Il custode delle quote è il solo legittimato a partecipare all’assemblea e a impugnare la delibera
In virtù del combinato disposto degli artt. 2471 bis e 2352 c.c., in caso di pignoramento delle quote sociali, il custode giudiziario delle quote è l’unico soggetto legittimato a rappresentare le quote in assemblea, sussistendo in capo al socio pignorato un difetto di legittimazione alla rappresentanza delle partecipazioni pignorate in assemblea. Pertanto, in mancanza della relativa convocazione, le quote non possono ritenersi validamente rappresentate e il custode giudiziario è legittimato all’esercizio dell’azione di annullamento della delibera assembleare eventualmente assunta.
L’eventuale nuova convocazione dell’assemblea e la sostituzione della delibera assunta in mancanza della necessaria convocazione e partecipazione del custode giudiziario determina la cessazione della materia del contendere in relazione all’impugnazione della delibera precedentemente assunta. Tale declaratoria, peraltro, non pregiudica la domanda di condanna alla refusione delle spese di lite, domanda che deve essere vagliata facendo ricorso alla regola delle soccombenza virtuale.
Impugnazione della delibera negativa sulla nomina degli amministratori
In virtù della previsione di cui all’art. 2377, co. 8, c.c., nel giudizio di impugnazione di una deliberazione assembleare si verifica la cessazione della materia del contendere e non si può procedere alla dichiarazione di nullità o all’annullamento della deliberazione impugnata, quando risulti che l’assemblea dei soci, regolarmente riconvocata, abbia validamente deliberato sugli stessi argomenti della deliberazione impugnata. A tal fine, la nuova deliberazione, emessa dall’assemblea nuovamente convocata e regolarmente costituita, deve avere lo stesso oggetto della prima e, quanto meno implicitamente, dalla stessa deve risultare la volontà dell’assemblea di sostituire la deliberazione invalida, ponendo in tal modo in essere un atto sostitutivo ovvero ratificante di quello invalido e una rinnovazione sanante con effetti retroattivi.
La verifica dell’esistenza dell’interesse ad agire postula la verifica della possibilità, per l’istante, di conseguire attraverso il processo il risultato che si è ripromesso, a prescindere dall’esame del merito della controversia e dalla stessa ammissibilità della domanda sotto altri e diversi profili; esso non può escludersi in presenza della possibilità di esperire azioni alternative di tutela della medesima situazione contro lo stesso o altro soggetto.
È vero che, sebbene non possa essere emessa una sentenza dichiarativa con effetto sostitutivo di una delibera positiva, ciò non significa che la sentenza con cui si accerti la sola invalidità della delibera negativa debba essere necessariamente priva di utilità, potendo avere l’utilità propria delle azioni di mero accertamento. Infatti, un’iniziativa giudiziale di tal tipo potrebbe presentare un’utilità ogniqualvolta lo statuto prevedesse una clausola tale da impedire la ripresentazione della proposta deliberativa rigettata, a ciò conseguendo la inammissibilità di una nuova votazione sulla stessa proposta solo nel caso di delibera negativa priva di vizi. In secondo luogo, una pronuncia sulla delibera negativa potrebbe essere utile anche al fine di avviare eventuali azioni risarcitorie nei confronti dei soci responsabili dell’abuso.
Impugnativa della delibera e sopravvenuta carenza di interesse ad agire per il fallimento della società
In tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari della società, il sopravvenuto fallimento di quest’ultima comporta il venir meno dell’interesse ad agire per ottenere una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato, quando l’istante non deduca e argomenti il suo perdurante interesse, avuto riguardo alle utilità attese dopo la chiusura della procedura fallimentare. Pertanto, rispetto alla delibera relativa all’autorizzazione all’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore, il fallimento priva di qualsivoglia interesse il suo annullamento, tenuto conto che sarà il curatore fallimentare, nei modi e nei tempi previsti dalla legge, a valutare nella sua autonomia la sussistenza dei presupposti per agire nei confronti degli ex amministratori, previa autorizzazione del giudice delegato. Per cui alcun beneficio recherebbe l’eventuale pronuncia favorevole alla società attrice, né la sussistenza di una eventuale e astratta possibilità di ritorno della società in bonis può essere sufficiente a radicare in capo all’attrice un interesse concreto e attuale alla emissione di un provvedimento nel merito.
La delibera di ratifica dell’operato dell’amministratore non può avere oggetto illecito
La delibera di ratifica dell’operato dell’amministratore non può avere di per sé oggetto illecito, attesa la piena disponibilità da parte dell’assemblea dei soci delle pretese derivanti dal rapporto di mandato intrattenuto con l’amministratore. L’illiceità può connotare solo il contenuto della disposizione eventualmente adottata in violazione di norme imperative poste a tutela dell’interesse generale.
Sulla tempestività della convocazione assembleare e sull’abuso di potere nell’adozione di delibere assembleari
Deve presumersi che l’assemblea dei soci sia validamente costituita ogni qual volta i relativi avvisi di convocazione siano stati spediti agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell’adunanza (o nel diverso termine eventualmente in proposito indicato dall’atto costitutivo); tale presunzione può essere vinta nel caso in cui il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, egli non abbia affatto ricevuto l’avviso di convocazione o lo abbia ricevuto così tardi da non consentirgli di prendere parte all’adunanza, in base a circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione in concreto sono riservati alla cognizione del giudice di merito.
L’abuso o eccesso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale –, ovvero sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli. Al di fuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione della delibera. Nel concreto, è dunque necessario dimostrare l’esercizio fraudolento ovvero ingiustificato del potere di voto, non potendo l’abuso consistere nella mera valutazione discrezionale del socio dei propri interessi, ma dovendo concretarsi nella intenzionalità specificamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante.
L’esame del merito della delibera è ammesso solo in presenza di indici oggettivi che consentano di sospettare la violazione di vincoli imposti dall’ordinamento alla maggioranza; della prova di tali indizi è onerata la parte che assume l’illegittimità della deliberazione. Grava, cioè, sul socio di minoranza l’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto. Poiché l’abuso presuppone un controllo di merito del giudice, il socio di minoranza, oltre a provare la arbitraria e fraudolenta preordinazione della delibera da parte dei soci maggioritari, dovrà preventivamente fornire quei sintomi di illiceità, tali da consentire al giudice l’analisi delle motivazioni della delibera, per poter verificare se effettivamente abuso vi sia stato. La presenza del fine fraudolento, la cui prova può essere data anche induttivamente, dimostrando che lo scopo apparentemente perseguito dalla società è in realtà inesistente, costituisce non solo un sintomo del vizio della decisione impugnata, ma anche il limite alla tutela della minoranza.
Sugli elementi valutabili ai fini della compromettibilità in arbitri delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di delibere di aumento o riduzione del capitale sociale
L’aspetto determinante per decidere circa l’arbitrabilità delle controversie riguardanti le impugnazioni delle delibere societarie consiste nella prospettazione dei fatti concretamente fornita dalle parti e degli interessi specificamente convolti. In linea generale, al fine di negare o consentire un giudizio arbitrale su controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di delibere societarie incidenti sul capitale sociale (in termini di suo aumento e/o riduzione), occorre verificare se le stesse, rispettivamente, influiscano, o meno, su interessi superindividuali della società, dei soci e dei terzi la cui tutela sia assicurata, o non, mediante la predisposizione di norme inderogabili che, se violate, determinerebbero la reazione dell’ordinamento svincolata da una qualsiasi iniziativa di parte. Pertanto, laddove il coinvolgimento di tali interessi non sia direttamente inciso dall’oggetto del processo, deve escludersi che si sia al cospetto di diritti indisponibili, con conseguente possibilità, in presenza di una clausola compromissoria contenuta nell’atto costitutivo o nello statuto della società, di sottoporre le controversie suddette alla cognizione arbitrale.
Sulla legittimazione dell’ex socio ad impugnare la delibera assembleare di s.r.l.
In tema di operazioni sul capitale sociale, la perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale non incide sulla legittimazione ad esperire le azioni di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare adottata ex art. 2447 o 2482 c.c., che rimane inalterata, in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all’art. 24, comma 1, Cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’istante assume essere “contra legem” e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.
La perdita della qualità di socio non vale, quindi, a determinare il difetto di legittimazione ad impugnare la delibera dell’assemblea dei soci che si assume invalida e da cui la perdita dello status di socio sia derivata e tale legittimazione si estende anche all’impugnazione contestuale di deliberazioni antecedenti relative all’approvazione di bilanci precedenti affetti da vizi tali da incidere anche sulla situazione patrimoniale che ha evidenziato l’integrale perdita del capitale sociale della società.
Impugnazione di delibere assembleari: sostituzione della deliberazione, compromittibilità in arbitri e aspetti processuali
In tema di impugnazione di deliberazioni dell’assemblea, affinché possa prodursi l’effetto sanante previsto dall’art. 2377, co. 8, c.c., è necessario che la deliberazione impugnata sia sostituita con altra che, adottata in conformità alla legge e allo statuto, abbia identico contenuto e, quindi, provveda sui medesimi argomenti della prima deliberazione, ferma l’avvenuta rimozione dell’iniziale causa di invalidità.
Le controversie aventi ad oggetto la validità di deliberazioni assembleari sono compromettibili in arbitri qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili. A tale riguardo, attengono a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri, soltanto le controversie relative all’impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabili anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell’art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la lite che abbia ad oggetto l’invalidità della delibera assembleare per omessa convocazione del socio, essendo soggetta al regime di sanatoria previsto dall’art. 2379-bis c.c., può essere deferita ad arbitri.
Qualora l’arbitrato previsto nello statuto sociale abbia natura rituale, l’eccezione di compromesso ha carattere processuale e integra una questione di competenza – e non di giurisdizione – cui è applicabile l’art. 819-ter c.p.c. Tale ultima previsione, in particolare, nel delineare i rapporti tra giudice ordinario e arbitro, prevede espressamente che il giudice debba affermare o negare la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato tramite sentenza, e infatti, in ipotesi di devoluzione della controversia ad un arbitro, soggetto posto al di fuori della giurisdizione ordinaria, il giudice, nel negare la propria competenza, si pronuncia con sentenza decidendo sulle relative spese, ai sensi del combinato disposto degli artt. 819-ter e 91 c.p.c.
Differenze tra nullità e annullabilità della delibera; legittimazione all’azione di annullamento
Secondo la disciplina prevista dall’art. 2377 c.c. in tema di annullabilità delle delibere assembleari, la legittimazione all’impugnazione compete al socio assente o dissenziente, precisando la norma che lo stesso socio può proporre l’impugnazione ove sia titolare di almeno il 5 % del capitale sociale, posto che diversamente il socio, pur dissenziente, non legittimato a proporre l’impugnativa, ha diritto unicamente al risarcimento del danno a lui cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto.
La titolarità di un numero minimo di azioni in capo all’impugnante è qualificata dal legislatore come condizione di legittimazione all’azione demolitoria, presupposto stesso del diritto del socio ad ottenere l’annullamento della delibera viziata, cosicché il difetto di detta condizione di legittimazione non introduce questione che possa qualificarsi come eccezione in senso proprio e stretto e, quindi, esaminabile unicamente ove il difetto sia stato eccepito in giudizio tempestivamente dalla società convenuta. In realtà, potendo la questione del difetto di legittimazione attiva essere rilevata anche d’ufficio, la mancanza di titolarità minima di azioni in capo al socio impugnante deve essere qualificata come mera difesa, di modo che non può reputarsi fondata l’eccezione di tardività di essa.
Rispetto alle ordinarie norme di diritto civile comune, ove la nullità negoziale si configura come invalidità virtuale, comprendendosi in detta sanzione anche il difetto di forma ad substantiam dell’atto, e l’annullabilità è predicabile solo per i vizi previsti specificamente dal legislatore, la disciplina dell’invalidità delle delibere societarie, come individuata dagli artt. 2377 e 2379 c.c., opera un capovolgimento di prospettiva, posto che le cause di nullità sono definibili come tipiche, ovvero predicabili unicamente nei casi previsti dal menzionato art. 2379 c.c., mentre, in tutte le altre ipotesi in cui la delibera assembleare sia contraria alla legge o allo statuto, la decisione dei soci risulterà meramente annullabile. Peraltro, è individuabile come vizio della deliberazione anche la più radicale inesistenza, categoria di elaborazione giurisprudenziale che può essere affermata in tutte le ipotesi in cui la carenza viziante sia tale da comportare in fatto che neppure possa essere ravvisabile una deliberazione assembleare.
Posta la regola della tassatività delle nullità delle delibere assembleari, con inversione prospettica rispetto alle ordinarie nullità negoziali, la violazione della norma di legge, secondo cui le delibere delle assemblee straordinarie debbano essere adottate in forma notarile ex art. 2375, co. 2, c.c., deve necessariamente rientrare tra le ipotesi di violazione sancite dall’art. 2377 c.c. in termini di annullabilità, non potendosi importare nel sistema societario le fattispecie di nullità proprie del diritto comune in riferimento ai requisiti di forma pubblica ad substantiam degli atti negoziali. In effetti, il sistema delineato dal legislatore in tema di invalidità delle delibere dell’assemblea dei soci è improntato alla tutela del valore della stabilità delle delibere medesime, circostanza che spiega, tra l’altro, il motivo per il quale l’annullabilità ricomprenda un novero di vizi esteso rispetto ai casi tassativi di nullità, con l’inversione dei principi diversamente previsti nel diritto comune.
Invalidità della delibera assembleare per conflitto di interessi e abuso di maggioranza
Non sono sindacabili in sede giudiziaria i motivi del voto espresso dalla maggioranza dei soci di una società se non nei limiti in cui – in violazione del principio di buona fede in senso oggettivo – la deliberazione sia preordinata al solo fine di perseguire esclusivamente interessi divergenti da quelli societari (conflitto di interessi) ovvero di ledere gli interessi degli altri soci (abuso di maggioranza).
L’abuso della regola di maggioranza è configurabile quando la delibera oggetto di impugnazione risulta arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari al solo fine di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero di ledere gli interessi degli altri soci. La relativa prova incombe sul socio di minoranza, il quale dovrà a tal fine indicare i sintomi di illiceità della delibera, deducibili non solo da elementi di fatto esistenti al momento della sua approvazione, ma anche da circostanze verificatesi successivamente, in modo da consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso vi sia stato.
L’abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la deliberazione non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale –, oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.
Ai fini dell’annullamento per conflitto di interessi ai sensi dell’art. 2373 c.c., è essenziale che la delibera sia idonea a ledere l’interesse sociale, inteso come l’insieme di quegli interessi che sono comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, e che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale (ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote), il controllo della gestione dell’attività sociale, la distribuzione dell’utile, l’alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento. Si ha conflitto di interessi rilevante quale causa di annullabilità delle delibere assembleari quando vi è un conflitto tra un interesse non sociale e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili al contratto di società.