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19 Gennaio 2021

Brevetto per invenzione o per modello industriale: tutele. Fra contraffazione (per interferenza) per equivalenti e concorrenza sleale

Ai sensi dell’articolo 52 comma 3 bis del D.lvo n. 30/2005, modificato dal D.lvo n. 131/2010, in tema di contraffazione di brevetti per invenzioni industriali posta in essere per equivalenti, il Giudice, nel determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, non deve limitarsi ad interpretare il tenore delle rivendicazioni alla luce della descrizione e dei disegni, bensì deve contemperare l’equa protezione del titolare con la ragionevole sicurezza giuridica dei terzi e, quindi, deve considerare ogni elemento che sia sostanzialmente equivalente ad uno di quelli indicato nelle rivendicazioni. Per far ciò, il Giudice può avvalersi di varie metodologie finalizzate ad accertare l’equivalenza della soluzione inventiva, come il verificare se la realizzazione contestata permetta di raggiungere il medesimo risultato finale adottando varianti prive del carattere di originalità.

L’originalità manca se le varianti sono ovvie alla luce delle conoscenze in possesso del tecnico medio del settore che si trovi ad affrontare il medesimo problema. Il Giudice non può attribuire rilievo alle intenzioni soggettive del richiedente del brevetto, sia pur ricostruite storicamente attraverso l’analisi delle attività poste in essere in sede di procedimento amministrativo diretto alla concessione del brevetto.

La Corte di legittimità (v. Cass. Civ. n. 2977/2020), in particolare, ha fatto applicazione del principio, di elaborazione giurisprudenziale tedesca, secondo il quale sintomo della contraffazione per equivalenti è proprio l’ovvietà o non originalità della soluzione sostitutiva adottata dal contraffattore rispetto alla soluzione brevettata, tenendo conto alle conoscenze medie del tecnico del settore.

L’equivalenza sussiste ove la variante realizzativa adottata risulti per il tecnico medio del settore ovvia, e, dunque, non originale, per ottenere la stessa soluzione al problema tecnico risolto dall’invenzione, non assumendo, invece, rilievo alcuno le limitazioni volontarie delle rivendicazioni introdotte dal titolare del brevetto nel corso della procedura di brevettazione (la cosiddetta “file history”). Del resto [anche la giurisprudenza di merito (v. ad es. Trib. Milano 20 settembre 2018), facendo applicazione del criterio del c.d. triple test, ha ritenuto la contraffazione per equivalenti in un caso in cui due determinati prodotti a confronto (nella specie, farmaci), svolgevano la medesima funzione, agivano con lo stesso modus operandi e, infine, ottenevano il medesimo risultato, e ciò in quanto il trovato sospettato di interferenza suggeriva soluzioni sostitutive prive di originalità, attuative degli elementi essenziali originali e caratteristici dell’idea brevettata, e, quindi, ovvie per il tecnico del ramo. L’illecito in commento, invece, deve essere escluso quando la soluzione del problema tecnico sia raggiunta con un meccanismo che, pur determinando identiche prestazioni funzionali, operi con mezzi strutturali diversi.

In materia di competenza funzional-territoriale in applicazione dei principi generali regolatori degli istituti della domanda riconvenzionale e della connessione, stante il sopravvenuto venir meno della inderogabilità della competenza territoriale prevista dal citato art. 120 c. III CPI per effetto della caducazione dell’obbligatorietà dell’intervento del P.M, il giudice della domanda principale può conoscere, nel medesimo processo, della domanda riconvenzionale che sia connessa alla prima per l’oggetto oltre che per il titolo.

2 Novembre 2020

Illecita sincronizzazione di un brano musicale: violazione dei diritti di utilizzazione economica

L’opera musicale non può essere legittimamente riprodotta, utilizzata e sincronizzata senza il consenso del titolare dei relativi diritti, attesa la sua natura esclusiva, assoluta ed opponibile erga omnes. La mancata autorizzazione comporta la violazione dei diritti esclusivi.

In particolare, il diritto di sincronizzazione consiste nel diritto di abbinare o di associare opere musicali o fonogrammi con opere audiovisive o con altro tipo di opere, e si attua con la loro fissazione in sincrono con una sequenza di immagini. La sincronizzazione è dunque un atto complesso che permette il riadattamento dell’opera musicale (Cass. sez.1, 12.12.2017, n.29811) .

Creando un prodotto nuovo e diverso, le attività di cui la sincronizzazione necessita sono riconducibili a diritti esclusivamente riservati all’autore/editore, quali:

  1. la fissazione dell’opera su un supporto e/o mezzo audiovisivo, idoneo a riprodurre suoni o immagini;
  2. la riproduzione dell’opera;
  3. l’inserimento dell’opera in un prodotto nuovo, che necessariamente presuppone la sua manipolazione ed il suo adattamento.

Quanto alla specifica sincronizzazione dei singoli fonogrammi, si rende necessario altresì il consenso del produttore fonografico.

Ai fini della cristallizzazione del danno secondo il criterio equitativo ex art. 1226 c.c., si utilizza quale parametro di valutazione, il prezzo del consenso, ossia l’importo che la titolare avrebbe verosimilmente richiesto per consentire alla convenuta di utilizzare l’opera musicale nelle proprie pubblicità commerciali. Il prezzo del consenso deve tener conto, quali elementi di ponderazione, della durata della lesione e della notorietà dell’opera

5 Ottobre 2020

Inibitoria cautelare per violazione di diritti IP e concorrenza sleale

L’azione cautelare di inibitoria può essere proposta anche a tutela di una domanda di marchio.

Chi propone una domanda di sottrazione di informazioni protette ex art. 98 c.p.i. ha l’onere di dimostrare che queste sono effettivamente segrete.

L’utilizzo di certificazioni ottenute da un concorrente costituisce atto di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 2 c.c.

17 Settembre 2020

Accertamento della contraffazione e conseguenze della cessazione delle condotte contraffattorie in corso di causa

La spontanea cessazione, in corso di giudizio, della condotta contestata non fa venire meno, di per sé, l’interesse all’accoglimento delle domanda di colui che agisce, ben potendo la parte all’esito del giudizio riprendere la condotta censurata, senza alcuna sanzione. Dovrà quindi procedersi, di volta in volta, ad una valutazione prognostica in merito alla probabilità di ripresa delle condotte contestate, che tenga conto delle peculiarità e delle specificità del caso sottoposto al vaglio del giudice (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto insussistente il rischio di reiterazione, da parte delle convenute, delle condotte contestate, tenuto conto, in particolare, dello stato di apparente inattività di queste ultime, nonché della sopravvenuta installazione di un’insegna del tutto diversa, in cui è spesa una denominazione differente dai segni distintivi azionati in giudizio dalle attrici).

Non sussistono elementi che consentano di ravvisare un danno da contraffazione allorché non sia provato che il presunto contraffattore ha concretamente fatto uso, in violazione dell’art. 20 c.p.i. e nell’ambito della propria attività economica, dei marchi e dei segni distintivi di altrui titolarità, con conseguente non configurabilità, neppure sul piano del pericolo, di un danno da sviamento di clientela ai sensi di cui all’art. 2598 c.c. (nel caso di specie, pur nella contumacia delle convenute, da elementi prodotti agli atti – quali le visure camerali delle convenute o la prova dell’omessa consegna di diffide – il Tribunale ha desunto lo stato di “inattività” delle convenute, per l’effetto rigettando le domande delle attrici volte ad accertare la contraffazione e/o la concorrenza sleale, con ogni conseguenza anche di tipo risarcitorio).

Deve procedersi d’ufficio alla riduzione ad equità della penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., la cui “eccessività” risulta, ex actis, dai documenti legittimamente acquisiti al processo (in applicazione del suddetto principio il Tribunale ha ritenuto che, ove un contratto di licenza permetta al licenziatario di fare legittimo uso di segni distintivi ed allestimenti del licenziante a fronte di un corrispettivo annuo di euro 2.800,00 oltre oneri, risulta manifestamente eccessiva una penale che, alla cessazione del contratto di licenza, preveda l’obbligo per il licenziatario di pagare una somma di euro 100,00 giornalieri per ogni giorno di ritardo nella rimozione di detti segni distintivi ed allestimenti; in sostituzione è stata ritenuta congrua una penale pari al doppio del corrispettivo annuo previsto nel contratto di licenza).

2 Luglio 2020

Rapporto di inerenza tra la domanda di merito volta ad accertare la contraffazione del marchio debole e la successiva domanda cautelare

Ove nel giudizio di merito venga invocata la tutela del marchio non solo nei confronti di segni e/o marchi allegati e specificamente individuati, ma anche di qualsiasi altro segno distintivo simile a quello azionato, l’ampliamento dell’azione di contraffazione a nuovi marchi che presentano gli stessi profili di illiceità non travalica le barriere preclusive previste dal codice di rito (nel senso di emendare il petitum ben oltre i relativi termini ex art. 183 c.p.c.) a presidio della definitiva formazione del thema decidendum e del thema probandum della causa di merito. Infatti, anche i nuovi segni aventi determinate caratteristiche devono ritenersi compresi nel perimetro oggettivo dell’originaria azione di merito. Ne consegue allora che qualsivoglia nuovo marchio o segno distintivo, che comunque utilizzi una delle due componenti caratteristiche del marchio oggetto della domanda di contraffazione, va considerato compreso nel thema decidendum e potrà essere preso in considerazione anche dalla sentenza resa all’esito del giudizio di merito.
[Nel caso in esame, l’organo giudicante specifica che l’eventuale statuizione di accoglimento della domanda di contraffazione non potrà limitarsi ad inibire genericamente l’uso di qualsiasi altro segno distintivo identico o simile al marchio/i dell’attore, ma dovrà indicare con precisione quale/i caratteristiche specifiche del/i marchio/i dell’attore non potranno essere usate nei nuovi o futuri segni distintivi utilizzati dalla convenuta.]

24 Aprile 2020

Marchi deboli e rischio di confondibilità

La nozione di «luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto» sancita dall’art. 5.3 del Reg. 44/2001/CE, oggi art. 7 n.2 del Reg. 1215/2012, deve essere interpretata come comprensiva sia del luogo in cui si è verificata l’azione (o l’omissione) da cui il danno è derivato, sia di quello in cui il danno in questione si è manifestato, da intendersi come luogo in cui l’evento ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi. Ai fini dell’individuazione di entrambi tali luoghi con riferimento agli illeciti costituiti dalla violazione di diritti di proprietà industriale e, in particolare del luogo del danno, deve essere affermato come la natura territoriale che connota tali diritti comporta la sua necessaria identificazione con il territorio dello Stato membro in cui il diritto di privativa è tutelato ed in cui, dunque, si verifica la sua lesione.

Il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato “debole”.

Marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo; peraltro, la loro “debolezza” non incide sull’attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.

Ai fini della concorrenza sleale, il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero “rilevante”), ossia quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza (nel caso di specie è stata esclusa la sussistenza dei presupposti di un’ipotesi di concorrenza sleale in quanto i vini a cui è stata apposta l’etichetta riportante il segno asseritamente in contraffazione erano destinati alla commercializzazione esclusivamente sui mercati americani e inglesi; mentre i vini del titolare del marchio erano commercializzati esclusivamente in Italia).

Premesso che l’art. 121, comma 1, c.p.i., in linea con i principi generali dell’art. 2697 c.c., dispone che l’onere di provare la decadenza di un marchio per non uso grava su chi impugna la privativa; la stessa norma precisa poi che, quando si voglia far valere la decadenza di un marchio per non uso, questo possa essere provato con qualsiasi mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici e ciò implica che il giudice può considerare provato il mancato uso quinquennale (consecutivo) del marchio in base ad un procedimento deduttivo da lui stesso condotto sulla base di ulteriori fatti dimostrati in causa.

L’inibitoria contemplata dall’art. 7 c.c. non consegue al semplice uso indebito da parte del terzo di un nome che compete ad altri, ma è necessario che da tale uso consegua un pregiudizio sia pure soltanto nel patrimonio morale di colui che chiede tutela.

14 Dicembre 2019

Competenza della sezione specializzata in materia di imprese con riferimento ad attività di concorrenza sleale confusoria

La fattispecie di concorrenza sleale interferente con diritti di proprietà industriale (ai sensi dell’art. 134 c.p.i.) non richiede il contemporaneo esercizio dell’azione risarcitoria del comportamento sleale con quello dell’accertamento di un diritto di privativa, ma soltanto che sussista un collegamento tra la condotta lesiva e l’esistenza di un segno distintivo del soggetto leso. Infatti, dalla disposizione di legge non si evince la necessità che oggetto principale della tutela giudiziaria sia una domanda volta a una pronuncia di un diritto di proprietà industriale o intellettuale; il legislatore invero richiede espressamente solo un rapporto di interferenza tra la tutela della proprietà industriale e intellettuale e le fattispecie di concorrenza sleale devolute alla competenza delle sezioni specializzate.

29 Ottobre 2019

Responsabilità dell’amministratore per concorso nella condotta illecita anticoncorrenziale

Dell’illecito di concorrenza sleale può essere chiamato a rispondere anche l’amministratore di s.r.l. ai sensi dell’art. 2476, co. 6,  se risultano provati la addebitabilità agli amministratori di omissioni e condotte in violazione degli obblighi specifici e dei doveri connessi alla carica rivestita, i pregiudizi patrimoniali diretti asseritamente subiti e il nesso eziologico tra gli addebiti formulati e i danni prospettati.

29 Ottobre 2019

Efficacia cross-border dell’ordine di inibitoria emanato dal giudice di un altro stato-membro; responsabilità di società consorella per illecita violazione di segreti industriali; l’efficacia temporale del provvedimento interdittivo

L’ordine d’inibitoria stabilito nella sentenza di un giudice di un altro Stato membro dell’Unione Europea (Germania) non è dotato in sé di efficacia extraterritoriale rispetto ai fatti illeciti commessi in Italia. Infatti, il principio della territorialità degli effetti delle  privative su diritti immateriali non titolati, quale riserva di sovranità dello Stato (com’è noto progressivamente erosa dalla disciplina sovranazionale sostanziale e processuale in materia di Marchio Comunitario -Reg. (CE) n. 207/2009- e di Modello Comunitario -Reg. (CE) n.6/2002- e, a breve, in materia di Brevetto Unico Europeo) sembra doversi ancora applicare in materia di segreti, per la quale una giurisdizione e un diritto sostanziale uniformi non esistono nello spazio europeo. Dunque ad oggi, ad esclusione dell’ipotesi del marchio comunitario e del modello comunitario, perché una sentenza di uno Stato Membro abbia efficacia extraterritoriale, il giudice che l’ha pronunciata deve essersi posto la questione della giurisdizione su fatti avvenuti fuori dal proprio Stato di appartenenza (e conseguentemente avere individuato i criteri di collegamento per radicare la propria giurisdizione anche per fatti fuori dal territorio nazionale). Questa interpretazione appare sorretta proprio dal nuovo dettato di cui all’art. 45 del Reg. (CE) n. 1215/2012, secondo il quale l’autorità dello Stato richiesto “è vincolata dall’accertamento dei fatti sul quale l’autorità giurisdizionale d’origine ha fondato la propria competenza”. Tuttavia, l’impossibilità di un nuovo riesame della questione sulla giurisdizione da parte del giudice ad quem (salvo le eccezioni di cui agli art. 34 e 35 del precedente Reg. (CE) n. 44/2001 corrispondenti all’art. 44 del nuovo Regolamento) opera sul presupposto che un controllo sulla giurisdizione sia stato compiuto dal giudice a quo, ossia dall’autorità che ha emesso il provvedimento dotato di efficacia transfrontaliera.

Cosicché, nell’ipotesi di marchio comunitario (secondo gli artt. 97 e 98 del Reg. (CE) 207/2009) e di modello comunitario (secondo gli artt. 82 e 83 del Reg. (CE) 6/2002) se la giurisdizione è fondata sul criterio di collegamento del forum rei, l’inibitoria deve ritenersi cross-border (art. 98 comma 1 del Reg. (CE) 207/2009; art. 83 comma 1 del Reg. (CE) 6/2002), mentre nel caso di giurisdizione fondata sul forum commissi delicti, essa è limitata al territorio dello Stato-Membro in cui il Tribunale ha sede (art. 98 comma 2 del Reg. (CE) 207/2009; art. 83 comma 2 del Reg. (CE) 6/2002). Negli altri casi, ivi inclusi i segreti industriali, la pronuncia- qualunque sia il criterio di giurisdizione applicato per avere efficacia transfrontaliera deve essere in ogni caso esplicitamente tale.

Secondo indirizzo pacifico, comunitario e nazionale gli effetti del giudicato vanno riguardati in base alle norme dello Stato d’origine (e dunque dell’ordinamento interno al quale appartiene il giudice a quo che ha adottato la sentenza) e non alle regole del giudizio dettate dell’ordinamento interno del giudice che deve recepirlo (ad quem). 

Ai sensi dell’art. 2359 c.c., comma 1, numero 3 c.c. e secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza anche comunitaria in materia Antitrust, va ritenuta responsabile una società consorella, che pur non detenendo quote nel capitale  sociale di quella che ha posto in essere  l’illecito, eserciti comunque un’influenza determinante su di essa in virtù di  vincoli economici e giuridici quali, appunto, la sussistenza di vincoli contrattuali .

Quanto all’efficacia temporale del provvedimento interdittivo, occorre tenere in conto del principio di proporzionalità che le misure dirette a tutelare i segreti debbono rispettare. E ciò in particolare alla luce degli interessi dei terzi operatori e dell’impatto che l’interdetto può cagionare a enti sanitarie, pubbliche o private, a fronte dell’art. 124, comma 6 bis, c.p.i. e del bilanciamento degli interessi in conflitto, da operare secondo la regola del “case by case”. La pendenza invero di rapporti contrattuali della parte interdetta con soggetti terzi e in particolare con strutture ospedaliere non può essere ostativa all’adozione del provvedimento inibitorio, ma solo alla sua modulazione temporale, mediante la concessione del c.d. “grace period” diversamente modulato a seconda delle specifiche condotte, salvaguardando la sola prosecuzione delle forniture già in corso con pubbliche amministrazioni o comunque presidi ospedalieri.

25 Luglio 2019

Inibitoria e penale: inapplicabilità della sanzione per mancata prova della violazione

Il mero reperimento di prodotti sul mercato, commercializzati successivamente alla sentenza che ha disposto l’inibitoria assistita da penale, non costituisce prova dell’avvenuta violazione dell’inibitoria stessa e non è, pertanto, di per sé sufficiente a fare ravvisare i presupposti per l’applicazione della sanzione stabilita. Laddove, infatti, la sentenza non abbia disposto anche il sequestro dei prodotti già in commercio, occorre la prova che i prodotti rinvenuti sul mercato siano stati oggetto di commercializzazione successivamente alla sentenza stessa.