Responsabilità degli amministratori e sequestro conservativo
Nell’ambito di un procedimento cautelare per sequestro conservativo, il requisito del periculum e il fondato timore di perdere le garanzie del credito possono essere anzitutto provati per il tramite di elementi obiettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito. Tale elemento costitutivo della cautela invocata deve sussistere sulla base di un elemento oggettivo e di uno soggettivo. Il criterio oggettivo si precisa nel senso che la semplice insufficienza del patrimonio del debitore può non essere decisiva ai fini della concessione del sequestro, poiché la specificità della cautela consiste nell’assicurare la fruttuosità della futura esecuzione forzata contro il rischio di depauperamento del patrimonio nelle more del giudizio. È quindi necessario che esistano circostanze oggettive (come protesti, pignoramenti, azioni esecutive iniziate da altri creditori, atti di dismissione del patrimonio o preparatori alla sottrazione degli stessi) che facciano temere l’impoverimento del debitore nell’intervallo. Inoltre, il periculum in mora può essere altresì dimostrato per il tramite di elementi soggettivi evincibili dal comportamento del debitore, tali da lasciare presumere che egli, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio, sottraendolo all’esecuzione forzata.
Limiti all’acquisto di azioni proprie; inidoneità dell’insolvenza a integrare un’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale
L’art. 2357 c.c., in tema di acquisto di azioni proprie, utilizza il concetto di distribuibilità con riferimento soltanto agli utili e non anche alle riserve. Gli utili distribuibili sono quelli non soggetti a vincoli di destinazione legali o statutari, o non destinati alla reintegrazione di riserve legali e statutarie o alla remunerazione dei promotori, dei soci fondatori e degli amministratori o non vincolati in forza di contratti collettivi o individuali di lavoro ex artt. 2099 e 2101 c.c. Quanto alle riserve, la nozione di disponibilità va distinta da quella di distribuibilità in base al criterio della possibilità di utilizzazione delle medesime. Le possibili utilizzazioni delle riserve disponibili sono, esemplificativamente, l’aumento gratuito del capitale sociale, il rimborso della partecipazione in caso di recesso del socio, la copertura delle perdite, la distribuzione ai soci e la destinazione a scopi specifici. Ne deriva che la distribuibilità della riserva rappresenta solo uno dei possibili utilizzi della riserva disponibile, essendo in un rapporto di species a genus rispetto alla disponibilità; utilizzo, quest’ultimo, che si esplica nella distribuzione ai soci degli utili che la costituiscono. L’indistribuibilità della riserva scaturisce da un divieto, legale o statutario, di distribuzione, che impone di non assegnare ai soci i valori corrispondenti alle riserve iscritte in bilancio, ma destinati invece a rimanere nel patrimonio netto: ciò al fine di rendere tali valori disponibili per altri scopi.
La norma di cui all’art. 2357 c.c. consente di acquistare azioni proprie solo mediante impiego di quella porzione del patrimonio netto che indica le risorse in surplus, senza dunque che si possa attingere a capitale o a riserve indisponibili. La ratio della disposizione risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l’acquisto delle azioni proprie della società mascheri un’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate, per legge o per statuto, a preservare la solidità patrimoniale dell’ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo luogo, che le riserve da utilizzare per l’acquisto delle azioni effettivamente sussistano e, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine. Ne consegue che ben possono essere utilizzate per l’acquisto di azioni proprie riserve disponibili anche se non distribuibili, tra cui la riserva per costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità ex art. 2426, co. 1, n. 5 c.c.
La presenza di irregolarità contabili non implica necessariamente una responsabilità civile a carico degli amministratori né, ancor prima, l’inadempimento degli amministratori all’incarico ricevuto. Non si può escludere, infatti, che, pur in presenza di una iscrizione contabile scorretta, non ricorra tuttavia alcun profilo di colpa, alcuna violazione da parte degli amministratori dei canoni di diligenza professionale richiesti dalla natura dell’incarico; ciò anche qualora dall’iscrizione contabile fosse derivato un danno per la società amministrata o per i terzi. Inoltre, poiché qualsiasi valutazione dell’operato dei componenti dell’organo amministrativo deve essere espressa mediante un giudizio ex ante, debbono essere tenuti in considerazione solo gli elementi in possesso al momento dell’assunzione della decisione, o quelli che avrebbero potuto essere conosciuti, con conseguente irrilevanza, ai fini della espressione del giudizio sulla condotta degli amministratori, sia degli elementi conosciuti ex post sia dei risultati della decisione assunta. Lo stesso principio generale contenuto nell’art. 2423 c.c., secondo cui nel bilancio deve essere esposta con chiarezza e in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio, conferma l’orientamento secondo il quale tutte le volte che l’irregolarità contabile non altera e non maschera la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’ente, la stessa non integra una condotta negligente dell’amministratore.
Laddove l’iscrizione contabile risulti opinabile e non pienamente rappresentativa della situazione patrimoniale della società, ma sia stata comunque compiuta nei limiti della discrezionalità consentita dai criteri dettati dal legislatore, si deve escludere la violazione di un obbligo di condotta che possa determinare una responsabilità dell’amministratore. La prudenza e ragionevolezza della valutazione dei crediti sociali è condizionata dall’individuazione dei dati che alimentano una prognosi sulla solvibilità dei debitori. Per questo, occorre tener conto della particolare qualità del debitore, dell’andamento dei rapporti pregressi nei confronti dello stesso soggetto, della regolarità dei pagamenti e di tutti quelli valutabili per accertare l’insolvenza.
Lo stato di insolvenza, o comunque una crisi economico-finanziaria della società, non rende ineluttabilmente impossibile il raggiungimento dell’oggetto sociale ex art. 2484, n. 2, c.c. Quest’ultimo, infatti, non coincide con lo scopo di lucro: è lo stesso legislatore a definire l’oggetto sociale come l’attività programmata o svolta dalla società. D’altra parte, se non si vuole far venire meno il significato stesso dell’eliminazione del fallimento dal novero delle cause di scioglimento delle società di capitali [nel sistema antecedente all’introduzione del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14], deve ritenersi che l’accertamento giudiziale dell’insolvenza della società, e cioè della più grave tra le crisi dell’impresa, non appare di per sé sufficiente a provocarne lo scioglimento: dunque, non appare di per sé sufficiente a integrare altre ipotesi dissolutive, nemmeno, in particolare, quella consistente nell’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale. Ne deriva che l’oggetto sociale ben può essere conseguito anche da una società che versa in stato di insolvenza. Il che, a sua volta, impedisce di riconoscere alle condizioni economiche della società, tanto più se meno gravi dell’insolvenza, l’idoneità a rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale. L’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale coincide con l’impossibilità, giuridica o materiale e non anche economica, di continuare a svolgere l’attività in cui esso consiste.
Il curatore è legittimato a proporre l’azione risarcitoria nei confronti della banca per l’imprudente concessione del finanziamento, quando la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, che abbia perduto interamente il capitale, dinanzi all’avventata richiesta di credito e a una parimenti avventata concessione di credito da parte della banca. Si deve, invece, escludere la legittimazione del curatore all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del patrimonio di quest’ultimo. Al curatore spetta, infatti, la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., di cui tutti i creditori beneficeranno.
Responsabilità degli amministratori per il ritardo nella presentazione dell’istanza di fallimento
Costituisce preciso dovere dell’amministratore in carica – obbligo da reputarsi strettamente inerente al dovere generale di diligenza nella gestione del patrimonio sociale e che trova puntuale riscontro normativo nella peculiare fattispecie penale di cui all’art. 217 l. fall. – adottare, allorquando si renda palese una situazione di dissesto, tutte le misure necessarie ad evitare un ingiustificato aggravamento della situazione patrimoniale e finanziaria della società.
Un amministratore non più in carica non può essere chiamato a rispondere dei danni non prodottisi durante la sua gestione, salvo che vi siano elementi per ritenere che anche le conseguenze pregiudizievoli verificatesi successivamente alla cessazione della carica siano comunque ascrivibili a sua responsabilità.
La mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.
Finanziamenti atipici e responsabilità degli amministratori di cooperativa per aggravamento del dissesto
L’impiego di risorse finanziarie nuove, ancorché destinato a copertura dei debiti scaduti o in scadenza, non implica sempre ed automaticamente la presenza di una situazione di insolvenza, e cioè di stabile e tendenzialmente irreversibile incapacità dell’impresa di far fronte alle proprie obbligazioni con strumenti normali, né può far presumere, da solo, la presenza di una riduzione del patrimonio tale da rendere necessaria, in assenza di apposita ricapitalizzazione, la messa in liquidazione della società. La percezione di somme a titolo di anticipi salvo buon fine in eccedenza rispetto al dovuto, che realizza una forma atipica e irrituale di finanziamento, può sì essere accompagnata dall’insolvenza o dalla perdita del capitale sociale, ma ciò rappresenta soltanto una possibilità.
Azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare. In particolare, la prescrizione
Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell’ente confluiscono nell’unica azione di responsabilità, esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime – attesa la ratio ad essa sottostante, identificabile nella destinazione, impressa all’azione, di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale, unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali – implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne muta i presupposti. Ne consegue che i fatti addotti a fondamento della domanda identificano l’azione in concreto esercitata dal curatore e, in particolare, la disciplina in materia di prova e di prescrizione, quest’ultima in ogni caso quinquennale, ma, se fondata sulle circostanze idonee ad attivare l’azione sociale, con decorrenza non dal momento in cui l’insufficienza patrimoniale si è manifestata come rilevante per l’azione esperibile dai creditori, bensì dalla data del fatto dannoso e con applicazione della sospensione prevista dall’art. 2941, n. 7, c.c., in ragione del rapporto fiduciario intercorrente tra l’ente ed il suo organo gestorio.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. cumula inscindibilmente i presupposti e gli scopi sia dell’azione sociale di responsabilità – la quale si ricollega ad una violazione da parte degli amministratori nell’esercizio delle loro attribuzioni di specifici obblighi di derivazione legale o pattizia che si sia tradotta in un pregiudizio per il patrimonio sociale –, sia dell’azione spettante ai creditori sociali ex art. 2394 c.c. – che integra una fattispecie di responsabilità extracontrattuale e tende alla reintegrazione del patrimonio sociale diminuito dall’inosservanza degli obblighi facenti capo all’amministratore.
L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società, esperibile dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall., è soggetta alla prescrizione quinquennale, con decorso, in base alla norma generale di cui all’art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, cioè, quanto all’azione sociale di responsabilità, dal giorno in cui sono percepiti i fatti dannosi posti in essere dagli amministratori e il danno conseguente e, quanto all’azione dei creditori sociali, dal giorno in cui si è manifestata, divenendo concretamente conoscibile, l’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i loro crediti. In particolare, con riferimento all’azione dei creditori sociali, la prescrizione decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, ma dal successivo momento dell’oggettiva conoscibilità del dato di fatto costituito dall’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali – anche se lo stesso sia stato in concreto ignorato – come si ricava con certezza dall’art. 2394 c.c., che subordina la proponibilità dell’azione al manifestarsi dell’evento dannoso, e cioè dal momento che, non coincidendo con il determinarsi dello stato di insolvenza, ben può risultare anteriore o posteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento nelle varietà delle fattispecie concrete.
L’insufficienza patrimoniale, che assume rilievo ai fini della decorrenza della prescrizione, è data dall’eccedenza delle passività sulle attività: tale situazione si distingue, quindi, dall’insolvenza, che costituisce il presupposto per la dichiarazione di fallimento ed è determinata dall’impossibilità per il debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni che, come tale, non implica necessariamente un’eccedenza delle passività sulle attività e può anche essere determinata da una situazione di semplice illiquidità. L’insufficienza patrimoniale può manifestarsi anche prima della dichiarazione di fallimento. In tali casi, l’onere della prova incombe su colui il quale eccepisca l’intervenuta prescrizione.
lo stato d’insolvenza del debitore e la portata della clausola compromissoria
Responsabilità degli amministratori per indebita prosecuzione dell’attività sociale e compensazione delle spese processuali per illeciti non risultanti in danni risarcibili
Nell’ambito del giudizio di responsabilità di amministratori di S.p.A. per indebita prosecuzione dell’attività sociale, la circostanza del mancato pagamento di alcuni debiti sociali non costituisce, di per sé, idonea dimostrazione di un dissesto irreversibile, né tanto meno [ LEGGI TUTTO ]
Cessione di azienda e revoca di atto a titolo oneroso compiuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento
Prova della “gestione di fatto” e responsabilità dell’amministratore cessato
Sussiste la competenza del Tribunale delle Imprese a conoscere delle “azioni di responsabilità da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo…”, ivi inclusi i soggetti che esercitino di fatto funzioni di amministrazione, pur in assenza di una formale investitura.
Disciplina della postergazione prevista dal primo comma dell’art. 2467 c.c. in relazione al soggetto che ha perso la qualità di socio
I presupposti della postergazione sono individuati dall’art. 2467 nell’ “eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto” e in una “situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”, in situazioni cioè di “rischio” di insolvenza che possono manifestarsi sia in fase di start-up se la società è sottocapitalizzata e quando v’è il pericolo che il rischio di impresa sia trasferito sui terzi creditori, sia [ LEGGI TUTTO ]