensativi per la massa dei creditori della holding che opera a patrimonio netto negativo né la destinazione del finanziamento alla riduzione del passivo della controllata di cui hanno beneficiato solo i suoi creditori, né la liberazione dalle garanzie prestate tramite un’altra società controllata di cui si è avvantaggiata semmai solo la massa dei creditori della controllata garante.
L’art. 2467 c.c. si applica anche ai finanziamenti eseguiti dai soci amministratori di società per azioni.
Impugnativa della delibera e sopravvenuta carenza di interesse ad agire per il fallimento della società
In tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari della società, il sopravvenuto fallimento di quest’ultima comporta il venir meno dell’interesse ad agire per ottenere una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato, quando l’istante non deduca e argomenti il suo perdurante interesse, avuto riguardo alle utilità attese dopo la chiusura della procedura fallimentare. Pertanto, rispetto alla delibera relativa all’autorizzazione all’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore, il fallimento priva di qualsivoglia interesse il suo annullamento, tenuto conto che sarà il curatore fallimentare, nei modi e nei tempi previsti dalla legge, a valutare nella sua autonomia la sussistenza dei presupposti per agire nei confronti degli ex amministratori, previa autorizzazione del giudice delegato. Per cui alcun beneficio recherebbe l’eventuale pronuncia favorevole alla società attrice, né la sussistenza di una eventuale e astratta possibilità di ritorno della società in bonis può essere sufficiente a radicare in capo all’attrice un interesse concreto e attuale alla emissione di un provvedimento nel merito.
Azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di s.r.l. per atti di mala gestio
Per effetto del fallimento di una società di capitali, le diverse fattispecie di responsabilità degli amministratori di cui agli artt. 2392 e 2394 c.c. (ante riforma) confluiscono in un’unica azione, dal carattere unitario ed inscindibile, all’esercizio della quale è legittimato, in via esclusiva, il curatore del fallimento, ai sensi dell’art. 146 l. fall., che può, conseguentemente, formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori ed i sindaci tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità contrattuale di questi verso la società, quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali.
Per gli amministratori di una società a responsabilità limitata, al pari di quelli delle società per azioni, è richiesta non la generica diligenza del mandatario (art. 1710 c.c.), cioè quella tipizzata nella figura dell’uomo medio, ma quella desumibile in relazione alla natura dell’incarico ed alle specifiche competenze, cioè quella speciale diligenza prevista dall’art. 1176, 2° comma, c.c. per il professionista.
All’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, o le modalità e circostanze di tali scelte, ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Il risarcimento del danno cui è tenuto l’amministratore, ai sensi dell’art. 2476 c.c., dà luogo ad un debito di valore, avendo per contenuto la reintegrazione del patrimonio del danneggiato nella situazione economica preesistente al verificarsi dell’evento dannoso, con la conseguenza che nella liquidazione del risarcimento deve tenersi conto della svalutazione monetaria verificatasi tra il momento in cui si è prodotto il danno e la data della liquidazione definitiva.