Sulla legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di opposizione alla fusione
Ai fini della prova della legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di opposizione alla fusione o alla scissione non è indispensabile che il credito dell’opponente risulti dalle scritture contabili della società coinvolta nell’operazione di fusione e indicata come propria debitrice, ché, invece, la dimostrazione della qualità richiesta può esser data anche in altro modo. In particolare, con riferimento ai crediti contestati, ai fini dell’apprezzamento della legittimazione all’opposizione il giudice investito dell’azione ex artt. 2506 ter e 2503 c.c. deve limitarsi a una cognizione sommaria circa l’esistenza e fondatezza delle ragioni di credito dell’istante, potendo respingere l’opposizione per carenza di legittimazione solo quando la pretesa dell’opponente si presenti prima facie manifestamente priva di fondamento.
Il titolare della quota pignorata è legittimato a impugnare la delibera invalida
Il diritto all’impugnazione della delibera assembleare spetta in maniera concorrente al custode della quota e al socio la cui quota sia stata sottoposta a pignoramento.
La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda e attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione da parte del convenuto. Contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotto dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori.
La conversione del credito di un socio in versamento in conto futuro aumento di capitale non necessita di una deliberazione assembleare, non essendo materia devoluta alla approvazione dei soci, bensì vertendosi in tema di fattispecie pattizia e necessitando dunque unicamente dell’accordo tra creditore e società, in persona del suo legale rappresentante, e non l’approvazione da parte della assemblea dei soci, che può solo prenderne atto. È dunque rimesso al socio titolare del credito la relativa decisione a cui deve seguire l’accettazione della società. L’adesione di quest’ultima a detta conversione può esser desunta da vari indicatori, tra cui ex latere societatis anche, in assenza di elementi di segno contrario, la collocazione della relativa posta nelle scritture contabili e la sua rappresentazione in bilancio o nelle situazioni patrimoniali.
Anche in corso di liquidazione i soci possono procedere al ripianamento delle perdite mediante riduzione del capitale e sua ricostituzione con apporto di finanza propria dei soci.
Class-action contro Balocco: la decisione del tribunale di Torino sul Pandoro-gate
In tema di pratiche commerciali scorrette sussiste il sistema del doppio binario di tutela, una amministrativa e l’altra di ordine giudiziario. La natura amministrativa dell’AGCM e dei provvedimenti che possono essere da questa adottati e il sistema del doppio binario escludono la possibilità di invocare il principio del “ne bis in idem”.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 840 sexiesdecies, comma 1, e 840 bis, c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 7 e 8 del D. M. 17 febbraio 2022 n. 27 per violazione degli artt. 3, 24, 111, 117 comma 1, Cost. e 6 CEDU.
Sono legittimate a proporre l’azione inibitoria collettiva le associazioni senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendono la tutela degli interessi pregiudicati dalla condotta di cui al citato art. 840-sexiesdecies, co. 1, primo periodo, c.p.c..
I requisiti di legittimazione delle associazioni che propongono l’azione di classe devono ritenersi sussistere, ove già accertati dal Ministero dello Sviluppo Economico in sede di conferma dell’iscrizione presso l’elenco delle associazioni di consumatori rappresentative a livello nazionale ai sensi dell’art. 17 del Codice del Consumo, nonché ulteriormente verificati dal Ministero della Giustizia in sede di iscrizione delle associazioni nell’elenco di cui all’art. 840 bis c.p.c., essendo tali associazioni legittimate a proporre l’azione fino alla data di aggiornamento dell’elenco ex art. 8, comma 1, del Decreto 17 febbraio 2022 n. 27.
In tema di sospensione necessaria del processo civile, benché nel testo dell’art. 295 c.p.c. manchi il riferimento ad una pregiudiziale controversia amministrativa, non può escludersi in via di principio la configurabilità di una sospensione necessaria del giudizio civile in pendenza di un giudizio amministrativo, che deve ritenersi ammissibile qualcosa imposta dall’esigenza di evitare un conflitto di giudicati, ipotesi che però non ricorre se il possibile contrasto riguardi soltanto gli effetti pratici dell’una o dell’altra pronuncia e, se, in particolare, tra i due giudizi sussista diversità di parti, ostandovi in questo caso il principio del contraddittorio.
Integra una pratica commerciale scorretta vietata dall’art. 20, comma 1, del Codice del Consumo, la diffusione di un comunicato stampa finalizzato alla presentazione della novità di un prodotto e di una iniziativa commerciale intrapresa dalla società produttrice dello stesso, ove quest’ultima risulti consapevole di aver già svolto l’attività reclamata, in quanto pratica contraria alla diligenza professionale. La medesima pratica è altresì idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio ove i messaggi diffusi al pubblico risultino idonei a fornire una rappresentazione scorretta dell’iniziativa commerciale intrapresa dalla società, lasciando intendere che il consumatore avrebbe potuto contribuirvi.
La possibilità di utilizzare la nuova “azione inibitoria collettiva” prevista dall’art. 840 sexiesdecies c.p.c. per conseguire “misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate” ossia per ottenere la tutela ripristinatoria trova il proprio confine invalicabile nell’assegnazione dei risarcimenti e delle restituzioni alla sola “azione di classe” come chiaramente dimostrato dalla specifica previsione dell’art. 840 bis, c.p.c. che, a differenza dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., prevede espressamente anche la “condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni”. Le “misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate” mirano a ristabilire lo stato di fatto preesistente e non un devono essere un mezzo per conseguire un risultato proiettato in avanti [nel caso di specie: la soddisfazione dell’intento che ha indotto i consumatori all’acquisto del prodotto].
Le irregolarità contabili non necessariamente creano un pregiudizio alla società
Sono privi di fondamento gli addebiti di responsabilità formulati nei confronti dell’amministratore convenuto nell’azione sociale di responsabilità, sotto il profilo della prospettazione del danno sofferto, in ragione delle presunte irregolarità contabili in misura pari alla somma di debiti intenzionalmente dissimulata e costituente un deterioramento effettivo e materiale della situazione patrimoniale della società, in quanto il deterioramento della situazione patrimoniale non deriva dalle irregolarità contabili in sé ma dallo squilibrio finanziario eventualmente connesso all’ammontare del debito sommerso e la falsità della rappresentazione contabile, sicuramente pericolosa per i terzi creditori e fornitori dell’impresa o per i terzi acquirenti delle partecipazioni dei soci, posto che le irregolarità contabili non necessariamente creano un pregiudizio alla società.
Dies a quo di decorrenza della prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, co. 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali, implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti. Sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell’impresa al momento dell’apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 168 del 2003, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse.
Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., anche se esercitate cumulativamente ai sensi dell’art. 146 l.fall., debbono considerarsi distinte, perché basate su presupposti differenti e soggette a diverso regime giuridico, con particolare riferimento al calcolo dei termini per la prescrizione. Infatti, le due azioni di responsabilità si prescrivono nel termine di cinque anni ex art. 2949 c.c.; tuttavia, la decorrenza del termine varia a seconda del profilo di responsabilità azionato dal curatore. Se il curatore agisce per far valere la responsabilità dei componenti degli organi sociali nei confronti della società ai sensi dell’art. 2393 c.c., il termine decorre da quando è cessata la carica prima del fallimento o da quando il fallimento è stato dichiarato, se il soggetto passivo dell’azione di responsabilità sia in carica in quel momento, in forza della causa di sospensione di cui all’art. 2941, n. 7, c.c. Se il curatore esercita invece l’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., il termine di prescrizione decorra dalla conoscibilità esteriore dell’incapienza patrimoniale e quindi dell’insufficienza dell’attivo sociale a soddisfare i debiti, in forza del dato normativo letterale secondo cui l’insufficienza patrimoniale deve comunque “risultare”, il che può avvenire prima, dopo o al momento del fallimento.
In considerazione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando pertanto all’amministratore che sollevi la relativa eccezione fornire la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.
La prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio, decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, o dalla cessazione dalla carica, bensì dal momento dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti e, per meglio dire, dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza di tale insufficienza. Tale incapacità, consistente nella eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale (che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo) né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento.
Non sono compromettibili in arbitri le controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili
Il criterio distintivo tra diritti disponibili e indisponibili al fine dell’accertamento della possibilità di devolvere una controversia ad arbitri si fonda sull’incidenza o meno della stessa controversi non solo sui diritti dei soci, ma anche su di quelli di terzi, dovendosi in tal ultimo caso parlare di diritti indisponibili mentre nel primo caso di diritti disponibili. In caso di diritti disponibili l’interesse coinvolto è, pertanto, meramente privatistico, ovvero riferito ai componenti la sola compagine sociale, mentre nel caso di diritti indisponibili l’interesse coinvolto è di tipo pubblico, ovvero coinvolgente anche l’interesse dei terzi estranei alla compagine sociale, anche in ragione di violazione di norme imperative.
Le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio sono inderogabili in quanto la loro violazione determina una reazione dell’ordinamento a prescindere dalla condotta delle parti e rende illecita, e quindi nulla, la delibera di approvazione. Ne consegue che non è compromettibile in arbitri la controversia relativa alla validità della delibera di approvazione del bilancio.
Non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di società, le quali sono nulle in relazione all’oggetto (illecito o impossibile) per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, venendo in rilievo norme non solo imperative, ma dettate a tutela, oltre che dell’interesse dei singoli soci, dell’interesse collettivo dei soci e di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l’effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell’ente, e quindi riguardanti diritti indisponibili.
Non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della deliberazione di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale di cui all’art. 2447 c.c., per violazione delle norme sulla redazione della situazione patrimoniale ex art. 2446 c.c., vertendo tale controversia, al pari dell’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, su diritti indisponibili, essendo le regole dettate dagli artt. 2446 e 2447 c.c. strumentali alla tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche dei terzi.
Legittimazione attiva e interesse ad agire, in quanto condizioni dell’azione, devono essere posseduti da chi agisce in giudizio tanto al momento della proposizione della domanda quanto al momento della decisione. Il potere-dovere del giudice di decidere il merito della controversia dipende infatti, oltre che dalla legittimazione, dalla sussistenza di un interesse concreto e attuale in capo all’attore, in difetto del quale la domanda deve essere dichiarata inammissibile. Il difetto della qualità di socio in capo all’attore al momento della proposizione della domanda, o a quello della decisione della controversia, esclude di regola la sussistenza in lui dell’interesse ad agire per evitare la lesione attuale di un proprio diritto e per conseguire con il giudizio un risultato pratico giuridicamente apprezzabile. Tuttavia, all’ex socio devono essere riconosciuti legittimazione ed interesse ad impugnare la delibera in conseguenza della quale egli ha perso tale qualità. Infatti, la legittimazione viene riconosciuta eccezionalmente all’ex socio nel caso in cui il venir meno della qualità di socio sia diretta conseguenza della deliberazione la cui legittimità egli contesta: poiché in tal caso anche la stessa legittimazione dell’attore ad ulteriormente interferire con l’attività sociale sta o cade a seconda che la deliberazione impugnata risulti o meno legittima, sarebbe allora logicamente incongruo, e si porrebbe insanabilmente in contrasto con i principi enunciati dall’art. 24, co. 1, Cost. l’addurre come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.
Il socio ha dritto a una chiara, corretta e veritiera rappresentazione di bilancio anche in caso di perdita del capitale sociale e di azzeramento del valore economico della singola partecipazione.
L’autorizzazione assembleare all’azione di responsabilità è una condizione dell’azione attinente alla legittimazione processuale sanabile ex tunc
La responsabilità dell’amministratore nei confronti della società ha natura contrattuale, che trova la sua fonte nel rapporto sociale che si instaura tra la società e il soggetto chiamato a ricoprire una carica sociale, dalla quale deriva l’obbligo di rispetto dei doveri previsti dalla legge e dallo statuto, che ha lo scopo di reintegrare il patrimonio sociale leso da condotte poste in essere dagli amministratori in violazioni di tali doveri. Quanto all’onere della prova, è necessario e sufficiente che la società alleghi l’inadempimento, indicando gli specifici obblighi di legge o di statuto violati dall’amministratore, nonché che indichi e fornisca la prova del danno subito e del nesso di causalità tra il comportamento illecito e il pregiudizio dallo stesso derivante. Incombe, invece, sul convenuto l’onere della prova della non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
L’azione di cui agli artt. 2395, per le s.p.a., e 2476, co. 6, c.c., per le s.r.l., è esercitabile a vantaggio del singolo socio o creditore, direttamente danneggiato da un comportamento illecito di amministratori o sindaci, nella propria sfera giuridico patrimoniale. L’azione diretta non può essere esercitata per il ristoro del danno subito dal singolo socio o creditore per effetto della diminuzione del patrimonio sociale causata dal comportamento illecito, perché si tratta in tal caso di un danno solo riflesso, cioè derivante indirettamente dagli effetti della diminuzione del patrimonio della società a causa dell’illecito sul valore delle quote sociali o sulle possibilità di soddisfacimento dei creditori. Dovrà, dunque, trattarsi di un comportamento illecito posto in essere direttamente dagli amministratori, pur sempre in violazione dei doveri connessi alla carica rivestita, contro il singolo soggetto, socio o creditore, che dunque ne sarà il solo e diretto danneggiato e, pertanto, l’unico legittimato a tale azione.
In tema di azione sociale di responsabilità, il giudice deve preliminarmente verificare l’esistenza della deliberazione assembleare che ne approvi l’esercizio, poiché tale deliberazione costituisce un presupposto, suscettibile di regolarizzazione ex tunc, che attiene alla legittimazione processuale della parte attrice, la cui assenza, incidendo sulla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche in sede di legittimità, salvo il giudicato interno che, però, si forma solo quando la decisione impugnata sia stata adottata dopo che la specifica questione abbia formato oggetto di discussione nel contraddittorio delle parti. È sufficiente che tale autorizzazione sussista nel momento della pronuncia della sentenza che definisce il giudizio.
Sulla legittimazione del singolo componente del CdA a impugnare la delibera assembleare di s.p.a.
Il potere, riconosciuto agli amministratori di s.p.a. dall’art. 2377, co. 2, c.c., di impugnare le deliberazioni dell’assemblea della società che non siano state prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo, spetta al CdA e non agli amministratori individualmente considerati, atteso che tale potere è attribuito per la tutela degli interessi sociali, e dunque richiede una deliberazione dell’organo incaricato di detta tutela, il quale, nella società retta da un consiglio di amministrazione, si identifica, appunto, nel consiglio, e non nei singoli componenti di esso. Una legittimazione del consigliere di amministrazione all’impugnazione della delibera assembleare può sussistere qualora questi venga immediatamente leso in un suo diritto dalla delibera stessa: il singolo componente del CdA è legittimato a impugnare per l’annullamento esclusivamente la decisione dell’assemblea che abbia leso la sua posizione individuale.
L’elenco delle materie da trattare all’ordine del giorno dell’assemblea deve essere redatto in modo sintetico e comprende, quindi, anche argomenti impliciti, presupposti, conseguenziali o accessori rispetto a quelli specificamente previsti [nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che nel punto dell’o.d.g. relativo a “Revoca deleghe e poteri attribuiti all’amministratore delegato. Determinazioni” fosse implicita la discussione sulla decadenza dell’amministratori, poiché l’argomento non sarebbe di competenza dell’assemblea ove la revoca delle deleghe non dipendesse a monte da una causa di cessazione dell’amministratore delegato dalla carica gestoria].
Azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare: questioni processuali
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. per le s.p.a. e dall’art. 2476, co. 3 e 6, c.c. per le s.r.l., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali -, implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi e indipendenti, con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe, sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione e dei limiti al risarcimento ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali.
L’azione sociale, intrapresa ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., mira a far valere la responsabilità degli amministratori per quelle violazioni dei loro doveri che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Questi, infatti, sono chiamati ad adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, esponendosi a responsabilità per i danni derivanti dall’inosservanza dei cennati doveri. L’inadempimento degli amministratori ai loro obblighi può essere fatto valere direttamente dalla società sicché in ipotesi di esercizio della predetta azione nel caso di fallimento, la sostituzione del curatore alla società fallita è una manifestazione specifica del generale effetto per cui il curatore, ai sensi dell’art. 43 l. fall. sta in giudizio nelle controversie relative ai rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.
L’insufficienza patrimoniale – cui si ricollega la responsabilità degli amministratori e dei sindaci della società verso i creditori – deve essere individuata nell’eccedenza delle passività sulle attività del patrimonio netto dell’impresa, ovverossia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulti insufficiente al soddisfacimento di questi ultimi. Essa va distinta dall’eventualità della perdita integrale del capitale sociale, dal momento che quest’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi è un pareggio tra attivo e passivo perché tutti i beni sono assorbiti dall’importo dei debiti e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società. L’insufficienza patrimoniale è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, definita dall’art. 5 l. fall. come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, così come potrebbe accadere l’opposto, vale a dire che l’impresa possa presentare una eccedenza del passivo sull’attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste (per esempio ricorrendo ad ulteriore indebitamento).
Il criterio dello sbilancio fallimentare può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore; o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Il giudice non può pervenire in via automatica ad una liquidazione equitativa del danno secondo tale criterio, ma unicamente laddove il curatore, dopo aver allegato gli inadempimenti dell’amministratore almeno astrattamente idonei a porsi come causa del danno lamentato, indichi le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.
Legittimazione all’impugnazione della delibera assembleare ed effetti della sospensiva cautelare
L’azione di annullamento delle delibere assembleari presuppone, quale requisito di legittimazione, la sussistenza della qualità di socio dell’attore non solo al momento della proposizione della domanda, ma anche al momento della decisione della controversia, tranne nel caso in cui il venir meno della qualità di socio sia diretta conseguenza della deliberazione la cui legittimità egli contesta. È pertanto privo di legittimazione attiva ad impugnare una delibera assembleare colui che non era socio al momento dell’adozione della suddetta delibera, avendo egli perso la sua qualità di socio in conseguenza di una precedente delibera di esclusione di cui sia pur stata disposta la sospensione in via cautelare in un secondo momento.
La sospensiva cautelare di una delibera assembleare non retroagisce al momento della domanda ma produce i suoi effetti soltanto a partire dalla sua concessione. Invero, unicamente la sentenza di merito determina la rimozione totale del provvedimento gravato, provocando l’eliminazione, con efficacia ex tunc, degli effetti medio tempore prodotti e con preclusione di eventuali sue reiterazioni pedisseque, in virtù dell’exceptio rei judicatae: effetti, questi ultimi, che non conseguono in alcun modo alla mera sospensione interinale. Pertanto, alla sospensione della delibera assembleare di esclusione del socio deve essere ascritta la mera finalità di evitare che la durata del processo possa incidere irreversibilmente sulla posizione del socio stesso, qualora, all’esito del giudizio, egli venga confermato tale (natura conservativa), consentendo un ripristino provvisorio del rapporto societario ed evitando che la posizione di socio venga ad essere definitivamente compromessa, non solo non percependo gli utili, ma anche e soprattutto non potendo influire – cosa ancora più evidente quando si tratti, come nel caso concreto, di società di persone – sull’amministrazione e gestione della società.
Quando due giudizi tra cui sussiste pregiudizialità risultino pendenti davanti al medesimo ufficio giudiziario, non deve disporsi la sospensione di quello pregiudicato, ma occorre verificare la sussistenza dei presupposti per la riunione dei processi ai sensi dell’art. 274 c.p.c.