In relazione al marchio debole, sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modifiche o aggiunte.
Per assolvere alla sua funzione di identificazione del prodotto o servizio in relazione alla impresa che lo offre, il marchio deve possedere capacità distintiva, normalmente garantita da un distacco concettuale, più o meno accentuato, fra il segno e il bene (prodotto o servizio) a cui si riferisce, secondo una ideale curva progressiva del parametro della capricciosità e dell’arbitrarietà del collegamento, che va dalla generica denominazione del prodotto o servizio stesso (che possiede un tasso di distintività pari a zero), sino all’assenza assoluta di collegamento logico (distintività massima), attraverso gradini intermedi che declinano in via decrescente l’intensità del collegamento logico fra segno, da una parte, e prodotto o servizio, dall’altra.
Segnatamente, sono considerati marchi deboli quelli concettualmente legati al prodotto per non essere andata la fantasia di chi li ha concepiti oltre il rilievo di un carattere o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un uso esclusivo.
La “debolezza” del marchio non incide sulla sua attitudine alla registrazione, ma sull’intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio “forte”, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.
Confondibilità tra marchi e misure cautelari
L’accertamento circa la confondibilità tra marchi e segni in conflitto non deve essere compiuto in via analitica, attraverso la separata considerazione dei singoli elementi di valutazione, ma deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all’insieme dei relativi elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, ove esistenti e deve, inoltre, fondarsi sull’impressione complessiva prodotta dai marchi a confronto, in considerazione dei loro elementi distintivi e dominanti, tenuto conto delle normali diligenza e avvedutezza dei consumatori e del normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato.
Nell’indagine in ordine a una contraffazione, destinata a rilevare soltanto in relazione agli elementi essenziali del marchio, l’interprete deve preventivamente individuare il “cuore”, ossia l’idea fondamentale che è alla base e connota il marchio di cui si chiede la tutela e in cui si riassume la sua attitudine individualizzante, dovendosi ritenere inidonee a escludere l’illecito tutte le variazioni e modificazioni, ancorché rilevanti e originali, che lascino sussistere la confondibilità del nucleo ideologico-espressivo.
Quando un marchio è composto da elementi verbali e figurativi, i primi risultano, in linea di principio, maggiormente distintivi dei secondi, dacché il consumatore-tipo di riferimento, che solitamente dimostra un livello di attenzione medio rispetto ai prodotti e ai servizi in questione, opererà più facilmente riferimento al prodotto di cui trattasi citandone il nome, anziché descrivendo l’elemento figurativo del marchio.
L’eventuale qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell’adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all’identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente.
Ai fini della concessione della descrizione delle scritture contabili, il pericolo di dispersione o rimozione deve ritenersi a priori scongiurato dalla sussistenza in capo ad un imprenditore commerciale, di un obbligo legale di tenuta e conservazione, ai sensi dell’art. 2220 c.c., il quale impone la conservazione delle scritture contabili, nonché delle fatture e della corrispondenza commerciale per la durata di almeno dieci anni dalla data dell’ultima registrazione.
Ai fini della concessione dell’inibitoria, la natura permanente dell’illecito e la progressiva estensione della sua idoneità lesiva implicano un rapporto non già inversamente, bensì direttamente proporzionale tra l’urgenza di eliminazione del protrarsi della situazione dannosa e il decorso del tempo.
La convalidazione del marchio: presupposti e natura dell’istituto. Il caso Fiorentina
L’istituto della convalidazione del marchio disciplinato dall’art. 28 c.p.i. ha natura eccezionale. Pertanto, è necessario che il suo accertamento avvenga caso per caso e in modo rigoroso.
Benché debba ritenersi non sufficiente a integrare la malafede prevista dall’art. 28 c.p.i. la semplice conoscenza dell’esistenza del marchio anteriore altrui, la diffusione, la notorietà e l’affermazione presso il pubblico del segno anteriore consentono di affermare che vi sia, in capo al titolare del marchio posteriore, la volontà di confondersi o agganciarsi al segno anteriore.
Il responsabile delle attività di redazione di una testata giornalistica on-line è responsabile in solido con il titolare della stessa per gli illeciti di contraffazione e concorrenza sleale realizzati tramite i contenuti pubblicati, in quanto concorrente nella condotta illecita. Non rileva, ai fini dell’imputazione della responsabilità, l’assenza di malafede del redattore.
In presenza di un marchio debole, le modificazioni idonee ad escludere la confondibilità, seppur lievi, devono in ogni caso avere una valenza distintiva idonea a differenziare il marchio modificato dall’originario marchio debole [nel caso di specie non è stata considerata idonea l’aggiunta del top level domain “.it” nel marchio denominativo per differenziarlo dal marchio debole anteriore].
La tutela giuridica del marchio debole utilizzato per commercializzare una varietà di olio d’oliva
La qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell’adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all’identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente.
In tema di tutela del marchio, l’attitudine dei beni a soddisfare le medesime esigenze di mercato, da cui dipende l’affinità tra prodotti contraddistinti da marchi simili ai fini del giudizio di confondibilità tra gli stessi, consiste nella circostanza che i beni o i prodotti siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche, o strettamente correlate, tali per cui l’affinità funzionale esistente tra quei beni o prodotti e tra i relativi settori merceologici induca il consumatore a ritenere che essi provengono dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dall’eventuale uniformità dei canali di commercializzazione. [ Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto priva di pregio la tesi di parte resistente che intende escludere la confondibilità tra i due marchi in ragione dei differenti canali di commercializzazione dei prodotti utilizzati, focalizzando l’attenzione sull’assenza di uno store online per i prodotti commercializzati da parte ricorrente, nonché la differente platea di riferimento e lo sviluppo del bene su territori differenti.]
Pronuncia cautelare di accertamento negativo di contraffazione in relazione ad un marchio “giovane”: periculum in mora e aspetti di merito
Lo strumento anticipato, pur non godendo di giudicato, fornisce all’imprenditore una copertura che gli permette di operare con (relativa) tranquillità anche durante i tempi dell’eventuale giudizio di merito, offrendogli copertura anche nei rapporti con i terzi, e così riducendo la dispersione di progetti ed energie imprenditoriali; e ciò anche senza e prima che egli abbia iniziato a subire ripercussioni concrete dell’avversaria doglianza.
Non vi è spazio per ravvisare un superamento della debolezza del segno nel mero fatto che vi siano stati sforzi pubblicitari, dal momento che, trattandosi di un marchio “giovane”, occorrerebbe conoscere se tali sforzi abbiano ottenuto un qualche effetto presso il pubblico, rafforzando il marchio. Basta dunque un distanziamento anche lieve per assicurare al segno posteriore la dignità della non contraffazione.
La rigorosa tutela del marchio “forte”
Il marchio “forte” è tutelato nel suo nucleo ideologico e pertanto sono illegittime tutte quelle variazioni, anche rilevanti e originali, che lasciano comunque sussistere l’identità sostanziale del segno. Conseguentemente, in tal caso, per evitare la confondibilità tra i segni non è sufficiente una minima modifica della parte denominativa o figurativa del marchio in contraffazione. Il marchio “forte” è assistito dalla più rigorosa tutela, connotata da una maggiore incisività che rende illegittime le variazioni anche originali che, comunque, lasciano intatto il nucleo ideologico che riassume l’attitudine individualizzante del segno, giacché anche lievi modificazioni, che il marchio debole deve invece tollerare, condurrebbero al risultato di pregiudicare il risultato conseguibile con l’uso del marchio. Ciò posto, per il marchio forte, devono ritenersi illegittime tutte le variazioni e le modificazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del “cuore” del marchio, ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume cauterizzando la sua spiccata attitudine individualizzante.
L’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti.
Strutture turistiche: rischio di confusione e/o di associazione tra marchi figurativi
Le norme di cui all’art. 20 c.p.i. richiedono, ai fini del giudizio di confondibilità, una doppia verifica: quella sull’identità o affinità tra i prodotti o servizi e quella sull’identità o somiglianza tra i segni a confronto. Infatti, la sussistenza di un rischio di confusione va apprezzata attraverso una valutazione globale, tenendo conto dell’impressione d’insieme che suscita il raffronto tra i due segni mediante un esame unitario e sintetico che tenga in considerazione i diversi fattori pertinenti del caso di specie tra di loro interdipendenti, quali la identità/somiglianza dei segni, la identità/somiglianza dei prodotti e servizi, il carattere distintivo del marchio anteriore, gli elementi distintivi e dominanti dei segni concorrenti, in relazione al normale grado di percezione dei potenziali acquirenti del prodotto del presunto contraffattore. La confondibilità dei marchi a confronto non deve essere accertata esclusivamente in via analitica, effettuando un esame particolareggiato e una valutazione separata di ogni singolo elemento di dettaglio, neppure può essere valutata avendo riguardo non tanto delle differenze, quanto delle concordanze tra i segni messi a confronto. La dialettica tra esame analitico ed esame sintetico non va risolta in termini di alternatività, quanto piuttosto in termini di complementarità, trattandosi dei due momenti necessari del giudizio di confondibilità. Nel senso che, qualora siano implicati molteplici elementi formali, ad una prima fase di comparazione delle singole caratteristiche essenziali, deve seguire una fase di sintesi dei risultati acquisiti, al fine di relativizzare il risultato dei vari dati formali in quello che è l’aspetto globale del segno. In tal modo, l’esame sintetico assume il ruolo di elemento di chiusura della ricognizione concreta, condotta caso per caso, degli elementi costitutivi dei segni a confronto.
Marchio complesso e valutazione di capacità distintiva
Un marchio è qualificabile come “complesso” qualora tutti gli elementi del segno (figurativi o denominativi) godano di autonoma capacità distintiva rispetto agli altri; è, invece, “d’insieme” quello i cui elementi costitutivi, isolatamente considerati, non godano di tale capacità distintiva. In tale caso il carattere “forte” o “debole” del marchio non va predicato solo in ragione dei singoli elementi che ne fanno parte, ma dell’effetto che suscita l’accostamento di questi ultimi.
In particolare, secondo costante insegnamento giurisprudenziale, «il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato debole, tale seconda fattispecie differenziandosi, peraltro, dal marchio di insieme in ragione del fatto che i segni costitutivi di quest’ultimo sono privi di un’autonoma capacità distintiva, essendolo solo la loro combinazione».
Le nozioni di marchio ‘forte’ e ‘debole’ non sono codificate ma sono frutto di elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale giunta a qualificare come “forte” il marchio privo di qualsiasi collegamento concettuale con il prodotto o servizio cui accede, e come “debole” il marchio che, pur non risolvendosi in un’indicazione del genere merceologico pura e semplice (che non è ammessa, ex art. 13 co. 1°, lett. b) c.p.i.), presenta un collegamento concettuale immediato con la stessa
Rapporto di inerenza tra la domanda di merito volta ad accertare la contraffazione del marchio debole e la successiva domanda cautelare
Ove nel giudizio di merito venga invocata la tutela del marchio non solo nei confronti di segni e/o marchi allegati e specificamente individuati, ma anche di qualsiasi altro segno distintivo simile a quello azionato, l’ampliamento dell’azione di contraffazione a nuovi marchi che presentano gli stessi profili di illiceità non travalica le barriere preclusive previste dal codice di rito (nel senso di emendare il petitum ben oltre i relativi termini ex art. 183 c.p.c.) a presidio della definitiva formazione del thema decidendum e del thema probandum della causa di merito. Infatti, anche i nuovi segni aventi determinate caratteristiche devono ritenersi compresi nel perimetro oggettivo dell’originaria azione di merito. Ne consegue allora che qualsivoglia nuovo marchio o segno distintivo, che comunque utilizzi una delle due componenti caratteristiche del marchio oggetto della domanda di contraffazione, va considerato compreso nel thema decidendum e potrà essere preso in considerazione anche dalla sentenza resa all’esito del giudizio di merito.
[Nel caso in esame, l’organo giudicante specifica che l’eventuale statuizione di accoglimento della domanda di contraffazione non potrà limitarsi ad inibire genericamente l’uso di qualsiasi altro segno distintivo identico o simile al marchio/i dell’attore, ma dovrà indicare con precisione quale/i caratteristiche specifiche del/i marchio/i dell’attore non potranno essere usate nei nuovi o futuri segni distintivi utilizzati dalla convenuta.]
Marchi deboli e rischio di confondibilità
La nozione di «luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto» sancita dall’art. 5.3 del Reg. 44/2001/CE, oggi art. 7 n.2 del Reg. 1215/2012, deve essere interpretata come comprensiva sia del luogo in cui si è verificata l’azione (o l’omissione) da cui il danno è derivato, sia di quello in cui il danno in questione si è manifestato, da intendersi come luogo in cui l’evento ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi. Ai fini dell’individuazione di entrambi tali luoghi con riferimento agli illeciti costituiti dalla violazione di diritti di proprietà industriale e, in particolare del luogo del danno, deve essere affermato come la natura territoriale che connota tali diritti comporta la sua necessaria identificazione con il territorio dello Stato membro in cui il diritto di privativa è tutelato ed in cui, dunque, si verifica la sua lesione.
Il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato “debole”.
Marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo; peraltro, la loro “debolezza” non incide sull’attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.
Ai fini della concorrenza sleale, il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero “rilevante”), ossia quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza (nel caso di specie è stata esclusa la sussistenza dei presupposti di un’ipotesi di concorrenza sleale in quanto i vini a cui è stata apposta l’etichetta riportante il segno asseritamente in contraffazione erano destinati alla commercializzazione esclusivamente sui mercati americani e inglesi; mentre i vini del titolare del marchio erano commercializzati esclusivamente in Italia).
Premesso che l’art. 121, comma 1, c.p.i., in linea con i principi generali dell’art. 2697 c.c., dispone che l’onere di provare la decadenza di un marchio per non uso grava su chi impugna la privativa; la stessa norma precisa poi che, quando si voglia far valere la decadenza di un marchio per non uso, questo possa essere provato con qualsiasi mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici e ciò implica che il giudice può considerare provato il mancato uso quinquennale (consecutivo) del marchio in base ad un procedimento deduttivo da lui stesso condotto sulla base di ulteriori fatti dimostrati in causa.
L’inibitoria contemplata dall’art. 7 c.c. non consegue al semplice uso indebito da parte del terzo di un nome che compete ad altri, ma è necessario che da tale uso consegua un pregiudizio sia pure soltanto nel patrimonio morale di colui che chiede tutela.